IL SIGNOR PARENT
I
Il piccolo Georges, a quattro gambe in mezzo al viale, stava facendo montagne di sabbia. La raccoglieva con le due mani, l’alzava a piramide, poi vi piantava in cima una foglia di ippocastano.
Il padre, su una panchina di ferro, lo contemplava con un’attenzione concentrata e amorevole; nel piccolo giardino pubblico pieno di gente vedeva solo lui.
Lungo tutto il viale curvo che passa davanti alla fontana e alla chiesa della Trinità per ritornare indietro, dopo aver circondato l’aiuola, altri bambini erano ugualmente intenti ai loro giochi da giovani bestiole, mentre le bambinaie indifferenti guardavano in aria coi loro occhi ebeti, o le madri conversavano fitto non smettendo di sorvegliare con gli occhi la marmaglia.
Alcune balie passeggiavano a due a due, assorte, trascinandosi dietro i nastri sgargianti delle cuffie, e portando in braccio bianchi fagotti avvolti in merletti; le bambine, in vestine corte e a gambe nude, tenevano seriosi colloqui tra due corse con il cerchio, e il guardiano del giardino, in divisa verde, si aggirava tra quella popolazione di mocciosi, facendo continue deviazioni per non demolire costruzioni di sabbia, per non calpestare piccole mani, per non disturbare il lavoro da formiche di quelle graziose larve umane.
Il sole stava per scomparire dietro ai tetti della rue Saint-Lazare e lanciava i suoi lunghi raggi obliqui su quella folla di monelli agghindati. Gli ippocastani s’illuminavano di riflessi gialli, e le tre cascate, davanti all’alto portale della chiesa, parevano di liquido argento.
Il signor Parent guardava il figlio carponi tra la polvere: ne seguiva i minimi gesti con amore, pareva mandare baci con un’increspatura delle labbra a ogni mossa di Georges.
Ma, alzando gli occhi sull’orologio del campanile, constatò di essere in ritardo di cinque minuti. Allora si alzò, prese il piccolo per un braccio, gli scosse la polvere dall’abitino, gli asciugò le mani e lo trascinò verso la rue Blanche. Affrettava il passo per non rincasare dopo la moglie; e il monello trotterellava per mantenersi al suo fianco, ma non riusciva neppure a stargli dietro. Il padre allora lo prese in braccio, accelerò ancora il passo; ormai ansimava per la fatica risalendo il marciapiedi inclinato. Era un uomo di quarant’anni, già grigio di capelli, lievemente pingue, che portava con aria inquieta un bel ventre da uomo gioviale che gli avvenimenti hanno reso timido.
Aveva sposato alcuni anni prima una giovane donna teneramente amata che lo trattava adesso con una durezza e un’autorità da despota onnipotente. Lo rimproverava continuamente per tutto quel che faceva e per quel che non faceva, gli rinfacciava con acredine i minimi gesti, le sue abitudini, i suoi piaceri semplici, i suoi gusti, i suoi atteggiamenti, le sue mosse, la misura dei suoi fianchi e il suono placido della sua voce.
Lui tuttavia l’amava ancora, ma amava soprattutto il bambino avuto da lei, Georges, che aveva ora tre anni, ed era diventato la più grande gioia e la più grande preoccupazione del suo cuore. Aveva una modesta rendita che gli permetteva di vivere senza lavorare con i suoi ventimila franchi; la moglie, sposata senza dote, era incessantemente indignata dall’inattività del marito.
Raggiunse finalmente la sua casa, depose il bimbo sul primo gradino delle scale, si asciugò la fronte e cominciò a salire.
Al secondo piano, suonò.
Una vecchia domestica che lo aveva allevato, una di quelle serve padrone che sono i tiranni delle famiglie, venne ad aprire; e lui chiese ansioso:
«La signora è rientrata?».
La domestica alzò le spalle:
«Da quando il signore ha mai visto la signora rientrare alle sei e mezza?».
Lui rispose con tono imbarazzato:
«Va bene, meglio così, avrò il tempo di cambiarmi, perché sono tutto sudato».
La serva lo guardava con una pietà irritata e sprezzante. Brontolò:
«Oh, lo vedo, il signore è proprio fradicio; il signore ha corso; forse ha anche portato in braccio il piccolo; e tutto questo per aspettare la signora sino alle sette e mezza. A me invece non mi pigliano, adesso, a essere pronta all’ora esatta. Preparo la cena per le otto, io, e se si deve aspettare, pazienza, un arrosto non deve finir bruciato!».
Il signor Parent fingeva di non sentire. Mormorò:
«Va bene, va bene. Bisogna lavare le mani a Georges, che ha fatto le forme di sabbia. Io vado a cambiarmi. Raccomanda alla cameriera di pulire bene il bambino».
E si diresse verso la sua camera. Appena entrato, chiuse il catenaccio per stare solo, proprio solo, assolutamente solo. Si era talmente abituato, ormai, a venir malmenato e maltrattato che si riteneva al sicuro solo con la protezione di una serratura. Non osava neppure più pensare, riflettere, ragionare con se stesso, se non si sentiva garantito da un giro di chiave contro sguardi e supposizioni. Si lasciò cadere su una sedia per riposare un poco prima di indossare la biancheria pulita, e pensò che Julie cominciava a diventare un pericolo nuovo in casa. Julie odiava sua moglie, era chiaro, e odiava soprattutto il suo compagno Paul Limousin, restato, cosa rara, amico intimo e familiare, dopo essere stato inseparabile compagno d’infanzia. Era Limousin che serviva da olio e da tampone tra Henriette e lui, era lui che lo difendeva persino animosamente, persino severamente contro i rimproveri immeritati, contro le scene moleste, contro tutte le miserie quotidiane dell’esistenza.
Ma ecco che, da quasi sei mesi, Julie si permetteva continuamente osservazioni e apprezzamenti malevoli sulla padrona. La giudicava ogni momento, e dichiarava venti volte al giorno: «Se io fossi il signore, non mi lascerei certo menare così per il naso. Insomma, insomma... Ecco... Ognuno secondo la sua natura».
Un giorno anzi era stata persino insolente con Henriette, che si era limitata a dire, la sera, al marito: «Sai, alla prima levata di testa di quella donna io la sbatto fuori». Tuttavia, lei che non temeva nulla, pareva nutrire una certa apprensione nei riguardi della vecchia serva; e Parent attribuiva tale mansuetudine a una certa considerazione per la donna che lo aveva allevato e che aveva chiuso gli occhi a sua madre.
Ma era finita, le cose non si potevano trascinare più a lungo; e lui aveva paura di quello che poteva accadere. Cosa doveva fare? Licenziare Julie gli appariva una decisione tanto pericolosa che non osava neppure pensarci. Darle ragione contro la moglie era ugualmente impossibile; più passava il tempo, più la situazione sarebbe diventata insostenibile tra le due donne.
Se ne stava seduto, le braccia penzoloni, cercando vagamente il modo di conciliare ogni cosa, ma non trovava nulla. Allora mormorò: «Per fortuna c’è Georges... Senza di lui sarei proprio infelice».
Poi gli venne l’idea di consultare Limousin, e si decise, ma subito il ricordo dell’inimicizia nata tra la donna e il suo amico gli fece temere che costui gli consigliasse di cacciarla; si trovò di nuovo perduto nelle sue angosce e nelle sue incertezze.
L’orologio a pendolo suonò le sette. Sussultò. Le sette, e non si era ancora cambiato! Allora, sgomento, ansante, si spogliò, si lavò, indossò una camicia bianca e si rivestì precipitosamente, come se qualcuno l’aspettasse nella stanza accanto per un avvenimento d’estrema importanza.
Poi entrò nella sala, felice di non avere più nulla da temere.
Dette un’occhiata al giornale, andò a guardare la strada, tornò a sedersi sul divano; ma si aprì una porta ed entrò il figlio, pulito, pettinato, sorridente. Parent lo prese tra le braccia e lo baciò con passione. Prima sui capelli, poi sugli occhi, sulle gote, sulla bocca, sulle mani. Poi lo fece saltare in aria, alzandolo verso il soffitto con tutte e due le mani. Infine sedette, stanco per lo sforzo compiuto, e mettendo Georges a calvalcioni sul ginocchio lo fece rimbalzare giocando a cavalluccio.
Il bimbo rideva di gioia, agitava le braccia, gettava grida felici, e anche il padre rideva e gridava di contentezza, scuotendo il suo pancione, si divertiva più del bambino. Lo amava con tutto il suo buon cuore di uomo debole, rassegnato, avvilito. Lo amava con folli slanci, appassionate carezze, con tutta la timida tenerezza nascosta in lui, la tenerezza che non aveva mai potuto esprimersi, espandersi, neppure nelle prime ore dopo il matrimonio, poiché la moglie si era sempre mostrata fredda e riservata.
Julie comparve sulla porta, con la faccia pallida, l’occhio lucido, e annunciò con voce tremante d’esasperazione:
«Sono le sette e mezza, signore».
Parent dette un’occhiata preoccupata e rassegnata alla pendola, e mormorò:
«Infatti, sono le sette e mezza».
«Ecco, la cena è pronta, adesso.»
Intuendo la tempesta, lui cercò di allontanarla:
«Ma non mi avevi detto, quando sono rientrato, che l’avresti preparata solo per le otto?»
«Per le otto!... Non lo pensate, certo! Non vorrete mica far mangiare il piccolo alle otto, adesso. Si dice così, perdio, è un modo di parlare, ma sarebbe rovinare lo stomaco del piccolo, farlo mangiare alle otto! Oh! se fosse qui la madre! Se ne preoccupa molto, del figlio! Ah, sì! Diciamolo pure: che madre! Fa pena vedere madri simili.»
Parent, tutto fremente d’angoscia, sentì che bisognava fermare di colpo la scena incombente.
«Julie» disse «non ti permetto di parlare così della tua padrona! Hai capito, vero? e non dimenticarlo più per l’avvenire.»
La vecchia domestica, senza fiato dallo stupore, girò i tacchi e uscì tirandosi dietro la porta con tanta violenza che tutti i cristalli del lampadario tintinnarono. Per alcuni attimi fu come un leggero e vago suono di campanelline invisibili che volteggiò nell’aria silenziosa del salotto.
Georges, dapprima stupito, si mise a battere le mani di gioia, e gonfiando le gote, fece un grosso “bum!” con tutta la forza dei suoi polmoni per imitare la porta che sbatteva. Allora il padre prese a raccontargli delle favole; ma la sua mente preoccupata gli faceva continuamente perdere il filo del racconto, e il piccolo, che non capiva più nulla, spalancava gli occhi stupiti.
