Diciotto
Alex smette di leggere. Nessuno dei due dice una parola. Onestamente, non so perché non sto saltando in giro per la stanza per l’emozione. L’uomo della lettera d’addio mi ha parlato di nuovo. Mi ha fornito nuove informazioni sulla sua vita per aiutarmi a risolvere il mistero della sua morte. Allora capisco che cosa sto provando. Un’enorme ondata di delusione. Volevo che la scritta mi raccontasse molto di più. Che rispondesse a tutte le domande che mi sono posta dopo aver letto la lettera di suicidio… di addio. Come si chiamava? Quali errori ha commesso? Chi sono gli innocenti a cui ha accennato?
Alla fine parlo, anche se in realtà è solo un sussurro. «Non ha detto come si chiamava».
Come al solito, Alex esamina tutto con l’occhio attento dell’avvocato. «Be’, è il tipico dramma russo. Coppia sposata con figli, all’esterno sembra tutto rose e fiori, ma all’interno è un vero disastro. Chiunque abbia lasciato questo messaggio stava sicuramente scrivendo un’opera teatrale. Una di quelle opere russe molto tragiche che, per quanto ne so, sono le uniche che esistono».
«È tragico davvero», rispondo io a bassa voce. «Non è un’opera; è tutto vero».
Il volto di Alex assume un’espressione confusa. «Da cosa l’hai capito?».
Ora devo prendere una decisione: gli mostro il messaggio d’addio oppure no? La lettera è talmente intrisa di dolore e rimpianto, talmente privata che mi sembra quasi un tradimento condividerla con qualcun altro. Ma come faccio altrimenti a far capire ad Alex perché ho bisogno di andare in fondo a questa storia?
È sorpreso quando prendo la borsa. Tiro fuori la lettera e gliela porgo.
Quando finisce di leggerla, mi sento trafiggere dal suo sguardo preoccupato. «Che cos’è?».
Vuoto il sacco. «È una lettera di suicidio, anche se io preferisco considerarlo un messaggio di addio. Il giorno in cui mi sono trasferita qui l’ho trovata incastrata dietro i cassetti dell’armadietto accanto al letto. La scritta in cirillico in fondo è quella che ti ho mostrato al pub. È la stessa grafia di quella sul muro. Lo stesso uomo. Sta cercando…».
Le parole sgorgano senza sosta, accavallandosi l’una sull’altra e susseguendosi in maniera caotica, rivelano che ho perso il controllo. E, a giudicare dall’espressione inorridita sul viso di Alex, forse se n’è accorto anche lui.
Alla fine mi interrompe con un gesto perentorio della mano. «Hai detto che è la lettera di suicidio scritta da un uomo che una volta viveva in questa stanza?».
Mi affretto ad annuire. «Ma Martha – be’, in realtà Jack – insiste a dire che nessun altro ha preso in affitto questa camera prima di me». Sussulto. Deglutisco. «Credo si sia ucciso qui…».
«Cosa? In questa stanza?». Alex è in preda all’orrore.
«Sì. Ho bisogno di scoprire perché l’ha fatto».
Alex mi restituisce la lettera tenendola con la punta delle dita, come se fosse impregnata della peggiore delle malattie. Il modo in cui mi fissa mi fa capire a cosa sta pensando.
Esplodo. «Non osare darmi della fuori di testa».
«Non avevo intenzione di dire niente del genere. Questa storia è inquietante. Preoccupante. Un uomo si toglie la vita nel luogo in cui ci troviamo ora, lascia una lettera di suicidio e scrive sul muro una frase in una lingua straniera, e tu ti aspetti che io reagisca come se avessimo appena letto una pagina del «Guardian».
Agitata, indico la parete. «Devono esserci altre scritte sul muro. Questo è solo l’inizio».
Per dimostrare cosa intendo comincio a sbucciare la sezione successiva di carta da parati, che però non svela nessun’altra scritta. Dev’essere lì. Non riesco a calmarmi.
«Lisa, fermati».
