Ventuno

La sera successiva, quando rientro dopo il lavoro, la casa è avvolta dal silenzio. Nessun rumore che indichi la presenza di qualcuno. Nessuna traccia di quell’energia sottile rilasciata dalle persone, che ti fa capire che sono in giro da qualche parte anche se non puoi vederle. Bene. Martha e Jack sono già usciti. Non riesco a trattenere un mezzo sorriso di soddisfazione.

Mi dirigo in camera mia dove scrivo ad Alex. Venti minuti dopo mi torna indietro un suo messaggio: Sono alla porta.

Mi precipito giù per le scale e lo faccio entrare. Ha la fronte e gli occhi increspati da rughe di preoccupazione e i capelli hanno una strana piega che suggerisce che ci abbia appena passato in mezzo le dita. Non è felice di essere qui. Sento il senso di colpa che inizia a salire, ma lo scaccio via senza pietà. Ho bisogno che Alex mi aiuti a scoprire la verità.

È tutto in tiro nel suo completo nero elegante, con tanto di cravatta. Vede che lo squadro dalla testa ai piedi. «Mi aspettano a una festa di lavoro organizzata da un cliente super importante. Ho detto che sarei arrivato in ritardo, ma non posso esagerare. Quindi non ho molto tempo».

In realtà sospetto che voglia sbarazzarsi di me il prima possibile, che stia facendo tutto questo solo per un contorto senso di lealtà nei confronti della ex fidanzata. Insomma, un po’ come Sir Walter Raleigh che stendeva a terra il mantello per la regina Elisabetta I. Mentre saliamo su per le scale, ricordo la velocità con cui le cose fra noi sono passate dall’andare alla grande all’andare a rotoli.

Era uno di quei sabato sera in cui la metro era stipata e c’era così tanta gente che si riversava per le strade di Londra che mi domandavo come potesse esserci posto per tutti gli abitanti in questa meravigliosa città. Ero sorpresa dalla quantità di persone perché faceva molto freddo. Era quel tipo di tempo che ti blocca e ti congela le ossa. Alex era riuscito a procurarsi i tanto agognati biglietti per l’ultimo musical che spopolava in città, un capolavoro da cinque stelle da non perdere. Nonostante lo spettacolo fosse eccezionale, non avevo la minima intenzione di alzarmi in piedi per prendere parte alla fragorosa standing ovation. Volevo rimanere nascosta sulla mia poltrona. Ma Alex insisteva, così mi aveva tirata su di peso, mi aveva infilato un braccio intorno alla vita e mi aveva stretta al suo fianco. La sua gioia era così contagiosa che non avevo potuto fare a meno di sorridere come se non ci fosse un domani mentre applaudivo insieme agli altri. Dopodiché eravamo andati in un bar e avevamo mandato giù un po’ troppi margarita. Traballando, eravamo arrivati a casa sua. Non riuscivo a credere che questo ragazzo meraviglioso che amava scherzare, che non era interessato a bucarmi il cervello e che adorava godersi ogni momento fosse mio. Tutto per me.

Appena entrati nel suo appartamento, non avevamo perso tempo; eravamo andati a letto e avevamo fatto sesso. La prima volta che avevamo fatto l’amore, un paio di settimane prima, ero rimasta sorpresa da me stessa perché non mi ero sentita nervosa ed ero stata onesta con lui per quanto riguardava i segni che avevo sul corpo. Non ero stata onesta con lui su nessun’altra cosa. Non gli avevo nemmeno fatto capire che era la prima volta che facevo sesso. Importa ancora, di questi tempi, a questa età? La parola verginità esiste ancora sui dizionari moderni?

Alex, il caro Alex, non aveva detto una parola. Al contrario, mi aveva tolto i vestiti di dosso e… ancora adesso mi salgono le lacrime agli occhi… aveva baciato ogni cicatrice che aveva trovato. Baci fugaci e delicati, come se stesse seminando amore. Il nostro amarci era stato feroce e dolce. Poi mi ero rannicchiata fra le sue braccia.

La prima volta che eravamo andati a letto insieme non avevo usato la sciarpa, pregando di non averne bisogno. E aveva funzionato. Per la prima volta dopo molto tempo, avevo aperto gli occhi al nuovo giorno sentendomi riposata, pronta e, cosa più importante, ero ancora a letto. La seconda e la terza volta era stato lo stesso. Ero stata sciocca, ovviamente, avrei dovuto capirlo: la mia vita non era mai stata così facile.