Parent non riusciva a staccare gli occhi dall’orologio. Gli pareva di vedere il moto della lancetta. Avrebbe voluto fermare l’ora, immobilizzare il tempo sino al ritorno della moglie. Non che rimproverasse Henriette del ritardo, ma aveva paura, paura di lei e di Julie, paura di tutto quanto poteva accadere. Dieci minuti di più sarebbero bastati per provocare un’irreparabile catastrofe, spiegazioni, violenze che lui non osava neppure immaginare. Il solo pensiero della lite, dello scoppio di voci, delle ingiurie lanciate nell’aria come proiettili da due donne che si fronteggiano, che si fissano negli occhi, che si coprono d’insulti, gli faceva battere il cuore, gli inaridiva la gola come una marcia in pieno sole, lo rendeva molle e floscio come un cencio, tanto molle che non aveva neppure più la forza di sollevare il bambino e di farlo saltellare sul ginocchio.
Suonarono le otto; la porta si aprì di nuovo e ricomparve Julie. Non aveva più l’aria esasperata, ma era tutta decisione, cattiva e fredda, ancor più temibile.
«Signore» disse «ho servito vostra madre sino al suo ultimo giorno, ho allevato voi dalla nascita sino a oggi! Credo si possa dire che sono devota alla famiglia...»
Aspettava una risposta.
Parent balbettò:
«Ma sì, ma sì, cara Julie».
Lei riprese:
«Sapete bene che non ho mai fatto nulla per denaro, per interesse mio, ma sempre per interesse vostro; che non vi ho mai ingannato né mentito, che non avete mai avuto rimproveri da rivolgermi...».
«Ma sì, ma sì, cara Julie...»
«Ebbene, signore, non può andare avanti così. È per amicizia verso di voi che non dicevo nulla, che vi lasciavo nell’ignoranza; ma adesso si esagera, e la gente ride troppo di voi nel quartiere. Voi farete quel che volete, ma tutti lo sanno, bisogna che ve lo dica infine, anche se non mi piace proprio fare la spia. Se la signora rincasa a ore impossibili, è perché fa cose abominevoli.»
Lui era restato sbalordito, sgomento: non capiva, e riuscì solo a balbettare:
«Taci... sai che ti ho proibito...».
Ma lei gli tolse la parola con una risoluzione irresistibile.
«No, signore, bisogna che vi dica tutto, adesso. Da molto tempo la signora v’inganna con il signor Limousin. Io li ho visti più di venti volte baciarsi dietro le porte. Oh, via, se il signor Limousin fosse stato ricco, la signora non avrebbe certo sposato il signor Parent! Se il signore ricordasse soltanto come è avvenuto il matrimonio, capirebbe tutto quanto.»
Parent s’era alzato, livido, balbettando:
«Sta’ zitta... sta’ zitta... altrimenti...».
La donna continuò:
«No, vi dirò tutto. La signora ha sposato il signore per interesse e lo ha ingannato sin dal primo giorno. Erano d’accordo, loro due, maledizione! Basta riflettere per capirlo. Allora, siccome la signora non era contenta di aver sposato il signore che non amava, gli ha reso la vita dura, tanto dura che si straziava il cuore a me che vedevo tutto...»
Lui mosse due passi, con i pugni stretti; ripeteva:
«Sta’ zitta... sta’ zitta...», poiché non sapeva cosa rispondere.
La vecchia domestica non desistette: pareva decisa a tutto.
Ma Georges, dapprima spaventato, poi terrorizzato da quelle voci agitate, si mise a protestare. Se ne stava in piedi dietro al padre e, con la faccina contratta, la bocca spalancata, urlava.
Le grida del figlio esasperarono Parent, e lo riempirono di coraggio e di furore. Si precipitò su Julie, con le braccia in alto, pronto a colpire, e gridò:
«Ah, miserabile, farai impazzire il piccolo!».
E già aveva messo le mani su di lei, ma la donna gli buttò in faccia:
«Il signore può anche picchiarmi se vuole, picchiare me che l’ho tirato su, ma non impedirà che sua moglie lo tradisca e che suo figlio non sia suo!».
Si fermò di colpo, e lasciò ricadere le braccia; restò davanti alla vecchia, sgomento; non capiva più nulla.
Lei aggiunse:
«Basta guardare il bambino per riconoscerne il padre! È tutto il ritratto del signor Limousin. Basta guardare gli occhi, la fronte. Anche un cieco non potrebbe sbagliare...».
Ma lui l’aveva afferrata per le spalle e la scuoteva con tutte le sue forze, balbettando:
«Vipera... vipera! Fuori di qui, vipera!... Vattene o ti ammazzo!... Vattene! Vattene!...».
E con un disperato sforzo la scaraventò nella stanza accanto. La donna cadde sulla tavola apparecchiata rompendo i bicchieri, poi si rialzò e mise il tavolo tra sé e il padrone, che l’inseguiva per afferrarla di nuovo; ma lei gli gettava in faccia parole terribili:
«Il signore non ha che da uscire... questa sera... dopo cena... e poi tornare subito in casa... vedrà!... Vedrà se ho mentito!... Il signore provi... vedrà...».
Aveva ormai raggiunto la porta della cucina, fuggì. Lui le corse dietro, salì la scala di servizio sino alla camera ove si era rinchiusa, picchiò contro la porta, gridò:
«Lascerai immediatamente questa casa!».
Lei rispose attraverso l’asse di legno:
«Il signore può contarci. Tra un’ora non sarò più qui».
 
Allora lui scese lentamente, aggrappandosi alla ringhiera per non cadere. E tornò in salotto, dove Georges piangeva, seduto per terra.
Parent si lasciò cadere su una seggiola e guardò il bambino con aria istupidita. Non capiva più nulla, non sapeva più nulla, si sentiva stordito, abbrutito, pazzo, come se fosse caduto e avesse battuto la testa, ricordava appena le cose orribili che gli aveva detto la domestica. Poi, a poco a poco, la ragione come un’acqua intorbidita si schiarì, e l’abominevole rivelazione cominciò a rodergli il cuore.
Julie aveva parlato così chiaro, con una tale forza, una tale sicurezza e una tale sincerità, che lui non dubitava della sua buona fede, ma si ostinava a dubitare della sua infallibilità. Poteva essersi sbagliata, accecata dalla propria devozione per lui, spinta da un odio incosciente verso Henriette. Tuttavia, man mano che cercava di rassicurarsi e di convincersi, mille piccoli fatti gli si destavano nella memoria: parole della moglie, sguardi di Limousin, tanti piccoli fatti inosservati, quasi impercettibili, uscite a tarda ora, assenze simultanee, persino gesti quasi insignificanti ma strani, che lui non aveva saputo vedere né capire, e che adesso assumevano un’importanza estrema, stabilivano una connivenza tra quei due. Tutto quanto era avvenuto dopo il suo fidanzamento insorgeva improvvisamente nella sua mente sovreccitata dall’angoscia. E ritrovava tutto, intonazioni strane, atteggiamenti sospetti; quella sua povera mente di uomo calmo e buono, angustiato dal dubbio, gli mostrava adesso come certezza, quello che avrebbe potuto essere ancora solamente sospetto. Frugava con ostinazione accanita in quei cinque anni di matrimonio, cercando di ritrovare mese per mese, giorno per giorno, e ogni cosa inquietante che ricordava lo trafiggeva al cuore come il pungiglione di una vespa.
Non pensava più a Georges, che adesso taceva, seduto sul tappeto. Ma, visto che nessuno si occupava di lui, il monello si rimise a piangere.
Il padre si precipitò a prenderlo in braccio e gli coprì la testa di baci. Almeno gli restava il figlio! Cosa importava il resto? Lo stringeva, la bocca sui capelli biondi, sollevato, consolato, e balbettava: «Georges, mio piccolo Georges, mio caro piccolo Georges...». Poi si ricordò a un tratto di quello che aveva detto Julie! Sì, aveva detto che quello non era figlio suo, ma di Limousin... Oh, questo no, non era possibile! No, non poteva crederlo, non poteva neppure dubitarne per un attimo. Era una di quelle odiose infamie che germogliano nell’animo ignobile delle serve! Ripeteva: «Georges... mio caro Georges». Il piccolo, accarezzato, ora taceva di nuovo.
Parent sentiva il calore del piccolo petto penetrare nel suo attraverso la stoffa. E lo riempiva di amore, di coraggio e di gioia: quel calore dolce, tenero di bimbo lo accarezzava, lo fortificava, lo salvava.
Allora scostò un poco da sé la graziosa testina ricciuta per guardarla con passione. La contemplava avido, estatico, inebriandosene e continuando a ripetere:
«Oh, piccolo mio, mio piccolo Georges!...».
E poi pensò: “Eppure... e se assomigliasse davvero a Limousin?”
Avvenne in lui qualcosa di strano, di atroce, provò una violenta e acuta sensazione di freddo in tutto il corpo, in tutte le membra, come se le sue ossa a un tratto fossero diventate di ghiaccio. Oh! se assomigliasse a Limousin!... e continuava a guardare Georges che adesso rideva. Lo guardava con occhi appassionati, torbidi, folli. E cercava in quella fronte, in quel naso, in quella bocca, in quelle guance per ritrovarvi qualcosa della fronte, del naso, della bocca o delle guance di Limousin.
La mente si smarriva come quando si impazzisce e la faccia del suo bambino si trasformava sotto il suo sguardo, assumeva aspetti strani, rassomiglianze inverosimili.
Julie aveva detto: «Anche un cieco non potrebbe sbagliare». C’era dunque qualcosa di evidente, di innegabile! Ma cosa? La fronte? Sì, forse. Tuttavia Limousin aveva la fronte più stretta! Allora la bocca? Ma Limousin portava la barba lunga! Come constatare i rapporti tra il mento grassoccio del bimbo e il mento peloso dell’amico?
Parent pensava: “Non ci vedo, io, non ci vedo più, sono troppo turbato, non potrei riconoscere nulla adesso... Bisogna aspettare; bisognerà che lo guardi bene domattina, quando mi alzerò”.
Poi pensò: “Ma se assomigliasse a me, io sarei salvo, salvo!”.
E attraversò il salotto a lunghi passi per andare a esaminare nello specchio la faccia del bambino accanto alla sua.
Teneva Georges seduto sul braccio, affinché le due facce fossero vicine, e il suo smarrimento era tale che parlava ad alta voce. «Sì... abbiamo lo stesso naso... lo stesso naso... forse... non è sicuro... e lo stesso sguardo. Ma no, lui ha gli occhi azzurri... Allora... oh! mio Dio!... mio Dio!!... mio Dio! ... Sto impazzendo! ... Non voglio più vedere.. divento pazzo!...»