L’ordine perentorio di Alex mi fa indietreggiare sulle gambe malferme. Sto andando in iperventilazione, scossa dai fremiti. Anche se in camera fa freddo, la pelle mi va a fuoco.
«Questa faccenda mi sta spaventando a morte», commenta Alex.
Si dirige verso la porta e si fionda giù per le scale prima che possa dirgli di tornare indietro.
«Ti prego, Alex, aiutami a trovare il resto».
Allora torna su di corsa e mi guarda dritto negli occhi. «È probabile che non ci sia nient’altro. Quel poveretto forse si è fatto fuori prima di poter scrivere altro. Perché è così importante per te?».
Tengo le labbra ben sigillate. Poi dico: «Voglio che mi aiuti a scoprire chi era».
Con un’esclamazione di frustrazione, torna giù per le scale. Io non scendo. Resto al secondo piano. Alex viene inghiottito dalla semioscurità, un’ombra che apre la porta ed esce dalla mia vita. Jack dice che l’inquilino non è mai esistito, quindi come faccio a scoprire la sua identità?
Mentre torno in camera mia sento il telefono che trilla. È un messaggio di papà, mi ricorda che lui e la mamma verranno a trovarmi. Non rispondo. Al contrario, accarezzo piano la carta da parati per ricoprire le parole di un uomo morto.
I miei genitori si siedono a un lato della stanza, io dall’altro. Mamma stringe in mano una tazza di tè senza zucchero mentre papà culla un bel bicchiere di brandy. Sono arrivati per la loro visita concordata alle quattro in punto, ci siamo scambiati baci e abbracci sulla porta come di consueto. Abbiamo parlato del più e del meno, imbarcandoci in una chiacchierata strana e frettolosa, soprattutto la mamma che ha praticamente finito ogni frase con un nervoso colpo di tosse. Abbiamo esaurito tutti gli argomenti sicuri: il mio lavoro, il tempo, la condizione in cui versa la nazione.
Ora ci troviamo di fronte a un silenzio che conosciamo tutti molto bene. Un momento di quiete nel quale stanno analizzando con cura tutto ciò di cui in realtà sono venuti a parlarmi.
È inutile dire che l’ultima cosa di cui ho bisogno al momento è una visita dei miei. Per quanto li riguarda, ora come ora sono a tutti gli effetti una potenziale suicida. Così come un criminale resta sempre un criminale agli occhi sospettosi del mondo, un tentativo di suicidio resta sempre un tentativo di suicidio anche se non hai mai voluto farlo davvero. Perciò, quando la gente dice: «Allora, come ti senti adesso?», ciò che in realtà vuol dire è: «Hai cercato di ammazzarti di recente?». Quindi li lascio fare e spero che non duri troppo.
Papà è arrivato con un mazzo di fiori del loro giardino, mentre la mamma ha portato un cesto di frutta. Forse qualcuno in chiesa le ha detto che la frutta fa bene agli aspiranti suicidi. Potrebbe essere così.
È mio padre a rompere il silenzio. «Allora, come ti senti, Lisa?».
So che mio padre ha a cuore il mio benessere, che mi ama e che vuole soltanto il meglio per me, ma sono stanca di queste domande. Ogni frase è un ago che mi punge nei punti in cui sono più vulnerabile, che solo di recente, e solo in parte, ho lasciato uscire dall’ombra.
«Sto bene». So quale sarà la prossima domanda, quindi aggiungo: «Sono stata dal dottor Wilson».
Le mie parole rallegrano la mamma. Sfodera un’espressione di beato sollievo. «Sono così contenta. Ero davvero preoccupata per te». Dà un lieve colpo di tosse per soffocare l’emozione tremante che ha appena messo a nudo nella stanza.
È in momenti come questo che mi vergogno di pensare che mi abbiano mentito riguardo al passato. Riguardo all’incidente del mio quinto compleanno. Sono così fortunata ad averli. Forse è ora di dimenticare il passato e di andare avanti, guardando soltanto al futuro.
