Trentadue

L’aria fresca all’esterno mi fa di nuovo perdere l’equilibrio. È come se avessi una lieve sbornia. Mi sento disorientata, non so dove trovare un mezzo per tornare a casa mia. È questo che è diventato quel posto? Casa mia? No, casa è dove ti senti al sicuro e al riparo, non un edificio in cui hai paura di posare il capo sul cuscino la notte. In cui le pareti della tua stanza sono ricoperte di un nero lucidissimo. A meno che tu non sia un fanatico della cultura goth.

Mi fermo alla prima fermata che trovo. L’autobus arriva pochi minuti dopo, e una volta a bordo mi accorgo che sta andando nella direzione opposta, da tutt’altra parte. Dopo essere scesa, cammino e cammino in mezzo al nulla, diretta verso il nulla. Mentre mi trascino dietro i piedi, i passanti mi guardano. Alcuni sono abbastanza gentili da chiedermi se sto bene. Perché gli inglesi ti chiedono se stai bene quando è chiaro che non è così?

Svolto un angolo e capisco dove mi trovo. Camden High Street. Intravedo la luce gialla di un ufficio taxi. Una donna dietro una griglia di metallo, intenta a masticare un hamburger, mi chiede dove voglio andare. Dopo averglielo detto, mi invita ad accomodarmi e mi assicura che qualcuno verrà a prendermi entro cinque minuti.

Arriva un autista corpulento di mezz’età che giocherella con le chiavi e mi sorride. Mi accompagna fuori e io prendo posto sul sedile posteriore, ma ruzzolo su un fianco quando l’auto parte. Il tassista mi guarda da sopra la spalla.

È preoccupato. «Sta bene?»

«No. Cioè, sì».

«Non è sbronza, vero?».

Se il mio problema fosse solo l’alcol, sarebbe molto più facile da risolvere. «No, non sono ubriaca».

Forse è preoccupato che possa vomitargli in auto. Quando ormai è chiaro che non gli incasinerò il suo prezioso abitacolo, inizia a tirarmi su di morale con un incessante flusso di chiacchiere: quanto è terribile il traffico, quanto sono bastardi i ciclisti, com’è diventata violenta Londra e quanto è stanco di clienti che scappano senza pagare una volta giunti a destinazione.

Vorrei dirgli di stare zitto ma mi sembra una cosa così scortese da dire a un uomo tanto gentile che alla fine non apro bocca. Inizio a riconoscere le strade fuori dal finestrino e provo un immenso senso di sollievo. Poi svolta nel viale e finalmente ci fermiamo.

Allora gli dico: «È un po’ più avanti, vicino al furgoncino bianco».

Proseguiamo fino alla casa con il simbolo del costruttore. L’autista si volta. «Sono dieci sterline e cinquanta. Facciamo dieci».

Prendo la borsa. Accidenti! Ho soltanto cinque sterline e pochi spicci. Avrei dovuto prendere un Uber, con cui ho l’addebito automatico.

«Non ha i soldi». Non è una domanda, ma un’affermazione.

«Sì, li ho».

Con una smorfia adirata allunga la mano, in attesa.

«Solo che non li ho con me. Aspetti qui un minuto, entro in casa e vado a prenderli».

Alza gli occhi al cielo. «Oh no, un’altra no…».

Armeggio per scendere dall’auto. Ho dei soldi in camera? Ma alla fine non ha importanza. Quando muovo i primi passi malfermi, l’autista se n’è già andato senza i suoi soldi.

Mi ci vuole un secolo per risalire il vialetto. Rimango in piedi di fronte alla casa a fissarla, in particolare il simbolo sulla facciata che mi ha condotto qui in un primo momento. Ci sono così tanti segreti in questa casa. Così tante domande a cui dare risposta. Tuttavia, se sono mentalmente instabile e sfinita, potrei non scoprire quali siano e il tempo sta per scadere. Ho solo bisogno di lavorarci un altro po’ e ci arriverò. Ne sono convinta. Non posso permettermi il lusso di andare in pezzi. Questa è la mia ultima possibilità di trovare la verità e nulla mi fermerà.