E fuggì lontano dallo specchio, all’altra estremità del salotto, cadde in una poltrona, depose il piccolo su un’altra, e si mise a piangere. Piangeva con grossi singhiozzi disperati. Georges, spaventato all’udire il padre lamentarsi, cominciò subito a urlare.
Suonò il campanello alla porta d’ingresso. Parent ebbe un sobbalzo, come fosse trapassato da un proiettile. Disse: “Eccola... cosa farò adesso?...”. E corse a chiudersi in camera per avere il tempo, almeno, di asciugarsi gli occhi. Ma dopo qualche istante, una nuova scampanellata lo fece di nuovo trasalire; poi ricordò che Julie se n’era andata senza avvisare l’altra cameriera. Dunque nessuno andava ad aprire? cosa fare? Andò lui. Ed ecco che a un tratto si sentì coraggioso, deciso, pronto alla dissimulazione e alla lotta. La terribile scossa lo aveva maturato in pochi attimi. E poi voleva sapere, lo voleva con il furore dei timidi e la tenacia dei buoni di cuore esasperati.
Eppure tremava! Di paura, forse? Sì... Forse aveva ancora paura di lei? Ma sappiamo quanta viltà frustata contenga a volte l’audacia?
Dietro la porta che aveva raggiunto a passi furtivi si fermò ad ascoltare. Il cuore gli martellava furiosamente: udiva solo quel suono: gran colpi sordi nel petto e la voce acuta di Georges che gridava ancora, nel salotto.
Poi il campanello tornò a suonare sulla sua testa, lo scosse come un’esplosione; allora, ansante, sul punto di venir meno, fece girare la chiave e tirò il battente.
La moglie e Limousin stavano in piedi di fronte a lui, sulla scala.
Lei disse con tono stupito in cui traspariva un poco d’irritazione:
«Sei tu adesso che apri la porta? Dov’è Julie?».
Lui aveva la gola stretta, il respiro accelerato; e si sforzava di rispondere, senza riuscire a pronunciar parola.
Lei riprese:
«Sei diventato muto? Ti ho domandato dove è Julie».
Allora lui balbettò:
«È... è... se n’è andata...».
La moglie cominciava ad arrabbiarsi.
«Come andata? E dove? Perché?»
Lui stava a poco a poco riprendendo contegno e sentiva nascere dentro di sé un odio accanito contro quella donna insolente, che stava lì in piedi davanti a lui.
«Sì, se n’è andata definitivamente... l’ho licenziata...»
«Tu l’hai licenziata?... Julie?... Ma sei pazzo...»
«Sì, l’ho licenziata perché era stata insolente... e... e ha maltrattato il piccolo.»
«Julie?»
«Sì..., Julie.»
«A proposito di che cosa è stata insolente!»
«A proposito di te.»
«Di me?»
«Sì... perché la cena era pronta e tu non tornavi.»
«E ha detto...?»
«Ha detto... cose molto sgarbate nei tuoi riguardi... e che io non dovevo... non potevo sentire...»
«Quali cose?»
«È inutile ripeterle.»
«Desidero conoscerle.»
«Ha detto che era molto triste per un uomo come me sposare una donna come te, mai puntuale, senz’ordine, senza cure, cattiva padrona di casa, cattiva madre, e cattiva moglie...»
La giovane donna era entrata nell’anticamera seguita da Limousin che non diceva una parola davanti a quella situazione inattesa. Chiuse bruscamente la porta, gettò il cappotto su una seggiola e fronteggiò il marito balbettando, esasperata:
«Hai detto?... Hai detto... che sono...?».
Lui era pallidissimo, e molto calmo. Rispose:
«Io non dico nulla, cara, ti ripeto soltanto quel che ha detto Julie, e che tu vuoi sapere: ti faccio notare che l’ho licenziata proprio a causa di quello che ha detto».
La donna fremeva, con un violento desiderio di strappargli la barba, la pelle della faccia con le unghie. Nella voce, nel tono e nel contegno intuiva la rivolta, ma non poteva rispondere nulla, e cercava di riprendere l’offensiva con qualche parola diretta e dura.
«Hai cenato?» chiese.
«No, ti ho aspettato.»
Lei alzò le spalle, impazientita.
«È stupido aspettare dopo le sette e mezza. Avresti dovuto capire che ero stata trattenuta, che avevo da fare, faccende da sbrigare.»
Poi, a un tratto, sentì il bisogno di spiegare l’impiego del suo tempo e raccontò, con parole brevi, altezzose, come avesse dovuto recarsi lontano, molto lontano per scegliere dei mobili, in rue de Rennes, e poi avesse incontrato Limousin alle sette passate in boulevard Saint-Germain, mentre tornava, e allora gli avesse chiesto di accompagnarla a mangiare un boccone in un ristorante in cui non osava entrare sola, sebbene si sentisse mancare dalla fame. Ecco come aveva cenato, con Limousin, se si poteva chiamare cena, quella: infatti avevano preso solo un brodo e mezzo pollo, tanta era la fretta di tornare a casa.
Parent rispose semplicemente:
«Ma hai fatto bene. Non ti rimprovero».
Allora Limousin, rimasto sino a quel momento muto, quasi nascosto dietro Henriette, si avvicinò e tese la mano, mormorando:
«Come stai?».
Parent prese quella mano offerta, e stringendola mollemente:
«Benissimo» rispose.
Ma la donna aveva afferrato una parola nell’ultima frase di suo marito.
«Rimproveri... Perché parli di rimproveri?... Si direbbe che ti sia messo qualche idea in testa.»
Lui si scusò:
«No, per nulla. Volevo solo risponderti che non mi ero preoccupato del tuo ritardo e che non te ne facevo una colpa».
Lei cercava un pretesto per litigare:
«Per il mio ritardo?... Sembra veramente che sia l’una di notte e che io abbia trascorso la notte fuori».
«Ma no, cara. Ho detto “ritardo” perché non trovavo altre parole. Dovevi rientrare alle sei e mezza, torni alle otto e mezza. Questo è un ritardo! Lo capisco benissimo; non... non... non me ne meraviglio neppure... Ma... ma... mi è difficile usare un’altra parola.»
«È che tu la pronunci come se avessi addirittura dormito fuori casa...»
«Ma no, ma no...»
Capì che lui avrebbe sempre ceduto, e stava per entrare nella sua camera, quando si accorse finalmente che Georges stava urlando. Allora domandò con la faccia commossa:
«Cosa ha dunque il piccolo?»
«Ti ho detto che Julie lo aveva un po’ maltrattato.»
«Cosa gli ha fatto quella miserabile?»
«Oh, quasi nulla. Lo ha spinto e lui è caduto.»
Volle vedere suo figlio e si precipitò in sala da pranzo, ma si fermò di colpo davanti alla tavola ove il vino era stato versato, le caraffe e i bicchieri rotti, le saliere rovesciate.
«Cos’è tutto questo sconquasso?»
«È Julie che...»
Ma lei gli troncò la parola con furore:
«Ah, questo è troppo, insomma! Julie mi tratta da svergognata, picchia il mio bambino, mi rompe le stoviglie, scombussola tutta la casa, e pare che tu trovi tutto questo naturale!».
«Ma no... poiché l’ho licenziata!»
«Ah, davvero... L’hai licenziata! Ma dovevi farla arrestare. Il commissario di polizia si chiama, in questi casi!»
Lui balbettò:
«Ma... mia cara... non potevo mica... non c’era ragione... Veramente, era difficile...».
Lei alzò le spalle con infinito sdegno.
«Non sarai mai altro che un buono a nulla, ecco, un poveraccio, un pover’uomo senza volontà, senza fermezza e senza energia. Ah! deve avertene dette di tutti i colori, la tua Julie, perché ti sia deciso a metterla fuori. Avrei voluto assistere per un attimo, solamente un attimo.»
Poi aprì la porta della sala e corse verso Georges, lo sollevò, lo strinse tra le braccia baciandolo: «Georget, cos’hai, micino mio, tesoro, pulcino?».
Accarezzato dalla madre, il bimbo si mise zitto. Lei ripeté:
«Cos’hai?»
E lui rispose, avendo visto male con i suoi occhi di bimbo spaventato:
«È Zulie che ha picchiato papà».
Henriette si rivolse al marito, dapprima stupefatta. Poi nel suo sguardo nacque una pazza voglia di ridere, passò come un brivido sulle sue guance lisce, le rialzò il labbro, contrasse le pinne del naso, e infine sprizzò dalla sua bocca in un limpido getto di ilarità, in una cascata di allegria, sonora e viva come il gorgheggio di un uccello. Ripeteva con piccole grida cattive che passavano tra i denti bianchi e straziavano Parent come morsi: «Ah!... ah... ah!... ah!... ti ha pi...pi... picchiato Ah!... ah!... ah!... com’è buffo... avete sentito, Limousin? Julie lo ha picchiato... picchiato... Julie ha picchiato mio marito... Ah!... ah!... ah! ... che buffo!...».
Parent balbettava:
«Ma no... ma no... non è vero... non è vero... Sono stato io invece a sbatterla in sala da pranzo, così forte che ha rovesciato tutto sulla tavola. Il bambino ha visto male. Sono stato io a colpirla!».
Henriette diceva a suo figlio:
«Ripeti, pulcino. È stata Julie a picchiare papà!» .
Lui rispose:
«Sì, è stata lei».
Poi, passando subito a un’altra idea, lei riprese:
«Ma non ha ancora mangiato, questo bambino? Non hai mangiato nulla, tesoro?».
«No, mamma.»
Allora lei si voltò, furibonda, verso il marito:
«Sei dunque pazzo, ultra pazzo! Sono le otto e mezza e Georges non ha cenato!».
Lui si scusò, smarrito in quella scena e in quella spiegazione, schiacciato sotto il crollo della sua esistenza. «Ma, mia cara, aspettavamo te. Io non volevo cenare senza di te. Siccome rincasi tutti i giorni in ritardo, pensavo che saresti tornata da un momento all’altro.»
Lei scaraventò il cappello su una poltrona, sino a quel momento l’aveva tenuto in testa, e con voce nervosa disse:
«Veramente è insopportabile avere a che fare con persone che non capiscono nulla, che non intuiscono nulla, che non sanno fare nulla da sé. Allora, se io fossi tornata a mezzanotte, il bambino non avrebbe mangiato per nulla. Come se tu non avessi potuto capire, dopo le sette e mezza passate, che io avevo avuto un impedimento, un ritardo, un intralcio!...».
Parent tremava, sentiva la collera invaderlo, ma Limousin si intromise e, rivolto alla donna, disse: «Siete proprio ingiusta, cara amica. Parent non poteva indovinare che voi sareste rincasata così tardi, cosa che non vi succede mai; e poi, come volevate che se la sbrigasse da solo, dopo aver licenziato Julie?».