Quella notte i sogni erano tornati. Brutti sogni. Lame di rasoi scintillanti che si trasformavano in aghi appuntiti come punteruoli da ghiaccio, che cambiavano forma e colore, mentre correvo, correvo, correvo. Mi ero svegliata di soprassalto, in un bagno di sudore, con il viso sbalordito di Alex sopra di me.

«Stai bene?». Una domanda stupida da parte sua, perché era chiaro che non stavo bene.

Avrei potuto mentirgli – con il senno di poi, forse sarebbe stata la cosa più giusta – ma il modo in cui aveva reagito alle cicatrici mi aveva convinta che potevo raccontargli tutto il resto. Gli avevo dato un bacio leggero, ero scesa dal letto ed ero andata a cercare la borsa. Poi mi ero voltata verso di lui stringendo in mano la mia unica, vera amica: la sciarpa. Lui si era messo a sedere sul letto e non potevo certo biasimarlo per l’espressione preoccupata con cui mi aveva guardato.

Aveva cercato di alleggerire l’atmosfera con una battuta: «Voglio essere sincero e che tu lo sappia: non ho mai fatto bondage».

«Non è come credi». Non avrei potuto essere più seria. Nessuno sapeva di quella storia, nemmeno i miei genitori. «Devo legarmi la gamba al letto».

«Scusa?». Di botto aveva smesso di scherzare.

«A volte cammino nel sonno. Faccio dei sogni terribili. Questa…», avevo aggiunto, mostrandogli la sciarpa, «…di solito mi impedisce di vagare nel sonno, ma non sempre».

Lo sguardo che mi aveva lanciato incredulità, che poi si era trasformata in confusione e, infine, in chiusura. Avevo capito che l’avevo perso.

Si era alzato e non mi si era più avvicinato. Io mi ero rifiutata testardamente di dare altre spiegazioni. Se non riusciva ad accettarmi, che diavolo ci facevo in una stanza gelata che mi aveva promesso così tante cure e amore incondizionato?

«Io vado a dormire sul divano. Tu…», aveva concluso, con un gesto che includeva anche la sciarpa, «… resta pure nel letto».

Ero stata sopraffatta da un senso di amarezza. Perché avevo di nuovo aperto il mio cuore per poi trovarmi di fronte un rifiuto così duro? Quella notte avevo pianto. Pianto davvero, stringendo la sciarpa in bocca per soffocare i singhiozzi. Non ero rimasta sorpresa quando l’indomani mi aveva detto, in maniera estremamente educata, che non era sicuro che dovessimo vederci ancora.

Ero di nuovo sola.

Arrivati nella mia stanza, Alex in qualche modo percepisce dove sono finita con la mente perché si acciglia mentre ci sediamo sul letto. Abbassa lo sguardo per un secondo, poi lo solleva di nuovo. «Mi dispiace davvero tanto per quella notte…».

«Senti, Alex, ho già abbastanza casini a cui pensare senza che tu mi trascini giù per un sentiero tortuoso di ricordi».

«Mio fratello è molto più grande di me». Si imbarca nel racconto comunque. «Era nell’esercito. Quando tornò dalla guerra in Iraq era una persona diversa. Incubi, grida nel cuore della notte…». Si preme le dita sulle labbra, facendo sporgere gli zigomi sotto la pelle del viso.

«Alex, non devi per forza…».

Ma lui vuota il sacco. «È per questo che mi sono comportato come un idiota quella notte. Non volevo passarci di nuovo. I miei genitori riuscirono a dare a mio fratello le cure che gli servivano, ma la strada per arrivare al risultato fu un inferno». Mi guarda dritto negli occhi. «Non volevo una ragazza con quel genere di trauma. So che è da egoisti, ma vedere mio fratello così, un giorno dopo l’altro, mi ha fatto sentire come se stessi morendo dentro. È stato Joel a insegnarmi ad andare in bicicletta, a farmi assaggiare il primo sorso di alcol alle spalle dei miei, a portarmi in vacanza all’estero per la prima volta». Solleva la testa. Un velo di dolore insopportabile offusca il colorito sul suo viso. «So che si vergognava di farsi vedere in quello stato da me quando tornò a casa. Si vantava sempre di fare il fratello maggiore». Allora un impeto cocente gli scalda la voce. «Non potrei mai vergognarmi di lui. Ma, allo stesso tempo, è stata un’esperienza che non voglio più affrontare».

Rimango basita e mi sento così triste per lui. Pensavo che Alex fosse diverso, ma in realtà è proprio come me. Proiettiamo un’immagine di noi al mondo, ma dentro c’è sofferenza, c’è dolore, ci sono ricordi che ci perseguitano e che non se ne andranno mai. Eppure, mi sento in colpa per il fatto che i miei demoni abbiano riportato a galla anche i suoi.

