UN MILIONE1
Era una modesta famiglia d’impiegati. Il marito,
commesso al ministero, corretto e meticoloso, compiva strettamente
il proprio dovere. Si chiamava Léopold Bonnin. Era un giovane
meschino, che pensava di ogni cosa quello che se ne doveva pensare.
Educato religiosamente, diventava via via meno credente da quando
la repubblica tendeva alla separazione fra Stato e Chiesa. Nei
corridoi del suo ministero dichiarava ad alta voce:
«Io sono religioso, direi, molto religioso,
ma religioso per quel che riguarda Dio; non sono clericale».
Pretendeva, sopra ogni altra cosa, di essere
un uomo onesto, e lo proclamava battendosi il petto. Onesto
effettivamente lo era, nel senso più pedestre della parola.
Arrivava all’ora esatta, all’ora esatta se ne andava, non poltriva
mai e si mostrava sempre molto retto nelle “questioni di denaro”.
Aveva sposato la figlia di un collega povero, il quale però aveva
una sorella che, in seguito a un matrimonio d’amore, possedeva un
milione. Tale sorella, con grande dispiacere, non aveva avuto
figli, e perciò poteva lasciare la propria fortuna solo a sua
nipote.
Questa eredità era il pensiero fisso della
famiglia, un pensiero che incombeva sulla casa, e su tutto quanto
il ministero, dove tutti sapevano che “i Bonnin avrebbero posseduto
un milione”.
Neppure i giovani sposi avevano figli, ma non
ci tenevano affatto, soddisfatti della placida e meschina onestà in
cui vivevano. La loro casa era dignitosa, ordinata e sonnolenta,
perché essi erano calmi e moderati in tutto, e convinti che un
bambino avrebbe turbato la loro esistenza, la loro vita domestica e
la loro tranquillità.
Non avrebbero fatto alcuno sforzo per
rimanere senza prole, ma visto che il cielo non gliene aveva
concesso, tanto meglio.
La zia del milione era desolata della loro
sterilità e dava consigli per farla cessare. Lei stessa aveva messo
in opera un tempo, senza successo, mille sistemi che amiche o
chiromanti le avevano rivelato; da quando poi non era più in età da
procreare, mille altri mezzi le erano stati indicati; mezzi che lei
supponeva infallibili, rammaricandosi di non poterli sperimentare
in proprio e che si accaniva a rivelare ai nipoti ripetendo loro a
ogni istante:
«Ebbene, avete provato quello che vi ho
raccomandato l’altro giorno?».
La zia morì. Fu, nel cuore dei due giovani,
una di quelle gioie segrete che si velano a lutto di fronte a sé e
di fronte agli altri. La coscienza si mette in gramaglie, ma
l’animo freme di contentezza.
Furono avvisati che un testamento era stato
depositato presso un notaio. Ci corsero appena usciti di
chiesa.
La zia, fedele all’idea fissa di tutta la sua
vita, lasciava il milione al loro primogenito e l’usufrutto ai
genitori, vita natural durante. Se i due giovani non avessero avuto
eredi entro tre anni, la fortuna sarebbe andata ai poveri.
I due rimasero sbalorditi, affranti. Il
marito si ammalò e restò assente dall’ufficio per otto giorni. Poi,
quando si fu rimesso, si ripromise energicamente di diventare
padre.
Per sei mesi vi si accanì fino a diventare
l’ombra di se stesso. Adesso ricordava tutti i sistemi della zia e
li metteva in atto coscienziosamente, ma senza risultato. La sua
disperata volontà gli conferiva una forza fittizia che per poco non
gli fu fatale.
Minato dall’anemia, corse il rischio di
diventare tisico. Fu consultato un medico che lo spaventò e lo
costrinse a ritornare alla sua tranquilla esistenza, anche più
tranquilla di un tempo, con un regime corroborante.
Voci divertite correvano al ministero, dove
era nota la delusione del testamento e dove si scherzava in tutte
le sezioni sul famoso “colpo del milione”. Alcuni davano a Bonnin
consigli scherzosi, altri si offrivano sfacciatamente di soddisfare
la clausola disperante. Soprattutto un giovanottone, che passava
per un terribile dongiovanni e la cui fortuna con le donne era
famosa negli uffici, lo bersagliava di allusioni, di frasette
licenziose, sicuro, diceva, di farlo ereditare in venti
minuti.
Léopold Bonnin un giorno si offese e,
alzandosi bruscamente con la penna dietro l’orecchio, gli lanciò
questa ingiuria:
«Signore, siete un mascalzone: se non
portassi rispetto per me stesso, vi sputerei in faccia».
Furono scambiati i padrini, cosa che mise in
subbuglio il ministero per tre giorni. Non si faceva che
incontrarli nei corridoi, intenti a comunicarsi verbali e pareri
sulla faccenda. Infine una risoluzione venne approvata
all’unanimità dai quattro delegati e accettata dai due interessati,
i quali si scambiarono gravemente un saluto e una stretta di mano
davanti al capufficio balbettando alcune parole di scusa.