Ma Henriette, esasperata, rispose:
«Eppure dovrà sbrigarsela, perché io non lo aiuterò certo. Che s’arrangi!». Ed entrò brusca in camera sua, già dimentica del fatto che il figlio non aveva mangiato.
Allora Limousin cominciò subito a darsi da fare per aiutare l’amico. Raccolse e tolse dalla tavola i bicchieri rotti, rimise i coperti e fece sedere il bimbo sul suo seggiolone, mentre Parent andava a cercare l’altra cameriera per farsi servire da lei.
Quella arrivò stupita, poiché non aveva udito nulla dalla camera di Georges dove stava lavorando.
Portò la minestra, un arrosto bruciato, poi una purée di patate.
Parent si era seduto accanto al figlio, con l’animo avvilito, la mente smarrita in quella catastrofe. Faceva mangiare il piccolo, tentava di mangiare anche lui, tagliava la carne, la masticava e l’inghiottiva con fatica, come se la gola gli si fosse paralizzata.
Allora a poco a poco nacque in lui il bisogno disperato di guardare Limousin che gli sedeva di fronte, e che stava arrotolando palline di mollica di pane. Voleva vedere se assomigliasse a Georges. Ma non osava alzare gli occhi. Tuttavia si decise, e di colpo affrontò quella faccia che avrebbe dovuto conoscere perfettamente: ora aveva l’impressione di non averla mai esaminata, tanto gli appariva diversa da quella che pensava. Di attimo in attimo gettava una rapida occhiata a quella faccia, cercando di riconoscerne i minimi lineamenti, i tratti, le espressioni; poi, subito, guardava il figlio, fingendo di farlo mangiare.
Due parole gli ronzavano all’orecchio: “Suo padre! suo padre! suo padre!” e gli pulsavano nelle tempie con ogni battito del cuore. Sì, quell’uomo, quell’uomo tranquillo seduto dall’altra parte della tavola era forse il padre di suo figlio, di Georges, del suo piccolo Georges. Parent smise di mangiare, non vi riusciva più. Un dolore atroce, uno di quei dolori che costringono a urlare e a rotolarsi per terra, ad addentare i mobili, gli lacerava tutto, dentro. Ebbe l’impulso di afferrare il coltello e di affondarselo nel ventre. L’avrebbe alleviato, salvato, sarebbe finito tutto.
Infatti, avrebbe potuto vivere adesso? Avrebbe potuto vivere, alzarsi la mattina, mangiare ai pasti, uscire nelle strade, andare a letto la sera e dormire la notte con quel pensiero fisso, avvitato dentro di lui: Limousin il padre di Georges? No, non avrebbe avuto più la forza di muovere un passo, di vestirsi, di pensare a nulla, di parlare a nessuno! Ogni giorno, ogni ora, ogni attimo si sarebbe chiesto quella cosa; avrebbe cercato di sapere, di indovinare, di sorprendere l’orribile segreto. E il piccolo, il suo caro piccolo, non avrebbe più potuto vederlo senza sopportare la spaventosa sofferenza di quel dubbio, senza sentirsi lacerare le viscere, senza esser torturato sino al midollo delle ossa. Avrebbe dovuto vivere lì, restare in quella casa, accanto a quel bambino che amava e odiava! Sì, avrebbe finito certamente con l’odiarlo. Che supplizio! Oh! se fosse stato certo che Limousin era il padre, forse sarebbe anche riuscito a calmarsi, ad addormentarsi nella propria sventura, nel proprio dolore. Ma non sapere era cosa intollerabile. Non sapere, cercare sempre, soffrire sempre, e baciare quel bimbo ogni momento, il bimbo di un altro, portarlo a spasso in città, portarlo in braccio, sentire la carezza di quei capelli sottili sotto le labbra, adorarlo e pensare continuamente: “Non è mio, forse”. Non sarebbe stato meglio non vederlo più, abbandonarlo, perderlo per strada, oppure fuggire lui stesso lontano, tanto lontano da non sentire più parlare di nulla, mai?
La porta si aprì, lui ebbe un sussulto. Era la moglie che tornava.
«Ho fame» disse «e voi, Limousin?»
Limousin rispose, esitando:
«A dir la verità, anch’io».
Lei fece portare di nuovo l’arrosto.
Parent si domandava: “Hanno cenato? oppure hanno fatto tardi per un appuntamento amoroso?”.
Mangiavano adesso con grande appetito, tutt’e due... Henriette, tranquilla, rideva e scherzava. Il marito spiava anche lei, con sguardi rapidi, subito distolti. Portava una veste da camera rosa ornata di pizzi bianchi, e la sua testa bionda, il suo collo fresco, le sue mani ben tornite uscivano dall’involucro civettuolo e profumato come da una conchiglia orlata di schiuma. Cosa aveva fatto tutto il giorno con quell’uomo? Parent li vedeva abbracciati, balbettare parole ardenti! Come poteva non sapere nulla, non indovinare guardandoli così uno accanto all’altro, lì davanti?
E come dovevano ridere di lui, se lo avevano ingannato sin dal primo giorno! Era possibile prendersi gioco a quel modo di un uomo, di un brav’uomo, perché suo padre gli aveva lasciato un poco di denaro? Perché non si potevano vedere queste cose dentro le anime, com’era possibile che nulla rivelasse agli animi retti le frodi degli animi infami, che la voce fosse la stessa, per mentire e per adorare, e lo sguardo astuto che inganna uguale allo sguardo sincero?
Li spiava, aspettando un gesto, una parola, un’intonazione. Poi a un tratto pensò: “Li sorprenderò questa sera”. E disse:
«Cara, siccome ho licenziato Julie, devo occuparmi sin da oggi per trovare un’altra domestica. Esco subito per trovare qualcuno entro domattina. Tornerò forse un poco tardi».
La moglie rispose:
«Va’, io non mi muoverò di qui. Limousin mi terrà compagnia. Ti aspetteremo».
Poi si rivolse alla cameriera:
«Metterete a letto Georges, e poi potrete sparecchiare la tavola e salire in camera vostra».
Parent si era alzato. Vacillava sulle gambe, stordito, inciampava. Mormorò: «A tra poco», e raggiunse la porta appoggiandosi al muro, perché il pavimento oscillava sotto di lui come una barca.
Georges era stato portato via dalla cameriera. Henriette e Limousin passarono nel salotto. Appena la porta fu richiusa, lui disse:
«Insomma, sei pazza a tormentare così tuo marito?».
Lei si ribellò:
«Ah, sai, comincio a trovare eccessiva quest’abitudine che hai preso da qualche tempo in qua, di considerare Parent un martire».
Limousin si sprofondò in una poltrona, e accavallando le gambe, rispose:
«Non ne faccio affatto un martire, ma trovo, io, che è ridicolo nella nostra situazione sfidare quell’uomo dalla mattina alla sera».
Lei prese una sigaretta sul camino, l’accese, e replicò:
«Ma io non lo sfido, anzi; solo, mi irrita con la sua stupidaggine... e lo tratto come merita».
Limousin riprese con voce spazientita:
«È indegno, quello che fai! Del resto, tutte le donne sono uguali. Ma come: ecco un uomo eccellente, troppo buono, stupido per fiducia e bontà, che non ci dà alcun fastidio, che non ci sospetta neppure un momento, che ci lascia liberi, tranquilli sin che vogliamo, e tu fai tutto quel che puoi per irritarlo e rovinare la nostra vita».
Lei si voltò:
«Insomma, mi hai seccato: tu sei un vigliacco, come tutti gli uomini! Hai paura di quel cretino!».
Lui si alzò di scatto, e, furioso, esclamò:
«Ma guarda! Vorrei proprio sapere cosa ti ha fatto, e di cosa puoi accusarlo! Ti rende forse infelice? ti batte? ti tradisce? No, è troppo, insomma, far soffrire quel povero diavolo soltanto perché è troppo buono, e covare rancore verso di lui perché tu lo inganni».
Lei s’avvicinò a Limousin, e, guardandolo fisso negli occhi:
«Proprio tu mi rimproveri di ingannarlo, tu? tu? Devi avere proprio un cuore nero!».
Lui si difese, con un poco di vergogna:
«Ma io non ti rimprovero nulla, cara, ti chiedo soltanto di risparmiare un po’ tuo marito, perché tutti e due abbiamo bisogno della sua fiducia. Mi pare che dovresti capirlo».
Erano vicinissimi uno all’altra: lui alto, bruno, con le fedine lunghe, il portamento un poco volgare da bel giovanotto soddisfatto di sé; lei graziosa, rosea e bionda, una piccola parigina a metà tra una borghese e una donna facile, nata in un retrobottega, allevata sulla soglia del negozio ad adescare i passanti con un’occhiata, e sposata, per caso, con il passante ingenuo innamoratosi di lei per averla vista ogni giorno davanti a quella porta, uscendo la mattina e tornando a casa la sera.
Diceva:
«Ma non capisci dunque, ingenuo sciocco, che l’odio proprio per questo, perché mi ha sposata, perché insomma mi ha comperata, perché tutto quello che dice e tutto quello che fa e tutto quello che pensa mi dà sui nervi? Mi esaspera attimo per attimo per la sua stupidaggine che tu chiami bontà, per la sua pesantezza che tu chiami buona fede, e poi soprattutto perché è mio marito, lui, invece di te! Lo sento tra noi due, benché non ci dia alcun fastidio. E poi?... e poi?... No, è troppo idiota, insomma, a non accorgersi di nulla! Vorrei che fosse almeno un po’ geloso. Vi sono momenti in cui ho voglia di gridargli: “Ma non vedi nulla, dunque, animale, non capisci che Paul è il mio amante?”».
Limousin si mise a ridere:
«In attesa, farai bene a tacere e a non compromettere la nostra esistenza».
«Oh, non la comprometterò, va’ là! con quell’imbecille, non c’è nulla da temere. No, ma è incredibile che tu non capisca quanto mi sia odioso, quanto mi dia ai nervi. Tu, hai sempre l’aria di coccolarlo, di stringergli la mano con franchezza. Gli uomini a volte sono stupefacenti.»
«Bisogna pure saper fingere, mia cara.»
«Non si tratta di finzione, caro mio, ma di sentimenti. Voi quando ingannate un uomo, pare che gli vogliate subito bene; noi, invece, lo odiamo dal momento in cui lo abbiamo tradito.»
«Non vedo perché si dovrebbe odiare un brav’uomo quando gli si porta via la moglie.»
«Non vedi?... non vedi?... È un senso che vi manca a tutti, questo! Che vuoi? sono cose che si sentono e che non si possono esprimere. E poi per cominciare non si deve...? No, non puoi capire, è inutile! Voi non avete sensibilità.»
