Quattro
Inizio a spacchettare e ad appendere cose nell’armadio. Le maglie sono tutte a maniche lunghe, i pantaloni lunghi, le scarpe abbastanza aperte da mostrare il collo dei piedi. Ho dei documenti personali che decido di mettere nell’armadietto accanto al letto, ma i cassetti non si chiudono bene. Li tiro fuori e scopro che c’è un sacco di robaccia caduta dietro. Trovo menu di cibo da asporto, biglietti da visita di compagnie di taxi, un vecchio panno di spugna. E poi c’è una busta. È aperta, con un pezzo di carta piegato all’interno.
Tendo le orecchie. Sono sicura di aver sentito uno scricchiolio sulle scale che portano alla mia stanza. Ascolto attentamente ma non lo sento più. Smettila di fare la sciocca. So bene che nelle vecchie case il legno si espande nelle giornate più calde per poi ritirarsi la notte. Il rumore dev’essere dipeso da questo. Forse dovrei andare a controllare? Mi alzo per metà, con la busta ancora in mano. Ma poi mi fermo vicino alla porta. Smettila di essere paranoica. Vuoi che la casa ti parli ed eccoti accontentata… solo che è il linguaggio del legno vecchio che tu non riesci a capire. Cerco di ignorarlo, ma la sensazione che mi attanaglia le viscere all’idea di dover passare la notte in una casa sconosciuta non se ne vuole andare.
Allora decido di rimettermi a sedere sul letto e tiro fuori dalla busta il foglio piegato. È una lettera. Scritta a mano in una grafia professionale, pulita e precisa. Impallidisco, mentre il sangue mi si gela nelle vene. Capisco subito di che genere di lettera si tratta.
Sobbalzo quando sento di nuovo lo scricchiolio all’esterno. Stavolta non è sulle scale; è sul pianerottolo accanto alla mia stanza. Si ferma di nuovo. Ho il respiro affannato. Qualche istante dopo eccolo che ricomincia. Il cigolio irregolare di qualcosa di pesante che preme sul legno.
Rimetto a posto la lettera nella busta e la nascondo sotto il materasso. Mi affretto a raggiungere la porta. Appoggio l’orecchio contro il legno. Ascolto. Solo silenzio.
Boom.
Il colpo di qualcuno che bussa alla porta mi riverbera in corpo. Scatto all’indietro, scioccata, ansimando all’impazzata.
«Chi è?». Non riesco a nascondere il tremolio nella voce.
«Soltanto io».
Mi rilasso. È Jack. Fletto le dita lungo i fianchi e prendo fiato, cercando di ricompormi. Sto pensando di dirgli di andare via, ma poi lui aggiunge: «Mi chiedevo solo se avessi un minuto».
Apro la porta – non troppo, però – per vedere cosa vuole. Ma sospetto all’istante di aver commesso un errore. Avrei dovuto dirgli che ero a letto. Indossa dei pantaloni fatti su misura, scarpe lucidissime, una camicia bianca stirata di fresco con una catena d’oro intorno al collo. Profuma di sapone e dopobarba un po’ troppo speziato. Ha l’aria di chi sta andando a un appuntamento. Forse lui e Martha stanno uscendo. Ha entrambe le mani nascoste dietro la schiena.
«Cosa c’è, Jack?».
Poi tira fuori una mano come fosse un mago. Stringe un plico di fogli rilegati con un punto metallico.
«Il contratto. Hai dimenticato di firmare il contratto».
Ha ragione. Ero così impaziente di trasferirmi che non mi sono fermata a sbrigare prima tutte le questioni legali.
«Oh, giusto». Allungo una mano. «Se me lo lasci, lo leggo, lo firmo e te lo restituisco domattina».
«Va bene, aspetterò. Io e Martha ci teniamo a mettere tutti i puntini sulle i».
Spinge la porta aprendola con la spalla e io lo lascio fare perché sono troppo imbarazzata per impedirglielo. Quante cose terribili sono accadute alle donne solo perché erano troppo imbarazzate per bloccare la porta con un piede? Soltanto quanto Jack è già entrato nella stanza mi accorgo di cosa abbia nell’altra mano. Nel pugno stringe una bottiglia di champagne e fra le dita regge due bicchieri a stelo.