«Mi dispiace tanto, mamma. So che tu e papà stavate solo cercando di aiutarmi». Chino il capo. «Devo proprio essere una grossa delusione per voi».
La risposta di mia madre è severa e dura. Posa la tazza di tè. «Che non ti senta mai più dire una cosa del genere. Dal giorno in cui sei entrata nelle nostre vite sei stata la nostra gioia più grande».
Dal giorno in cui sei entrata nelle nostre vite. È uno strano modo per esprimere il concetto. Di sicuro una madre avrebbe formulato la frase più o meno così: «La prima volta che ti ho stretta fra le braccia». Smettila! Smettila! Eccoti di nuovo, a leggere nelle cose messaggi nascosti che non esistono. O, come direbbe Shakespeare, “Nulla è, tranne ciò che non è”.
«È molto bravo, vero?», dice papà con una certa dose di orgoglio nei confronti delle abilità del dottor Wilson.
«Ha davvero un bel modo di fare e parliamo molto», gli concedo.
«Negli anni Novanta aveva uno studio in California».
È chiaro che mio padre pensa che uno studio sulla West Coast dimostri quanto sia in gamba come strizzacervelli.
«Credi che possa esserti d’aiuto?». La domanda di mamma è talmente carica di speranza che è doloroso sentirla.
Decido di rispondere con una frase che sarà difficile da dire per me quanto da ascoltare per loro. «Abbiamo parlato della possibilità che stessi davvero cercando di uccidermi».
Ecco fatto. È tutto alla luce del sole. Abbiamo finalmente tirato fuori l’argomento spinoso.
Papà ha l’aria di chi ha appena ricevuto un pugno a tradimento e mamma, la mia povera mamma, ha un colorito verdastro come se stesse per vomitare.
Ma papà si ricompone in fretta e decide di fare ricorso alla sua voce da ex medico. «Ed è così?».
Sono onesta con i miei genitori per la prima volta. «Non lo so. Ero stressata, la vita correva così veloce che per me era difficile stare al passo. Volevo che tutto – tutto quanto – rallentasse, che si fermasse addirittura, ma non accadeva nulla. I brutti sogni erano tornati, e anche il sonnambulismo. Assomigliavo a uno di quegli zombie di The walking dead». Con lo sguardo li imploro di capirmi. «Volevo che finisse. Che finisse e basta».
Mamma deve aver capito che sono sull’orlo delle lacrime perché mi avvolge nel suo abbraccio d’amore e io mi aggrappo a lei come fosse la mia unica salvezza. Respiro tutto il suo conforto e la sua sicurezza, il genere di cose che mi sono mancate per così tanto tempo.
«Noi ti amiamo, tesoro», canticchia sui miei capelli. «Non dimenticarlo mai. Ti amiamo».
Con un filo di voce, papà aggiunge: «Saresti potuta venire da noi in qualunque momento. Noi ci siamo sempre per te».
Pian piano, mi sciolgo dall’abbraccio di mia madre per guardarlo in faccia. Vedo impresse sul suo volto le sofferenze e le lotte di una vita. Mi alzo e vado verso di lui. Mi siedo al suo fianco e gli appoggio la testa sulla spalla. Con un braccio, mi stringe a sé.
«Ti ricordi quella volta che siamo venuti a Londra quando avevi dieci anni?».
Annuisco contro la sua spalla.
«Ricordi che decidemmo di andare da Harrods? Tu continuavi a dire che ti annoiavi, che non avevi voglia di vedere vestiti e mutandoni per vecchie signore».
«Edward!», lo interrompe mamma, scandalizzata.
La nostra risata risuona nella stanza. Oddio, è una sensazione così bella stare di nuovo noi tre insieme, come una famiglia. Se solo il tempo potesse fermarsi, vorrei che fosse esattamente così: io al centro, mamma e papà al mio fianco. E stiamo sorridendo, con gli occhi che ridono, godendoci il meglio della vita su questa Terra.
«Poi ti perdesti», prosegue papà. «Eravamo entrambi in ansia. Dopodiché so solo che sentimmo un annuncio del centro commerciale che chiedeva ai genitori di Lisa Kendal di andare al banco informazioni».