E sorridendo, con un dolce disprezzo stanco, gli mise le mani sulle spalle, protendendo le labbra; lui chinò la testa e la strinse tra le braccia, le loro bocche s’incontrarono, e poiché si trovavano in piedi davanti allo specchio del camino, un’altra coppia uguale a loro si baciava dietro l’orologio a pendolo. Non avevano udito nulla, né il rumore della chiave nella serratura né il cigolio della porta, ma Henriette di colpo, con un grido acuto, respinse Limousin con le due braccia, e videro Parent che li guardava, livido, i pugni stretti, senza scarpe, col cappello rialzato sulla fronte.
Li guardava uno dopo l’altro con rapido spostarsi dello sguardo, senza muovere la testa. Pareva pazzo; poi, senza dir parola, si gettò su Limousin, l’afferrò stretto come per strozzarlo, lo scaraventò in un angolo del salotto con una spinta così violenta che l’altro, perdendo l’equilibrio e battendo l’aria con le braccia, andò a urtare brutalmente la testa contro il muro.
Ma Henriette, quando capì che il marito stava per ammazzare l’amante, si precipitò addosso a Parent, l’afferrò per il collo, e affondandogli nelle carni le dieci dita sottili e rosee, strinse tanto forte con i suoi nervi disperati che il sangue le sgorgò sotto le unghie. E gli mordeva la spalla come se volesse dilaniarlo con i denti. Parent, strangolato, senza respiro, lasciò andare Limousin per liberarsi dalla moglie che gli si era attaccata al collo, la afferrò per la vita, la gettò con una sola spinta dall’altra parte del salotto.
Poi, dato che aveva la collera breve di tutti i buoni, e la violenza asmatica dei deboli, rimase lì in piedi tra i due, ansimante, sfinito, senza più saper cosa fare. Il suo furore brutale si era sfogato in quello sforzo, come la schiuma di una bottiglia stappata, e la sua energia insolita finiva col fiato corto. Appena riuscì a parlare, balbettò:
«Andatevene, tutti e due... subito... andatevene!...».
Limousin era rimasto immobile nel suo angolo, attaccato al muro, ancora troppo sbigottito per capire qualcosa, troppo spaventato per muovere un dito. Henriette, con i pugni appoggiati a un tavolino, la testa in avanti, scapigliata, con il corpetto sbottonato, il petto nudo, aspettava, come una belva che stia per spiccare un balzo. Parent disse ancora, più forte:
«Andatevene, subito... Andatevene!».
Vedendo calmarsi la sua prima esasperazione, sua moglie si fece coraggio, si raddrizzò, mosse due passi verso di lui, e già quasi insolente:
«Hai dunque perso la testa?... Che cosa ti ha preso?... Perché quest’aggressione inqualificabile?...».
Lui si rivoltò alzando il pugno su di lei e balbettando:
«Oh!... oh!... è troppo, è troppo!... ho... ho... ho sentito tutto!... Tutto... tutto!... Hai capito... tutto!... miserabile! ... siete due miserabili!... Andatevene!... Tutti e due!... subito! ... Vi ammazzerei!... Andatevene!...».
Lei capì che era finita, che lui sapeva, che non sarebbe mai riuscita a giustificarsi, che bisognava cedere. Ma le era tornata tutta la sua impudenza, e l’odio contro quell’uomo, ora esasperato, la spingeva all’audacia, le metteva addosso un bisogno di sfida, di bravata.
Disse con voce chiara:
«Venite, Limousin. Dato che mi cacciano di qui, verrò a casa vostra».
Ma Limousin non si muoveva. Parent, preso da nuova collera, si mise a gridare: «Andatevene, dunque!... andatevene... miserabili!... altrimenti... altrimenti...». E afferrò una sedia che fece roteare sopra la sua testa.
Allora Henriette attraversò il salotto con passo veloce, prese per il braccio l’amante, lo strappò dal muro cui pareva attaccato, e lo trascinò verso la porta ripetendo:
«Ma venite dunque, amico mio, venite... Vedete bene che quest’uomo è pazzo... Venite via!...».
E al momento di uscire si volse verso il marito, cercando cosa poteva fare, cosa poteva inventare per ferirlo al cuore, lasciando la casa. Un’idea le attraversò la mente, una di quelle idee velenose, mortali, in cui fermenta tutta la perfidia femminile. Disse, risoluta:
«Voglio portarmi via mio figlio».
Parent, stupefatto, balbettò:
«Tuo... tuo... figlio?... Hai il coraggio di parlare di tuo figlio?... hai il coraggio... hai il coraggio di chiedere di tuo figlio... dopo... dopo... Oh! oh! oh! è troppo! Hai anche il coraggio... Ma vattene dunque, disgraziata! Va’ via!...»
Lei tornò verso il marito, quasi sorridendo, quasi già vendicata, e sfidandolo, vicinissima, faccia a faccia: «Voglio mio figlio... e tu non hai il diritto di tenertelo, perché non è tuo... hai capito, hai capito bene... Non è tuo figlio... È figlio di Limousin».
Parent, disperato, gridò: «Bugiarda... bugiarda, miserabile!».
Ma lei incalzò:
«Imbecille! Lo sanno tutti, tranne te. Ti dico che suo padre è lui! Ma se basta guardare per capire...».
Parent indietreggiava davanti a lei, barcollando. Poi a un tratto si voltò, afferrò una candela e si precipitò nella stanza vicina.
Tornò quasi subito, portando in braccio il piccolo Georges avvolto nelle coperte del letto. Il bambino, destato di soprassalto, spaventato, piangeva. Parent lo gettò nelle braccia di sua moglie, poi, senza aggiungere parola, la spinse brutalmente fuori, verso le scale dove Limousin aspettava, per prudenza.
Poi richiuse la porta, dette due giri di chiave e tirò i chiavistelli. Appena rimesso piede in salotto, cadde di schianto sul pavimento.
II
Parent visse solo, completamente solo. Durante le prime settimane che seguirono la separazione, lo stupore della sua nuova vita gli impedì di pensare molto. Aveva ripreso i suoi usi di scapolo, l’abitudine all’ozio, mangiava al ristorante, come una volta. Poiché aveva voluto evitare ogni scandalo, passava a sua moglie una pensione stabilita dai legali. Ma a poco a poco il ricordo del bambino cominciò a ossessionare la sua mente. Spesso, quando si trovava solo in casa, la sera, gli pareva a un tratto di udire Georges gridare: “Papà!” e il cuore cominciava a battergli, e si alzava in fretta per aprire la porta sulle scale e vedere se per caso il piccolo non fosse tornato. Sì, avrebbe potuto tornare come tornano i cani e i piccioni. Perché un bambino doveva avere meno istinto degli animali? Riconosciuto però il suo errore, tornava a sedersi nella poltrona e pensava al bambino. Vi pensava per ore intere, per giorni interi. Non era soltanto un’ossessione morale, ma anche, e più ancora, un’ossessione fisica, un bisogno sensuale, nervoso di abbracciarlo, di tenerlo stretto, di toccarlo, di farlo sedere sulle sue ginocchia, di farlo saltare e rimbalzare tra le mani. E si esasperava al ricordo febbrile delle carezze di un tempo. Sentiva le piccole braccia stringergli il collo, la piccola bocca deporre un grosso bacio sulla sua barba, i capelli fini solleticargli la guancia. Il desiderio di quelle dolci tenerezze scomparse, della pelle liscia, calda e gradevole offerta alle sue labbra lo straziava come il desiderio di una donna amata lontana.
Per strada, d’improvviso, si metteva a piangere al pensiero che avrebbe potuto averlo lì, a trotterellare al suo fianco con i suoi piedini, il suo paffuto Georges, come un tempo, quando lo portava a passeggio. Allora tornava a casa, e con la testa tra le mani singhiozzava sino a sera.
Poi, venti volte, cento volte al giorno si poneva la stessa domanda: era o non era lui il padre di Georges? Ma soprattutto di notte si abbandonava a interminabili ragionamenti su questo argomento. Appena coricato, ricominciava ogni sera la stessa serie di argomentazioni disperate.
Dopo la partenza di sua moglie, da principio non aveva più avuto dubbi: il bambino era certamente di Limousin. Poi, a poco a poco, divenne di nuovo incerto. L’affermazione di Henriette non poteva avere alcun valore. Lo aveva sfidato, cercando di spingerlo alla disperazione. Pesando freddamente i pro e i contro, c’erano molte probabilità che lei avesse mentito.
Solo Limousin, forse, avrebbe potuto dire la verità. Ma come sapere, come interrogarlo, come indurlo a confessare?
A volte Parent si alzava in piena notte, deciso ad andare a trovare Limousin, a pregarlo, a offrirgli tutto quel che volesse, per metter fine all’orribile angoscia. Poi tornava a coricarsi, disperato, avendo riflettuto che anche l’amante avrebbe certamente mentito. Avrebbe mentito anche per impedire al vero padre di riprendersi suo figlio.
Allora, cosa fare? Nulla.
Era desolato per aver precipitato le cose, per non aver riflettuto per non aver avuto pazienza, per non aver saputo aspettare e fingere per un mese o due, allo scopo di vedere le cose coi suoi propri occhi. Avrebbe dovuto fingere di non sospettare nulla, e lasciare che essi si tradissero da soli, pian piano. Gli sarebbe bastato vedere l’altro baciare il piccolo per indovinare, per capire tutto. Un amico non bacia come un padre. Li avrebbe spiati dietro le porte! Come non ci aveva pensato? Se Limousin, rimasto solo con Georges, non lo avesse subito preso, stretto tra le braccia, baciato appassionatamente; se lo avesse lasciato giocare con indifferenza, senza occuparsi di lui, nessuna esitazione sarebbe stata possibile: allora voleva dire che lui non era, non si considerava, non si sentiva il padre.
In quel modo lui, Parent, scacciando la madre, avrebbe potuto tenere suo figlio, e sarebbe stato felice, assolutamente felice.
Si rigirava nel letto, sudato, tormentato, cercando di ricordarsi atteggiamenti di Limousin con il piccolo. Ma non ricordava nulla; assolutamente nulla, nessun gesto, nessuna parola, nessuna carezza sospetta. E poi, neppure la madre si occupava del bambino: se lo avesse avuto dall’amante, lo avrebbe certo amato di più. Lo avevano dunque privato di suo figlio per vendetta, per crudeltà, per punirlo del fatto che li aveva sorpresi.
Allora decideva di recarsi subito, all’alba, dai magistrati per farsi restituire Georges.
Ma, appena presa questa risoluzione, si sentiva subito invaso dalla certezza contraria. Dal momento che Limousin era stato sin dal primo giorno l’amante di Henriette, l’amante amato, lei doveva esserglisi data con quello slancio, quell’abbandono, quell’ardore che rendono le donne madri. La fredda riserva che aveva sempre mostrato nei suoi rapporti con lui, Parent, non era forse anch’essa un ostacolo al fatto che fosse fecondata dal suo amplesso?