Sorridendo come un ragazzino troppo cresciuto, mi sventola la bottiglia davanti al naso. «Ti ho comprato un piccolo regalo di benvenuto. Non puoi trasferirti senza fare un brindisi alla tua nuova stanza. Leggi il contratto, io intanto verso un paio di bicchieri di bollicine».
Chiude la porta e riesce a tirare il chiavistello senza che io nemmeno me ne accorga. Potrei dire qualcosa, ma decido che la strategia migliore sia quella di firmare il contratto e farlo uscire.
Mi siedo, accasciandomi sulla sedia davanti alla scrivania mentre Jack si accomoda sul letto. Saltella su e giù sopra il materasso.
«Comodo!». Batte il palmo sul letto mentre la sua lingua serpeggia fuori dalla bocca per inumidire le labbra. «Che cosa fai là? Non fare la timida, vieni a sederti con me. Wow…!». Il tappo dello champagne schizza fuori come un razzo e sbatte contro il soffitto mentre lo spumante zampilla sulle assi del pavimento.
Io resto dove sono. Fisso lo sguardo sul contratto. Ho le mani che mi tremano e sono pietrificata dalla paura. Jack non sembra più così insignificante e inoffensivo come pensavo. Ricordo il contatto della sua carne ruvida sulla mia pelle.
«Dov’è Martha?»
«Martha?». Ripete il nome come se stessi parlando di un alieno. «È uscita. Non preoccuparti per lei; a ogni modo, non ama le feste di benvenuto. E tra noi funziona perchè sa qual è il suo posto». Non gli credo. Ho visto il modo in cui gli lancia occhiate furtive, da donna profondamente innamorata. Povera Martha.
Allora mi guarda con un accenno di rimprovero. «Allora, hai deciso di restare dove sei?»
«Sto leggendo il contratto».
«Non metterci troppo, altrimenti perde tutta l’effervescenza».
Io ho già perso la mia effervescenza. Che cosa dovrei fare? Sono in casa sua e la porta è chiusa con il chiavistello. Se provassi a correre, lui arriverebbe per primo dato che è più vicino. Inoltre, dovrei avere il tempo per sganciare il chiavistello. La mia mente corre al galoppo. Magari non ha davvero intenzione di aggredirmi, ma quando un uomo che conosci a malapena si infila a forza nel tuo spazio privato con dell’alcol e chiude la porta, può succedere di tutto. Ripenso alla terribile tragedia accaduta a una ragazza che lavorava nel mio ufficio. Rimasta sola dopo il divorzio, era andata a un appuntamento con un ragazzo dall’aria rispettabile che l’aveva drogata e stuprata. La violenza lascia cicatrici sulla vita delle vittime. E io sono così vulnerabile. Anche se urlassi, siamo nel punto più alto della casa; chi potrebbe sentire il mio disperato grido d’aiuto?
Mi faccio coraggio. «Jack, voglio che tu te ne vada».
«Cosa?». Appare sorpreso, come se davvero non capisse perché voglio che esca dalla mia camera.
«Ciò che stai facendo non è giusto nei confronti di tua moglie».
Solleva il calice. «L’unica cosa che sto facendo è offrirti un po’ di spumante – che, potrei aggiungere, mi è costato un bel po’ – per fare un brindisi alla tua nuova casa».
Firmo scarabocchiando il mio nome con un ghirigoro su entrambe le copie del contratto senza nemmeno leggerlo e mi alzo. Allungo il braccio il più possibile, per porgergli la sua copia; non voglio assolutamente che mi venga vicino.
«Ecco il contratto, con tutti i puntini sulle i. Ora ti prego di andartene».
D’un tratto rivolge la sua attenzione verso la porta. «Hai sentito?».
Quello che vorrei aver sentito è il rumore del mio pugno sulla sua faccia.