Quello che non ho mai raccontato ai miei è che mi avevano trovata nel reparto profumeria mentre spulciavo fra i cosmetici. Era stata una delle commesse a individuarmi mentre passavo le dita sui tester di cipria per poi strofinarmi ogni gradazione sul braccio. Non ho mai dimenticato la conversazione che ebbi con lei.
«Dove sono la tua mamma e il tuo papà, splendore?», mi aveva chiesto, accovacciandosi per guardarmi negli occhi.
Avevo spalancato la bocca per lo stupore; il suo viso era la cosa più perfetta che i miei giovani occhi avessero mai visto.
Avevo completamente ignorato la domanda e indicato le ciprie. «Sto cercando di scegliere il colore più giusto per me».
Il sorriso smagliante che mi aveva rivolto era perfetto quanto il resto. «E dimmi, perché vorresti mettere qualcosa sulla tua bellissima pelle?»
«Per via di queste. Voglio coprirle».
Allora mi ero arrotolata la manica del vestitino estivo e le avevo mostrato le cicatrici. Avevo atteso l’inevitabile “Oh, povera piccola”, oppure un commento cattivo: “Scarface”, così mi avevano soprannominata alcune ragazzine a scuola. Ma quella dea non aveva detto nulla di tutto ciò. Non aveva nemmeno trattenuto un sospiro di sorpresa.
Il suo sorriso si era allargato. «Tesoro, l’aspetto esteriore è solo una questione superficiale. È dentro di te che si trova la vera bellezza. È qui». Mi aveva preso la manina e me l’aveva posata sul cuore.
Avrei dovuto trasformare quelle parole nel mio motto, lasciare che mi guidassero attraverso le difficoltà della vita. Probabilmente mi avrebbero risparmiato un’infinità di sofferenze lungo la strada.
«Sai perché ero così fiero di te quel giorno?», dice papà, riportandomi al presente. «L’uomo al banco informazioni ci disse quanto eri stata coraggiosa». Mi bacia piano. «Sarai sempre la nostra piccola bambina coraggiosa».
Un brivido di pura felicità e senso di appartenenza mi attraversa il corpo. Significa così tanto per me. Per molto tempo ho creduto di essere la cosa peggiore che gli fosse mai capitata.
Ci rimettiamo seduti a chiacchierare, a condividere ricordi e a ridere quando mamma chiede: «Non credete che sia un po’ strano che non si sia mai sposato? Insomma, è un tipo così attraente».
«Di chi stai parlando?», ribatto.
«Di Tommy Wilson». Ah, ha affondato gli artigli da pettegola nel buon dottore. In linea generale mamma disapprova le chiacchiere; tuttavia, di tanto in tanto non riesce a trattenersi. «Oh! Non penserete che sia… insomma, lo sapete?»
«Gay?», suggerisco. «Non è una parola vietata, mamma. Ci sono un sacco di uomini gay ed emancipati là fuori, e se il dottor Wilson è gay qual è il problema?».
Allora papà si stacca da me e guarda la mamma, accigliato. «Possiamo lasciare Tom fuori da questa conversazione?»
«Dico tanto per dire, caro. Non dicevi che era un vero dongiovanni quando eravate alla facoltà di medicina? È molto affascinante, molto elegante e un ottimo ballerino, dico bene? E, naturalmente, immagino che essere uno studente di psicologia femminile fosse un altro punto a suo favore. È probabile che sapesse benissimo su cosa fare leva quando se ne andava a corteggiare le ragazze».
È difficile immaginare il buon dottore come una calamita per le donne. Anche papà sembra pensarla come me; ha l’espressione più impassibile di sempre.
Tuttavia, mia madre non coglie l’antifona e aggiunge: «Magari non ha mai incontrato la donna giusta o qualcuno gli ha spezzato il cuore e ha rinunciato al gentil sesso per dedicare la vita a servire gli altri. Io preferisco credere alla seconda opzione, ovviamente; è di gran lunga più romantica. Ora che ci penso, ci fu quella volta con quella ragazzotta frivola…».