Allora sarebbe andato a reclamare, a prendere con sé, a trattenere per sempre e curare il figlio di un altro. Non avrebbe potuto guardarlo, baciarlo, sentirlo dire “papà” senza che quel pensiero lo colpisse, lo lacerasse: “Non è mio figlio!”. E voleva condannarsi a questo supplizio di ogni istante, a questa vita da infelice? No, era meglio restare solo, vivere solo, invecchiare solo e morire solo.
E ogni giorno e ogni notte ricominciavano questi orribili dubbi, queste atroci sofferenze che nulla poteva calmare né abolire. Temeva soprattutto l’oscurità della sera incombente, la tristezza dei crepuscoli. Allora cadeva sul suo cuore come una pioggia di dolore, uno sconforto che scendeva con le tenebre, lo sommergeva e lo colmava di sgomento. Aveva paura di quei pensieri come si ha paura dei ladri, e fuggiva davanti a essi come una bestia inseguita. Temeva soprattutto la casa vuota, così buia e terribile, e le vie deserte anche, con un lampione acceso di tanto in tanto, ove il passante solitario, udito di lontano, pare un malvivente e fa rallentare o affrettare il passo a seconda che venga incontro o ci segua.
E Parent istintivamente andava verso le grandi strade illuminate e piene di gente. La luce e la folla lo attiravano, lo interessavano e lo stordivano. Poi, quand’era stanco di errare, di vagabondare tra i gorghi della folla, quando vedeva i passanti farsi più rari e i marciapiedi più liberi, il terrore della solitudine e del silenzio lo spingeva verso un caffè pieno di clienti e di luce. Andava come le falene vanno verso la fiamma, sedeva davanti a un tavolino rotondo e chiedeva un boccale di birra. Lo beveva lentamente, preoccupandosi ogni volta che uno dei clienti si alzava per andarsene. Avrebbe voluto prenderlo per il braccio, trattenerlo, pregarlo di restare ancora un poco, tanto gli faceva paura l’ora in cui il cameriere, in piedi davanti a lui, avrebbe dichiarato con tono furioso: «Andiamo, signore, si chiude!».
Infatti, ogni sera lui era sempre l’ultimo. Vedeva ritirare i tavolini, spegnere una a una le lampade, tranne due, la sua e quella della cassa. Guardava con occhi rattristati la cassiera che contava il denaro e lo chiudeva nel cassetto; e se ne andava spinto fuori dai camerieri che mormoravano: «Che tipo di buono a nulla! Pare che non sappia dove andare a dormire».
E, appena si ritrovava solo nella strada buia, ricominciava a pensare a Georges e a scavarsi il cervello, a torturarsi la mente per scoprire se era o non era padre di suo figlio.
Prese perciò l’abitudine di frequentare le birrerie, ove il continuo contatto di gomito con i bevitori pone accanto a un pubblico familiare e silenzioso, ove il fumo grasso delle pipe addormenta i pensieri molesti, mentre la birra densa appesantisce la mente e calma il cuore.
In questi luoghi visse. Appena alzato, andava lì, a cercarsi qualche vicino per occupare lo sguardo e il pensiero. Poi, per pigrizia di muoversi, si mise a consumare lì anche i pasti. Verso mezzogiorno batteva il piattino sul tavolino di marmo, e il cameriere gli portava subito un piatto, un bicchiere, un tovagliolo e il pranzo del giorno. Appena finito di mangiare, beveva lentamente il suo caffè, l’occhio fisso sul bottiglione di liquore che di lì a poco gli avrebbe concesso una buona ora d’abbrutimento. Dapprima si bagnava le labbra nel cognac, come per abituarsi al gusto, cogliendo solo il sapore del liquido con la punta della lingua. Poi se lo versava in bocca, goccia a goccia, rovesciando la testa indietro: tratteneva un poco il forte liquore contro il palato, sulle gengive e su tutta la mucosa delle gote, mescolandolo con la saliva chiara che il contatto faceva sgorgare. Poi, addolcito dalla mescolanza, l’inghiottiva con raccoglimento, sentendolo scorrere lungo tutta la gola, siero in fondo allo stomaco.
Dopo ogni pasto, sorbiva a questo modo per più di un’ora tre o quattro bicchierini che a poco a poco lo intorpidivano. Allora chinava la testa sul petto, chiudeva gli occhi e sonnecchiava. Si destava verso la metà del pomeriggio, e già stendeva la mano verso il boccale di birra che il cameriere gli aveva messo davanti mentre dormiva, e, dopo averlo vuotato, si drizzava sulla panchetta di velluto rosso, rialzava i pantaloni, abbassava il panciotto per coprire il rigonfio bianchiccio che straripava in mezzo, si assestava il colletto della giacca, tirava i polsini della camicia fuori dalle maniche, poi riprendeva i giornali che aveva letto la mattina.
Ricominciava a leggerli dalla prima riga all’ultima, compresa la pubblicità, le domande d’impiego, gli annunci economici, il listino della Borsa e i programmi degli spettacoli.
Tra le quattro e le sei andava a fare un giro sui boulevard, per prendere aria, diceva: poi tornava a sedersi al posto che gli era stato tenuto, e chiedeva il suo assenzio.
Allora parlava con i clienti abituali, con i quali aveva ormai fatto conoscenza. Commentavano le notizie del giorno, i fatti di cronaca e gli avvenimenti politici: questo gli permetteva di fare l’ora di cena. La sera la passava come il pomeriggio sino al momento della chiusura. Era per lui il momento terribile in cui doveva tornare nell’oscurità, nella camera vuota gremita di orribili ricordi e neri pensieri e angosce. Non vedeva più nessuno dei vecchi amici, nessuno dei parenti, nessuno che gli potesse ricordare la vita di un tempo.
Ma, poiché il suo appartamento era diventato per lui un inferno, prese una camera in un grande albergo, una bella camera al piano rialzato allo scopo di vedere la gente che passava. Non era più solo in quel vasto alloggio pubblico, sentiva il brulicare della folla intorno a sé, udiva voci dietro le pareti, e quando le sue vecchie sofferenze lo tormentavano troppo crudelmente davanti al letto pronto per la notte e alla fiamma solitaria del camino, usciva nei vasti corridoi e andava avanti e indietro come una sentinella lungo tutte quelle porte chiuse, guardando tristemente le scarpe accoppiate davanti a ognuna, i graziosi stivaletti da donna accovacciati vicino ai forti stivali da uomo, e pensava che tutte quelle persone erano felici, certo, e dormivano teneramente vicine o abbracciate nel calore del loro giaciglio.
Cinque anni se ne andarono così: cinque tristi anni senza altri avvenimenti che qualche amore di due ore, al prezzo di due luigi, di tanto in tanto.
Un giorno, mentre faceva la sua passeggiata abituale tra la Madeleine e la rue Drouot, scorse a un tratto una donna la cui figura lo colpì. Un signore alto e un bambino erano con lei. Tutti e tre camminavano davanti a lui. Si domandò: “Dove li ho già visti?”, e improvvisamente riconobbe un gesto di quella mano: era sua moglie, sua moglie con Limousin, e con il suo bambino, il suo piccolo Georges.
Il cuore gli batteva da soffocare, tuttavia egli non si fermò; voleva vederli, e si mise a seguirli. Parevano una famiglia, una bella famiglia di bravi borghesi. Henriette si appoggiava al braccio di Paul, gli parlava dolcemente guardandolo ogni tanto di sbieco. Parent allora la vedeva di profilo, riconosceva la linea aggraziata di quella faccia, i movimenti di quella bocca, quel sorriso, la carezza di quello sguardo. Ma il bambino soprattutto lo interessava. Come era alto, e forte! Parent non riusciva a scorgerne i lineamenti, ma solo i lunghi capelli biondi che ricadevano sul colletto in ciocche ricciute. Era Georges, quel ragazzo alto a gambe nude, che camminava come un ometto al fianco di sua madre.
Si fermarono davanti a un negozio; allora li vide tutt’e tre. Limousin aveva i capelli bianchi, era invecchiato, dimagrito; sua moglie invece, più fresca che mai, era piuttosto ingrassata e Georges era diventato irriconoscibile, tanto diverso da un tempo!
Si rimisero in cammino. Parent li seguì ancora, poi li superò affrettando il passo per poter tornare indietro e rivederli, da vicino, in faccia. Quando fu accanto al bambino, provò la voglia, una voglia matta di stringerlo tra le braccia e portarselo via. Lo sfiorò, come per caso. Il piccolo girò la testa e guardò quel maleducato con occhi indignati. Allora Parent scappò, colpito, perseguitato, ferito da quello sguardo. Fuggì come un ladro, preso dall’orribile paura di essere stato visto e riconosciuto dalla moglie e dall’amante. Arrivò di corsa sino alla sua birreria, si lasciò cadere sulla sedia, ansimando.
Bevve tre assenzi, quella sera.
Per quattro mesi conservò nel cuore la piaga di quell’incontro. Ogni notte li rivedeva tutt’e tre, felici e tranquilli, padre, madre, figlio, passeggiare sul boulevard prima di rincasare per la cena. Questa nuova visione cancellava l’antica. Era un’altra cosa, un’altra allucinazione, adesso, e anche un altro dolore. Il piccolo Georges, il suo piccolo Georges, quello che aveva tanto amato e baciato un tempo, scompariva in un passato lontano e chiuso; al suo posto vedeva un altro Georges, un Georges quasi fratello del primo, un ragazzetto dai polpacci nudi, che non lo riconosceva più! Soffriva orribilmente a questo pensiero. L’amore del piccolo era morto, nessun legame esisteva più tra loro, il ragazzo non aveva teso le braccia vedendolo. Anzi, lo aveva guardato con occhi malevoli.
Poi, a poco a poco, il suo animo tornò a placarsi, le sue torture mentali si affievolirono, l’immagine apparsa davanti ai suoi occhi, e che costituiva l’incubo delle sue notti, divenne imprecisa, vaga. Riprese a vivere press’a poco come tutti, come tutti i disoccupati che bevono birra su tavolini di marmo e consumano il fondo dei pantaloni sul velluto rasato dei sedili imbottiti.
Invecchiò nel fumo delle pipe, perse i capelli sotto la fiamma della luce a gas, considerò come avvenimenti il bagno settimanale, il taglio dei capelli quindicinale, l’acquisto di un abito nuovo o di un nuovo cappello. Quando arrivava alla birreria con in testa un copricapo appena comprato, si contemplava a lungo nello specchio prima di sedersi, se lo metteva e se lo toglieva più volte di seguito, calcandolo, inclinandolo in diverse maniere, e domandava infine alla sua amica, la cassiera, che lo guardava con interesse: «Trovate che mi stia bene?».