Quando varco la soglia, ho l’impressione che Martha e Jack siano fuori. È tutto tranquillo. Li chiamo per assicurarmene prima di dirigermi in cucina. Il frigorifero è diviso in due sezioni, una mia e una loro. La mia è vuota; dopo l’episodio di Bette chissà che cosa potrebbe fare Martha al mio cibo. Così ne rubo un po’ del loro. Non ho voglia di mangiare – anche solo il pensiero mi dà la nausea – ma mi preparo comunque un gigantesco sandwich al prosciutto, ci verso la maionese e cerco i cetriolini e altre cose con cui condirlo. Mi siedo in sala da pranzo, dove le sedie e l’armadietto correvano in tondo durante il mio attacco, e mando giù a forza lo spuntino. Mi stordisce leggermente, ma almeno mi fa tornare un po’ in me. Non sto mangiando nulla in questo periodo, cosa che non mi ha fatto per niente bene. Rubo una delle birre di Jack e anche quella mi è d’aiuto.

È allora che ci penso. Jack e Martha non sono in casa. Posso cogliere al volo l’occasione. O forse sono in agguato da qualche parte? Ma ho deciso di provarci comunque.

Portandomi dietro la birra di Jack, vado in salotto e mi metto in piedi in un angolo nel tentativo di assorbire le vibrazioni o comunque le si voglia chiamare, non importa. Chiudo forte gli occhi e cerco di percepire il passato. Poi li riapro. Ricordo che “l’armadietto” è venuto in questa stanza insieme alla “donna alla porta”. È una follia; certo che lo è. Ma allo stesso tempo è tutto vero. È qui che la donna gridava il giorno del mio quinto compleanno. Ne sono sicura. Esco dal salotto e cerco di aprire la porta del soggiorno. Ma è chiusa a chiave. Considero l’idea di buttarla giù a calci, ma non sono nemmeno sicura di avere la forza necessaria.

Allora salgo al primo piano e inizio ad aprire le porte. La stanza che Jack considera la sua tana è aperta quindi entro. Ancora prima di varcare la soglia per vedere il caos che si nasconde lì dentro, capisco che qui non c’è nulla di interessante per me. La porta accanto, ovvero quella della loro camera da letto, è chiusa a chiave. Martha ha una stanza privata tutta per sé e, con mia grande sorpresa, non è chiusa.

Le tende sono tirate. È una sorta di antro di Aladino pieno di vestiti, parrucche, profumi, trucchi e fotografie di una giovane Martha dall’aspetto incredibilmente affascinante, circondata da uomini in adorazione. In queste foto trasuda potere. Ipnotica e ammaliante. Perfino in una semplice istantanea, figuriamoci nelle foto in cui è accuratamente in posa. Non so perché ma guardo sotto il letto e subito me ne pento. So che non è reale ma gli occhi di un topo morto mi stanno fissando. E allora sento delle urla. C’era una donna che gridava qui dentro? Dei bambini che gridavano? Un uomo?

D’un tratto la stanza puzza come una fogna. Sento una morsa invisibile che mi attanaglia la gola. Sto soffocando. Non riesco a respirare. Ho la vista offuscata. Sbiadita. Non è reale. Nulla di tutto ciò è reale. Mi costringo a raddrizzarmi ed esco dalla stanza. Sul pianerottolo mi appoggio alla parete, ansimando mentre il gelo mi avvolge. Che cos’è successo lì dentro? Il regno privato di Martha è collegato al mio passato? Forse dovrei tornarci… mi avvicino di nuovo alla porta, stavolta in trepidazione. Allungo la mano verso la maniglia… poi la ritiro, tremante. Ho paura di tornare lì dentro. Tanta paura.