Mi alzo, mettendo da parte quello che voglio io. «Alex, non sei costretto a restare qui».

«Non essere sciocca». Mi afferra una mano e mi trascina di nuovo a sedere sul letto. «Non voglio offenderti, ma sono davvero convinto che tu abbia bisogno di aiuto». Le sue parole mi infastidiscono, quindi cerco di ribattere, ma lui non me lo permette. «Non sto dicendo che quanto mi hai raccontato non sia la verità, la tua verità. La mia prima preoccupazione è il tuo benessere…».

Sono furibonda. «Benessere? Perché non dici quello che pensi? È fuori di testa, è una svitata, ha qualche tara mentale…».

Allora mi afferra per le braccia e mi avvicina a sé. «Conosco tutti questi modi di dire, Lisa. La gente lo diceva di mio fratello. Ma non era vero. La verità era che aveva bisogno di cure. Di aiuto. L’aiuto giusto». Abbassa la voce. «È di questo che hai bisogno anche tu. Dell’aiuto giusto».

Mi divincolo dalla presa. Scuoto la testa in un gesto di sconsolata frustrazione. «Non capisci, Alex? Questa casa…», dico, allargando le braccia, «… è questa la mia cura. Posso prendere tutte le medicine del mondo per tutto il tempo che mi resta, starmene seduta in un’infinità di stanze asettiche con un’infinità di strizzacervelli preoccupati, ma sai una cosa? Questa casa continuerà a perseguitarmi fino al giorno della mia morte. E io mi rifiuto di andare avanti così anche solo per un’altra ora». Devo fermarmi, quindi lo faccio prima che l’emozione mi trascini in un luogo che non voglio far vedere ad Alex.

Quando parlo di nuovo, sono più calma, almeno in apparenza. «Non posso». Mi rialzo e mi guardo intorno. «Mi aiuterai a trovare altre scritte sul muro?».

Emetto un lungo sospiro di sollievo quando lui si alza e inizia a strappare una striscia di carta da parati accanto alla prima scritta che ho scoperto, così inizio ad aiutarlo. Sbucciamo con cura due strisce. Mi lascio sfuggire un lamento di frustrazione: non ci sono scritte qui. Accidenti!

Alex si volta verso di me. «E se non ce ne fossero altre? Te l’ho detto anche l’ultima volta che sono stato qui».

Scuoto la testa. «È qui. So che è qui. La casa mi sta parlando attraverso queste mura».

Alex non può fare a meno di rivolgermi uno sguardo accigliato, come se fossi pazza.

«Facciamo una cosa», dice infine. «Che ne dici se io comincio da lì, vicino alla finestra, e tu continui da qui?».

Ed è così che facciamo nei minuti seguenti, finché lui non mi chiama tutto emozionato: «Ho trovato qualcosa».

Corro da lui. Non riesco a crederci. Stavo iniziando a dubitare che ci fosse dell’altro. Insieme tiriamo via la carta da parati fino al battiscopa. Trattengo il respiro quando fisso la scritta sul muro. La grafia non è più marcata come prima, i segni di inchiostro sono più deboli, in qua e in là sfarfallanti, come se la persona che li ha scritti stesse tremando.

Sono troppo ansiosa per aspettare. «Che cosa dice?».

Alex non risponde mentre è intento a leggere. Poi si volta verso di me. «Stavolta c’è una data. 1998…».

«È l’anno in cui ho compiuto cinque anni. Il mio quinto compleanno». Sono emozionata. È il primo vero collegamento fra me e l’autore della lettera d’addio.

«Che cosa c’entra il tuo compleanno con questa faccenda?».

«È l’anno in cui è accaduta qualunque cosa mi sia successa in questa casa, almeno credo». Lo supplico con gli occhi spalancati. «Adesso mi credi?».

Alex non fa commenti. Al contrario, si concentra sulla scritta. «È di nuovo il nostro vecchio amico, il dottor Morte, Solanov. I versi tratti dalla sua opera dicono: “Se ti innamori di una donna bellissima, ti stai scavando la fossa da solo, così come la stai scavando alle persone che ami”».

Rimango poco entusiasta. «Non gli piacevano molto le donne, allora».

«Forse ne ha amata una di troppo ed è andato tutto in malora. Parecchi uomini conoscono questa sensazione».

Alex non mi dà modo di domandargli se il suo commento criptico si riferisca a me.

Inizia a tradurre.