Due o tre volte l’anno andava a teatro, e, d’estate, trascorreva qualche volta la serata in un caffè concerto degli Champs-Élysées. Tornava con certi ritornelli che gli cantavano in fondo alla memoria per varie settimane; e canticchiava battendo il tempo col piede, seduto davanti al boccale di birra.
Gli anni si accumulavano uno sull’altro, lenti, monotoni, e brevi perché erano vuoti. Non se li sentiva scivolare sopra. S’inoltrava verso la morte senza muoversi, senza agitarsi, inchiodato al tavolino di una birreria, e solo il grande specchio cui appoggiava il cranio sempre più sguarnito rifletteva i danni del tempo che fugge divorando gli uomini, i poveri uomini.
Ora pensava solo raramente al dramma terribile in cui era sprofondata la sua vita: erano trascorsi già vent’anni dopo quella serata tragica.
Ma l’esistenza che si era creata in seguito lo aveva consumato, rammollito, esaurito; e spesso il proprietario della birreria, il sesto proprietario da che lui frequentava il locale, gli diceva: «Dovreste scuotervi un poco, signor Parent, dovreste prendere aria, andare in campagna; vi assicuro che siete molto cambiato, da qualche mese in qua». E quando il cliente era uscito, il commerciante comunicava le sue riflessioni alla cassiera: «Gli va piuttosto male, a quel poveraccio di Parent. Non gli giova certo starsene sempre a Parigi. Consigliategli dunque di andare nei dintorni a mangiare una zuppa di pesce ogni tanto: a voi dà retta. Tra poco viene l’estate, e lo rimetterà in sesto».
E la cassiera, piena di pietà e benevolenza per quell’ostinato cliente, ripeteva ogni giorno a Parent: «Signore, decidetevi a prender un poco d’aria! È così bello, in campagna, quando fa bel tempo! Oh, io, se potessi, ci passerei la vita!».
E gli comunicava i suoi sogni, i sogni poetici e semplici di tutte le povere ragazze rinchiuse tutto l’anno dietro i vetri di un negozio, a guardar scorrere la vita fittizia e rumorosa della strada, a pensare alla vita calma e dolce della campagna, alla vita sotto gli alberi, sotto il sole radioso che inonda i prati, i boschi profondi, i fiumi chiari, le mucche coricate nell’erba e tutti i fiori diversi, i fiori liberi azzurri rossi gialli viola lilla rosa e bianchi, così gentili e freschi e profumati, tutti i fiori della natura che si raccolgono passeggiando, e che formano grossi mazzi.
Provava piacere a parlargli continuamente di quel suo eterno desiderio, irrealizzato e irrealizzabile, e lui, povero vecchio senza speranze, provava piacere ad ascoltarla. Adesso andava addirittura a sedersi accanto alla cassa per conversare con la signorina Zoe e discutere sulla campagna con lei. Allora, a poco a poco, gli si destò dentro un vago desiderio di andare a vedere, una volta, se fosse davvero così piacevole come lei diceva, fuori delle mura della grande città.
Una mattina domandò:
«Sapete dove si può mangiare bene nei dintorni di Parigi?».
La ragazza rispose:
«Andate alla Terrazza di Saint-Germain. È così bello».
C’era già andato una volta, all’epoca del fidanzamento. Decise di tornarci.
Scelse una domenica, senza alcuna ragione speciale, unicamente perché esiste l’usanza di uscire la domenica, anche quando durante la settimana non si fa nulla.
E partì dunque, una domenica mattina, per Saint-Germain.
Era l’inizio di luglio, una giornata calda e luminosa. Seduto accanto alla porta del suo scompartimento, guardava sfilare gli alberi e le piccole case bizzarre dei dintorni di Parigi. Si sentiva triste, annoiato per aver ceduto a quel nuovo desiderio, per aver violato le sue abitudini. Il paesaggio mutevole e pur sempre uguale lo stancava. Aveva sete, sarebbe volentieri sceso a ogni fermata per sedersi al caffè che aveva scorto dietro la stazione, bere una birra o due, e riprendere il primo treno in transito per Parigi. E poi il viaggio gli pareva lungo, molto lungo. Poteva stare seduto per giornate intere, purché avesse sotto gli occhi le stesse cose immobili; ma trovava snervante e faticoso restare seduto mutando il luogo, vedere il paesaggio intero correre, mentre lui stesso non faceva un movimento.
Tuttavia s’interessò alla Senna, ogni volta che si trovò ad attraversarla. Sotto il ponte di Chatou vide delle canoe spinte a gran colpi di remo da canottieri a braccia nude, e pensò: “Quei giovanotti non devono certo annoiarsi!”.
Il lungo nastro di fiume che si snodava dalle due parti del ponte di Pecq destò nel fondo del suo animo un vago desiderio di passeggiare lungo le rive. Ma il treno s’ingolfò nella galleria che precede la stazione di Saint-Germain, per fermarsi poi subito presso il marciapiede: era arrivato.
Parent scese e, appesantito dalla stanchezza, si avviò, le mani dietro la schiena, verso la Terrazza. Poi, giunto alla balaustra di ferro, si fermò per guardare l’orizzonte. La pianura immensa si stendeva sotto di lui come un mare, verde e disseminata di grossi villaggi, popolosi più di una città. Il vasto paesaggio era solcato da strade bianche, e tratti di foresta vi creavano macchie qua e là, e gli stagni del Vésinet luccicavano come lastre d’argento, e i colli lontani di Sannois e di Argenteuil si disegnavano sotto una bruma leggera e azzurrina che li lasciava appena intravedere. Il sole inondava con la sua luce abbondante e calda tutto il gran paesaggio un poco velato dai vapori mattutini, dal sudore che la terra riscaldata esalava in sottili nebbie, e dal respiro umido della Senna che si snodava come un serpente senza fine attraverso le pianure, circondava i villaggi e costeggiava le colline.
Una brezza molle, affollata dal verde sentore della linfa, accarezzava la pelle, penetrava in fondo ai polmoni, pareva ringiovanire il cuore, alleviare l’animo, vivificare il sangue.
Parent, sorpreso, respirava profondamente, con gli occhi abbagliati dalla distesa del paesaggio; mormorò: “Ma guarda! Si sta proprio bene, qui!”.
Poi fece qualche passo e si fermò di nuovo a guardare. Gli pareva di scoprire cose nuove e sconosciute, non quelle che vedevano i suoi occhi, ma cose che il suo animo intuiva, avvenimenti ignorati, gioie inesplorate: tutto un orizzonte di vita che non aveva mai sospettato gli si spalancava all’improvviso davanti in quell’orizzonte di campagna illimitata.
Tutta l’orribile tristezza della sua esistenza gli apparve illuminata dalla luce violenta che inondava la terra. Rivide i vent’anni passati rinchiuso, cupi, monotoni, snervanti. Avrebbe potuto viaggiare, come altri, andarsene laggiù, laggiù, presso popoli stranieri, in terre poco conosciute, al di là dei mari, interessarsi a quanto appassiona gli uomini, alle arti, alle scienze, amare la vita dalle mille forme, la vita misteriosa, affascinante o tragica, sempre mutevole, sempre inesplicabile e sorprendente.
Adesso, era troppo tardi. Sarebbe passato da una birra all’altra, sino alla morte, senza famiglia, senza amici, senza speranze e senza curiosità per nulla. Uno sconforto infinito lo invase, un desiderio di fuggire, di nascondersi, di tornare a Parigi, nella sua birreria e nel suo torpore! Tutti i pensieri, i sogni, i desideri che dormono nella pigrizia dei cuori stagnanti si erano destati, smossi per quel raggio di sole sulle pianure.
Sentì che se fosse rimasto ancora un poco solo in quel luogo, avrebbe perso la testa, e raggiunse in fretta il padiglione Henri IV per pranzare, stordirsi con il vino, con l’alcool, parlare almeno con qualcuno.
Prese una piccola tavola nel boschetto di dove si domina tutta la campagna, stabilì il suo menù e pregò che lo servissero immediatamente.
Altri gitanti stavano arrivando, sedevano ai tavoli vicini. Si sentiva meglio, ora; non era più solo.
Sotto una pergola stavano pranzando tre persone. Le, aveva guardate più volte senza vederle, come si guardano persone indifferenti.
A un tratto, una voce di donna gli mise addosso uno di quei brividi che fanno trasalire il midollo delle ossa.
Aveva detto, quella voce:
«Georges, devi tagliare il pollo».
E un’altra voce rispose:
«Sì, mamma».
Parent alzò lo sguardo, e capì, indovinò subito chi fossero quelle persone! Certamente non le avrebbe riconosciute! Sua moglie era bianca di capelli, molto robusta, una vecchia signora seria e rispettabile; mangiava con la testa china per timore di macchiarsi, sebbene si fosse coperta il petto con il tovagliolo. Georges era diventato un uomo. Aveva un poco di barba, di quella barba disuguale e quasi incolore che si arriccia sulle gote degli adolescenti. Portava un cappello a cilindro, un panciotto di tela bianca e un monocolo, per civetteria, senza dubbio. Parent lo guardava, stupefatto! Quello era dunque Georges, suo figlio? No, non lo conosceva, quel giovanotto; non poteva esistere nulla in comune tra loro.
Limousin voltava le spalle e mangiava, la schiena un poco curva.
Dunque quei tre parevano felici e contenti, venivano a pranzare in campagna, in ristoranti rinomati. Avevano avuto un’esistenza calma e dolce, un’esistenza familiare in una bella casa calda e popolata, popolata di tutte le parole tenere che ci si scambia continuamente quando ci si vuol bene. Erano vissuti così per merito suo, di Parent, con il suo denaro, dopo averlo ingannato, derubato e perduto! Lo avevano condannato, lui, l’innocente, l’ingenuo, il bonaccione, a tutte le tristezze della solitudine, all’abominevole vita che aveva trascorso tra un marciapiede e un banco di birreria, a tutte le torture morali e a tutte le miserie fisiche! Avevano fatto di lui un essere inutile, perduto, smarrito in mezzo alla gente, un povero vecchio senza nessuna possibilità di gioia, di speranza, ridotto a non attendersi nulla da nulla e da nessuno. Per lui la terra era vuota, perché non amava nulla sulla terra; poteva percorrere strade e paesi, entrare in tutte le case di Parigi, aprire tutte le camere, ma non avrebbe trovato dietro nessuna porta il viso caro amato e cercato, viso di donna o di bambino che sorridesse al suo apparire. Questo pensiero specialmente lo tormentava, l’idea della porta da aprire per trovarvi dietro qualcuno da abbracciare.