Invece, tendo anch’io l’orecchio verso la porta. Non riesco a sentire nulla. Jack appoggia maldestro i bicchieri sul comodino e si affretta a raggiungere la soglia. Il suo atteggiamento da “Jack il tuttofare” è svanito. Con l’abilità silenziosa di un topo d’appartamento toglie il chiavistello, tentando di fare meno rumore possibile. Socchiude la porta.
Ora lo sento anch’io. Martha lo sta chiamando. Sembra che sia nell’ingresso. Lui si irrigidisce e poi si porta un dito sulle labbra per dirmi di fare silenzio. Per la prima volta, sento la rabbia che risale. Si sta comportando come se io fossi complice della sua visita fuori orario.
Ne ho avuto abbastanza. Gli piombo addosso e gli schiaffo il contratto firmato in faccia, così non ha altra scelta che prenderlo.
Dovrei buttarlo fuori, ecco cosa dovrei fare, ma voglio solo che se ne vada. A quel punto sgattaiola fuori dalla porta, poi sul pianerottolo e infine giù per le scale.
Sento che chiama Martha, aggiungendo: «Credevo che restassi fuori per tutta la sera».
Non sento la risposta della moglie.
Rimetto il chiavistello e blocco la maniglia con la sedia della scrivania in modo che Jack non possa tornare a farmi visita. Mi accascio sul letto. È stato spaventoso, davvero spaventoso. Ciò che mi turba di più non è Jack ma il senso di isolamento che si prova a stare in casa di qualcun altro. Ci si basa soltanto sulle apparenze, sulla fiducia, come ha detto Martha. Ma la realtà è che non conosco affatto le persone da cui ho preso in affitto questa stanza.
Mi ricordo della lettera che ho trovato e infilato sotto il materasso. Tiro fuori la busta e mi siedo alla scrivania. È leggermente arricciata in un angolo, quindi immagino che sia rimasta nel retro dell’armadietto per un po’, anche se non è scolorita dal tempo. Tiro fuori la lettera. Non rimarrò scioccata, stavolta, perché so di cosa si tratta. Leggo:
A chiunque possa interessare,
questa è una delle ultime cose che lascio in questa stanza. Non scriverò il mio nome perché non è importante e perché potrebbe trascinare degli innocenti nella decisione che ho preso. A troppe persone incolpevoli è già stato fatto del male. Chiedo con rispetto alle autorità di non indagare oltre sulla mia identità o sul mio passato. Non ha alcuna importanza. Sono solo un uomo che ha commesso degli errori e che ora ha deciso di pagarne le conseguenze nell’unico modo che sembra adeguato, ovvero con la propria vita.
Non c’è bisogno di fare troppe domande. Non possono essere d’aiuto né a voi né a me stesso. Ormai sono andato. Lasciatemi riposare.
Dal momento che so quale destino attende i suicidi più poveri, capisco che non mi faranno un funerale all’abbazia di Westminster. Tuttavia, chiederei a un ministro della Chiesa d’Inghilterra di partecipare per dire qualche parola per me prima che io vada incontro a qualunque riposo mi verrà concesso.
Vorrei
La lettera si interrompe bruscamente.
È l’ultimo messaggio di un suicida. Un addio alla vita. In fondo ci sono alcune righe tracciate a matita. Sembrano scritte in un alfabeto straniero, ma siccome non me ne intendo molto, non riesco a capire cosa dicano.
Che qualcuno si sia tolto la vita in questa stanza? Non qualcuno, mi correggo, ma un uomo che si rifiuta di dire il proprio nome. È per questo che ho sentito una lieve puzza di deodorante per ambienti da quattro soldi durante la prima visita? Per mascherare l’odore di marcio di una morte recente? Ma Jack è stato chiaro; non ci sono stati altri inquilini in questa stanza prima di me.
Scorro di nuovo l’incipit della lettera… è scritto lì nero su bianco: Questa è una delle ultime cose che lascio in questa stanza. Questa stanza. A meno che Martha e Jack non abbiano comprato l’armadietto e la lettera non fosse già lì, incastrata sul retro. Scuoto la testa; il comodino sembra un mobile molto amato che è qui da un bel po’ di tempo, mentre non mi pare che la lettera sia vecchia.