Allora mi viene un’idea. Corro di sotto in sala da pranzo. Cerco di ricostruire la scena delle sedie che scorrazzano in giro come ieri sera. Poi immagino qualcuno che bussa alla porta d’ingresso e l’armadietto che va ad aprire. Sento gridare dal salotto e mi affretto a tornare di sopra, costringendomi a entrare nella stanza di Martha. Rabbrividisco, ancora una volta terrorizzata. Chiudo gli occhi.

Ricorda. Ricorda. Ricorda.

Occhi di topo. Donna. Donna alla porta. Bambini. Uomo. Urla. Stavolta mi viene quasi fisicamente da vomitare quando esco di corsa dalla stanza e richiudo la porta. Qualcosa di malvagio è accaduto lì dentro. Qualcosa di terribile. Non riesco a capire cosa, ma so che ha mandato in rovina la mia vita prima ancora che fosse davvero cominciata. Mi siedo sulle scale che portano in camera mia e cerco di mettere insieme i pezzi. Ma ho finito le munizioni.

Sento una chiave che gira nella toppa dell’ingresso. Dei passi decisi in corridoio. Il profumo della fragranza speziata alle mele di Martha mi raggiunge mentre i lievi scricchiolii del legno vecchio mi segnalano che sta salendo le scale. Mi irrigidisco come un ladro colto sul fatto.

Martha indossa un paio di jeans; è la prima volta che glieli vedo addosso. Neri, probabilmente firmati, attillati per mettere in mostra ogni linea, curva e muscolo del corpo. Non riesco a vedere se indossa la targhetta di Bette perché ha una blusa a collo alto. Mi domando se abbia capito che so.

«Spero che tu abbia avuto modo di vedere un dottore per…». La sua affermazione rimane in sospeso. Non c’è bisogno che la finisca; sappiamo entrambe di cosa sta parlando.

«Quello che ho avuto è stato il tempo di ripensare alla scena che ho visto di sotto. In sala da pranzo». I suoi occhi verdi si socchiudono appena mentre parlo. «All’ingresso».

«Mi preoccupo per la tua sanità mentale», mi dice in un tono carico di pietà.

Sono sfinita; tuttavia, riesco a trovare le forze chissà dove e mi alzo in piedi sul gradino per fissarla dall’alto.

«Durante l’episodio che è avvenuto ieri, di qualunque cosa si sia trattato», le dico in maniera appassionata, «nulla sembrava reale, a parte un particolare».

Adesso è incuriosita. «Di cosa stai parlando?»

«Ora mi ricordo. C’era una persona all’ingresso. Sai chi era?».

Martha prova di nuovo a giocare la carta della pietà: «Tu hai le allucinazioni. Ti serve aiuto», ma stavolta non attacca.

Scuoto la testa per negare le accuse. «Eri tu. Ti ho vista all’ingresso, Martha».

 

Quella sera mi lego la gamba con tre nodi perché temo ciò che potrebbe accadere se dovessi camminare nel sonno e uscire dalla stanza. Dove potrei ritrovarmi? La vernice nera fa sì che le pareti e il pavimento si fondano le une con l’altro. Sono avvolta da una nuvola di oscurità. Mi sento come se stessi levitando sul letto nella notte. Vorrei dormire, ma ho paura di chiudere gli occhi. Di sentire ancora quelle grida, che sono sicura diventeranno le mie.

Martha non sta solo cercando di cacciarmi via; chissà come è collegata al mio passato, ai miei incubi su quanto è accaduto in questa casa.

Non c’è nulla da temere. La catenella è al suo posto; la sedia è fissata contro la porta. Chiudo gli occhi e faccio i miei esercizi di respirazione utilizzando un’altra serie di parole:

Eri tu. Ti ho vista all’ingresso, Martha.

Eri tu. Ti ho vista all’ingresso, Martha.