È allora che papà sbotta: «La vuoi smettere con queste stupide assurdità, Barbara? Sembri una stupida scolaretta».
Mia madre rimane scioccata, e anch’io. Non ho mai sentito papà riprendere mia madre in modo così feroce. Non è uno di quelli che credono che l’uomo sia il capofamiglia indiscusso. Si vanta di avere un vero rapporto paritario con sua moglie.
Mia madre lo guarda con aria torva, traboccante di rabbia. «Non insultarmi in questo modo, Edward Kendal. Tom non è soltanto tuo amico, ma anche mio, dal giorno in cui ci aiutò durante l’incidente che ebbe Lisa da piccola…».
Chiude di colpo la bocca. I miei si scambiano uno sguardo teso, ansioso.
«Cosa?». La domanda mi esce di bocca secca, tagliente.
Papà si alza in piedi. «Ora dobbiamo proprio andare». Lancia un’occhiata alla mamma. «Non è vero?»
«Certo». Anche mamma si alza. Dal suo viso è svanita qualunque traccia di gioia. Forse non si è nemmeno accorta che si sta tormentando le mani.
Prima che io possa parlare, sono già usciti dalla stanza e vanno a prendere i cappotti che hanno lasciato all’ingresso.
«Il dottor Wilson vi aiutò durante il mio incidente? Quando avevo cinque anni?».
Si scambiano di nuovo la stessa occhiata di traverso. Stavolta mamma sembra sull’orlo delle lacrime.
Papà scuote la testa. «Tua madre si sta confondendo con uno dei medici che ti curarono in ospedale dopo l’accaduto». Afferra mia madre per un braccio prima che possa fare altre domande. «Ora, dobbiamo andare altrimenti rimarremo bloccati nel traffico di punta».
Fra noi c’è di nuovo il muro. Un muro fatto di mattoni su mattoni cementati con le menzogne. Papà sta mentendo; lo capisco dal modo in cui evita il mio sguardo. Ho sempre avuto ragione. Al posto della tanto agognata euforia, mi sento schiacciata dal dolore. Perché non vogliono dirmi la verità? Vorrei gridarlo in faccia ai miei, ma papà ha già aperto la porta e sta scortando in strada mia madre, tremante, verso l’auto.
Sconvolta, rimango impalata sull’uscio mentre l’auto parte. Mi lasciano lì, insieme alle loro bugie. Vorrei seguirli, pretendere che mi dicano la verità. Ma non servirebbe a nulla: papà resterebbe fedele alla sua versione. Nel corso della professione medica senza dubbio ha imparato a sopportare la sofferenza umana tagliando fuori le emozioni. Perché la sua reazione nei confronti della mia sofferenza dovrebbe essere diversa?
Ciò che finalmente mi dà la forza di muovermi è il ricordo delle righe scritte sulla lettera d’addio che ho trovato nella stanza in affitto: Non c’è bisogno di fare troppe domande. Non possono essere d’aiuto né a voi né a me stesso. Ormai sono andato. Lasciatemi riposare.
L’uomo che si è tolto la vita si sbagliava di grosso. Io ho così tante domande. Domande che possono aiutarmi. Non me ne sono andata. E mi rifiuto di riposare.
Se i miei non vogliono darmi risposte so chi potrà farlo.
Con determinazione mi butto sulle spalle una giacca leggera, prendo la borsa e apro la porta.
Indietreggio con un lieve balzo quando mi accorgo che c’è qualcuno che mi blocca la strada. Sento il cuore precipitare quando riconosco chi è.
«Che ci fai qui?», chiedo a Jack, scioccata.
È in piedi sulla soglia di casa mia. Sì, casa mia. Non quella che condivido con lui e con Martha, ma quella che ho comprato nella parte orientale di Londra.
Socchiude gli occhi. So cosa sta pensando: Se Lisa ha una casa tutta sua perché ha preso in affitto la stanza da me e Martha?