Perché mai Jack avrebbe dovuto mentire sul fatto che ci sia stato un altro affittuario prima di me?
Adultero? Bugiardo? Cominciano a sommarsi un po’ troppi elementi contro Jack.
A nessuno importava dell’uomo senza nome? Passo le dita sulla sua grafia, perché a me importa. Un nodo di dolore mi si stringe in gola. So cosa significhi sentirsi in bilico sul precipizio. In questo istante si crea un forte legame fra me e quest’uomo senza volto né nome. Non posso rimetterlo in fondo al cassetto come se non esistesse. Mi correggo: come se non fosse esistito. Sarebbe crudele.
Non c’è bisogno di fare troppe domande. Non possono essere d’aiuto né a voi né a me stesso. Ormai sono andato. Lasciatemi riposare.
Non posso rispettare le sue ultime volontà. Non posso smettere di pormi delle domande. Chi sono gli innocenti di cui parla? In che modo ha fatto loro del male? Quali sono gli errori che ha commesso? La mente inizia a galoppare sempre di più. Rallenta. Rallenta. Accidenti, rallenta. Cerco le mie pillole e ne prendo una. Due sarebbero troppe. Sono stanca morta, ho bisogno di dormire.
Con un peso sul cuore ripiego la lettera e la poso sulla scrivania. Voglio saperne molto di più su quest’uomo che si è tolto la vita.
Osservo il letto e sospiro: è arrivato il momento che io affronti le mie verità. I miei demoni. Quelli che abbiamo tutti.
Dopo essermi infilata il pigiama – tutta la biancheria da notte che ho è con maniche e pantaloni lunghi – tiro fuori il cellulare e gli auricolari. Un terapista mi ha indicato che uno dei modi migliori per prendere sonno è esaurire il corpo. Stancare il fisico al punto che, dopo essermi stesa a letto, la stanchezza mi faccia scivolare nel mondo del dormiveglia. Il terapista mi aveva assegnato una nutrita routine di esercizi serali, che io ho cestinato alla prima occasione. Non mi piace quel genere di esercizi; sono artificiali e noiosi. Piuttosto, ho sviluppato un modo personale di fare le cose.
Mi infilo gli auricolari e premo play sulla libreria musicale del mio telefono. Le note dell’ultima canzone della ragazza di Londra nord, Amy Winehouse, mi accarezzano. You know I’m No Good mi riporta in vita. Il primo colpo di batteria mi rimbomba in corpo. Inizio a ballare come una posseduta, spostandomi veloce da una parte all’altra della stanza. La sua voce graffiante e sensuale mi spinge a muovermi. Sto sudando, a un ritmo solitario che mi batte in testa. Dormirò, dormirò. Io dormirò. Quando Amy smette di cantare ho il respiro affannato, ansimante. Non voglio riprendere fiato; ho bisogno di sfruttare questa condizione il più in fretta possibile per dormire.
Con il battito della canzone che mi pulsa ancora dentro, prendo l’altra mia amica notturna: la sciarpa. È in morbida seta, completamente lilla a parte i ricami neri a un’estremità. Me la regalò mia madre per il mio quindicesimo compleanno. Per la maggior parte delle persone i compleanni sono giorni speciali, ma io li ho sempre trovati complicati. E sono ancora più difficili per i miei poveri genitori, che hanno avuto a che fare con una ragazzina testarda che festeggiava senza alcun entusiasmo. È buffo: negli anni mi hanno fatto regali meravigliosi, ma questa sciarpa li batte tutti. Forse perché è un po’ come me: non appariscente, lieta di svolgere il proprio lavoro senza farsi notare.
Mi siedo al centro del mio nuovo letto. Allungo le gambe. Lego la sciarpa intorno all’angolo destro del letto e poi faccio un doppio nodo intorno alla caviglia. Mi stendo.
Dormirò.
A chiunque possa interessare.
La gamba si contrae tirando il nodo. Mi azzardo a chiudere gli occhi.