Ed era colpa di quei tre miserabili, questo! Colpa di quella donna indegna, di quell’amico infame e di quel ragazzone biondo che adesso assumeva arie arroganti.
Adesso lui provava rancore verso il ragazzo quanto verso gli altri due! Non era figlio di Limousin? Forse Limousin lo avrebbe tenuto con sé, amato, se non fosse stato così? Forse Limousin non avrebbe abbandonato in fretta la madre e il piccolo se non avesse saputo che il piccolo era suo, proprio suo? Si allevano forse i figli degli altri?
Dunque erano lì, vicini a lui, quei tre malfattori che lo avevano tanto fatto soffrire. Parent li guardava, irritato, esaltandosi al ricordo di tutti i suoi dolori, di tutte le sue angosce e disperazioni. Lo esasperava soprattutto la loro aria placida e soddisfatta. Aveva voglia di ucciderli, di scagliar loro addosso il sifone del selz, di spaccare la testa a Limousin, quella testa che vedeva continuamente abbassarsi sul piatto e rialzarsi.
E avrebbero continuato a vivere così, senza pensieri, senza preoccupazioni di nessun genere. No, no. Era troppo! Doveva vendicarsi, e si sarebbe vendicato subito, poiché li aveva sottomano. Ma come? Pensava, sognava cose terribili come accadono nelle cronache dei giornali, ma non trovava nulla di pratico, di effettuabile. E beveva un bicchiere sull’altro per eccitarsi, per darsi coraggio, per non lasciarsi sfuggire una simile occasione: non l’avrebbe certo ritrovata mai più.
A un tratto gli venne un’idea, un’idea terribile; smise di bere per maturarla. Un sorriso gli increspava le labbra, mormorava: “Li tengo, li ho in mano. Ora vedremo. Vedremo”.
Un cameriere gli domandò:
«Cosa desidera il signore, dopo?».
«Nulla. Caffè e cognac, del migliore.»
E li guardava mentre sorbiva i suoi bicchierini. C’era troppa gente in quel ristorante per quello che lui voleva fare: quindi avrebbe aspettato, li avrebbe seguiti; sarebbero andati certamente a passeggiare sulla terrazza o nella foresta. Quando si fossero un poco allontanati, li avrebbe raggiunti, e allora si sarebbe vendicato; sì, come si sarebbe vendicato! Non era troppo presto, d’altronde, dopo ventitré anni di sofferenze. Ah! non sospettavano certo quello che sarebbe accaduto.
Stavano lentamente terminando il loro pranzo, conversando sicuri e tranquilli. Parent non poteva sentire i loro discorsi, ma vedeva i loro gesti calmi. La faccia di sua moglie soprattutto lo esasperava. Aveva assunto un’aria altera, l’aria di una grossa bigotta, una donna inabbordabile, corazzata di princìpi, blindata di virtù. Poi pagarono il conto e si alzarono. Allora lui vide Limousin. Pareva un diplomatico in pensione, tanto era imponente con le belle fedine soffici e bianche che ricadevano sul colletto della redingote.
Uscirono. Georges fumava un sigaro e portava il cappello sull’orecchio. Parent, subito, gli si mise alle calcagna.
Fecero prima un giro sulla terrazza, ammirando placidamente il paesaggio, come ammira la natura la gente ben sazia; poi entrarono nella foresta.
Parent si fregava le mani, e li seguiva sempre, da lontano, nascondendosi per non destare troppo presto la loro attenzione.
Procedevano a passi lenti, come immergendosi in un bagno di verde e di aria tiepida. Henriette si appoggiava al braccio di Limousin e camminava diritta al suo fianco come una sposa sicura e fiera di sé. Georges spezzava foglie con il suo bastoncino, e saltava a volte i fossi della strada con un balzo leggero da giovane cavallo ardente pronto a involarsi tra il fogliame.
Parent, a poco a poco, si avvicinava, ansante per l’emozione e la fatica; infatti non era abituato a camminare. Presto li raggiunse, ma fu preso da una paura confusa e inspiegabile; li superò, per tornare poi verso di loro e affrontarli.
Camminava col cuore palpitante; ora li sentiva dietro di sé, e si ripeteva: “Suvvia, questo è il momento: audacia, ci vuole, un poco di audacia! È il momento”.
Si girò. Si erano seduti tutt’e tre sull’erba ai piedi di un grosso albero, e parlavano.
Allora si decise, e tornò indietro con passo rapido. Fermatosi davanti a loro, ritto in mezzo alla strada, balbettò con voce secca, ma rotta dall’emozione:
«Sono io! Eccomi qui! Non mi aspettavate?».
Tutt’e tre esaminarono quell’uomo, che pareva pazzo.
Lui riprese:
«Si direbbe che non mi riconosciate. Guardatemi, dunque: sono Parent, Henri Parent, Non mi aspettavate, eh? Pensavate che fosse tutto finito, per sempre, che non mi avreste più rivisto, mai più. Ah, no. Eccomi qui. E adesso ci spiegheremo».
Henriette, sgomenta, si nascose il viso tra le mani, mormorando: «Oh, mio Dio!».
Vedendo quello sconosciuto che pareva minacciare sua madre, Georges si era alzato, pronto ad afferrarlo per il colletto.
Limousin, annichilito, guardava con occhi allarmati quel fantasma che, dopo aver ansimato un poco, continuò:
«Allora adesso ci sarà una spiegazione. È venuto il momento! Ah! mi avete ingannato, mi avete condannato a una vita da forzato, e avete creduto che non vi avrei più ripescati!».
Ma il giovanotto lo prese per le spalle, e lo respinse:
«Siete pazzo? Cosa volete? Andate per la vostra strada, subito, altrimenti ve le do, io!».
Parent rispose:
«Cosa voglio? Voglio rivelarti cosa sono questi due!».
Ma Georges, esasperato, lo scuoteva, e stava per colpirlo. L’altro disse: «Lasciami: sono tuo padre... Ecco, guarda se adesso mi riconoscono, quei miserabili!».
Il giovane, sgomento, lasciò la presa e si rivolse a sua madre.
Parent, liberato, avanzò verso la donna:
«Eh? Digli chi sono, diglielo tu! Digli che mi chiamo Henri Parent, e che sono suo padre, poiché lui si chiama Georges Parent, poiché tu sei mia moglie, e poiché vivete tutt’e tre del mio denaro, della pensione di diecimila franchi che io vi passo da quando vi ho cacciati da casa mia. Digli anche perché vi ho cacciati da casa mia. Perché ti ho sorpresa insieme con questo disgraziato, quest’infame, il tuo amante! Digli cos’ero io: un brav’uomo, sposato da te per il mio denaro, e ingannato sin dal primo giorno. Digli chi sei tu, e chi sono io...».
Balbettava, con il fiato grosso, trascinato dalla collera. La donna gridò con voce lacerante:
«Paul, Paul, impedisciglielo; che taccia, che stia zitto; fallo tacere, che non dica questo davanti a mio figlio!».
Limousin si era alzato anche lui. Mormorò a voce molto bassa:
«Sta’ zitto. Sta’ zitto. Cerca di capire quello che fai».
Parent riprese con violenza:
«Lo so bene, quello che faccio. E non è tutto. C’è una cosa che voglio sapere, una cosa che mi tortura da vent’anni».
Poi, rivolto a Georges che, smarrito, si era appoggiato a un albero:
«Ascoltami, tu. Quando lei se n’è andata da casa mia, ha pensato che non era sufficiente avermi tradito; ha voluto anche gettarmi nella disperazione. Tu eri tutta la mia consolazione: ebbene, ti ha portato via giurando che io non ero tuo padre, ma che tuo padre era lui! Ha mentito? non lo so. Da vent’anni me lo domando».
Si fece vicinissimo a lei, tragico, terribile, e strappandole la mano dalla faccia:
«Ebbene, oggi ti intimo di dirmi chi di noi è il padre di questo ragazzo: lui o io; tuo marito o il tuo amante. Su, su, dillo!».
Limousin si precipitò contro di lui. Parent lo respinse, e con una risata amara di furore:
«Ah, sei coraggioso, oggi; sei più coraggioso del giorno in cui scappavi per le scale perché io ti avrei ammazzato. Ebbene! se lei non risponde, rispondi tu. Tu devi saperlo quanto lei. Dimmi, sei il padre di questo ragazzo? Su, via, andiamo, parla!».
Tornò verso la moglie.
«Se non vuoi dirlo a me, dillo almeno a tuo figlio. È un uomo, oggi. Ha bene il diritto di sapere chi è suo padre. Io non lo so, non l’ho mai saputo, mai, mai! Io non posso dirtelo, ragazzo mio!»
Si disperava, la sua voce prendeva toni acuti. E agitava le braccia come un epilettico.
«Ecco... ecco... rispondete, dunque... Lei non lo sa... scommetto che non lo sa... No... non lo sa... maledizione!... andava a letto con tutt’e due!... Ah! ah! ah! ... nessuno lo sa... nessuno... come si possono sapere queste cose?... Neanche tu lo saprai, ragazzo mio, non lo saprai, non più di me... mai... Ecco... domandaglielo... domandaglielo... vedrai che non lo sa ... E neppure io ... e neppure lui... e neppure tu... nessuno lo sa ... Puoi scegliere... sì... puoi scegliere... lui o me... scegli... Buonasera... è finita... Se lei si deciderà a dirtelo, verrai a informarmi, all’albergo dei Continenti, vero?... Mi farà piacere saperlo... Buonasera... Vi auguro buon divertimento...»
E se ne andò gesticolando, continuando a parlare da solo, sotto i grandi alberi, nell’aria vuota e fresca, piena d’odore di linfa. Non si girò a guardarli neppure una volta. Camminava dritto, spinto dal furore, da un soffio d’esaltazione, con la mente rapita dalla sua idea fissa.
A un tratto si trovò davanti alla stazione. Un treno era in partenza. Vi salì. Durante il viaggio, la sua collera si placò; riprese il dominio di sé e tornò a Parigi, stupefatto della propria audacia.
Si sentiva spezzato come se gli avessero rotto le ossa. Andò tuttavia a bere una birra nel suo locale.
Vedendolo entrare, la signorina Zoe, sorpresa, gli domandò:
«Già di ritorno? Vi siete stancato?».
Rispose:
«Sì... Sì, molto stancato... molto stancato!... Capite... quando non si è abituati a uscire! È finita, non ci ritornerò, in campagna. Avrei fatto meglio a restare qui. Ormai, non mi muoverò più».
Lei non riuscì a fargli raccontare la sua gita, per quanto desiderio ne avesse.
Per la prima volta in vita sua lui si ubriacò completamente, quella sera, e dovettero trasportarlo a casa.
Racconti
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