Per tutto il mese seguente si salutarono con
ostentata cerimoniosità e squisita prontezza, come due avversari
che si trovino faccia a faccia. Un giorno che si erano urtati alla
svolta di un corridoio, il signor Bonnin chiese con sostenuta
premura: «Vi ho fatto male, signore?». E l’altro rispose: «Niente
affatto, signore».
Da quell’istante credettero conveniente
scambiare alcune parole quando si incontravano. Poi, a poco a poco,
fraternizzarono, fecero l’abitudine l’uno all’altro, si compresero,
si stimarono, riconoscendo di essersi sbagliati l’uno sul conto
dell’altro, e divennero inseparabili.
Ma Léopold era infelice in famiglia. Sua
moglie lo punzecchiava con allusioni sgarbate, lo tormentava con
sottintesi. E il tempo passava: un anno era già trascorso dalla
morte della zia. L’eredità sembrava perduta.
Mettendosi a tavola, la signora Bonnin
diceva:
«Non c’è molto da mangiare. Sarebbe diverso
se fossimo ricchi».
Quando Léopold usciva per andare in ufficio,
la signora Bonnin gli porgeva il bastone e diceva:
«Se avessimo cinquantamila lire di rendita,
non avresti bisogno di andare a scarpinare laggiù, signor
scribacchino».
Quando la signora Bonnin stava per uscire in
una giornata di pioggia, mormorava:
«Se avessimo una carrozza, non saremmo
costretti a infangarci, con questo tempaccio».
Insomma, in ogni momento, in ogni occasione
sembrava rimproverare al marito qualcosa di vergognoso,
considerando lui solo colpevole, responsabile della perdita di
quella fortuna.
Esasperato, lui finì per condurla da un
medico illustre il quale, dopo una visita minuziosa, non si
pronunciò affatto, dichiarando di non trovare niente di anormale:
il caso era abbastanza frequente, succede al corpo quel che succede
allo spirito, dopo aver visto fallire tanti matrimoni per
incompatibilità di carattere, non c’era da stupirsi nel vederne
altri sterili per incompatibilità fisica. Tutto questo costò
quaranta franchi.
Trascorse un anno, e fra i due sposi la
guerra era ormai dichiarata, una guerra senza tregua, accanita, una
specie di terribile odio. E la signora Bonnin non la finiva di
ripetere: «Si può essere più disgraziati? Perdere una fortuna per
aver sposato un imbecille!». Oppure: «E dire che se mi fosse
capitato un altro uomo, oggi avrei cinquantamila lire di rendita!».
Oppure: «C’è della gente che è soltanto di peso nella vita. Guasta
sempre tutto».
I pranzi, le serate soprattutto, erano
diventate intollerabili. Non sapendo più cosa fare, Léopold una
sera che temeva in famiglia una scenata orrenda, condusse con sé
l’amico Frédéric Morel, quello con cui per poco non si era battuto
in duello. E ben presto Morel divenne l’amico di casa, il
consigliere ascoltato dai due sposi.
Mancavano ormai soltanto sei mesi alla
scadenza del periodo concesso ai poveretti per ottenere il milione
e poco alla volta l’atteggiamento di Léopold nei riguardi della
moglie subiva un mutamento: era lui, ora, a essere aggressivo;
spesso la pungeva con oscure insinuazioni, parlava in modo
misterioso di mogli di impiegati che avevano saputo dare una
posizione ai propri mariti.
Di tanto in tanto raccontava qualche storia
di sorprendenti avanzamenti capitati a un commesso: il piccolo
Ravinot, che era avventizio cinque anni prima, era stato nominato
sottocapo. La signora Bonnin dichiarava:
«Certo che tu non sapresti fare
altrettanto».
Allora Léopold si stringeva nelle
spalle:
«Non è che faccia più di un altro. Ha una
moglie intelligente, ecco tutto, che ha saputo piacere al capo
divisione, e ottiene tutto ciò che vuole. Bisogna arrangiarsi nella
vita, se non si vuole restar vittime delle circostanze».
Che cosa voleva dire, esattamente? Che cosa
capì la moglie? Che cosa accadde? Ciascuno dei due aveva un
calendario in cui segnava i giorni che lo separavano dal termine
fatale; e ogni settimana si sentivano preda di una tale follia, una
rabbia disperata, una esasperazione così violenta e senza uscita
che sarebbero stati capaci di un delitto, se fosse stato
necessario.
Ma ecco che una mattina la signora Bonnin,
con gli occhi lucidi e la faccia radiosa, passò le mani sulle
spalle del marito e guardandolo fino in fondo all’anima con uno
sguardo fisso e gioioso sussurrò:
«Credo di essere incinta».
Egli sentì un tale balzo al cuore che per
poco non cadde all’indietro. Bruscamente afferrò la moglie tra le
braccia, la baciò perdutamente, se la fece sedere sulle ginocchia,
la strinse come una bambina adorata e, sopraffatto dall’emozione,
pianse e singhiozzò.
Due mesi dopo non aveva più dubbi.
L’accompagnò allora da un medico che constatasse il suo stato, e
portò il certificato al notaio presso il quale era depositato il
testamento.
Il legale dichiarò che, dal momento che il
bambino esisteva, nato o da nascere, non aveva niente da eccepire e
che avrebbe provveduto all’esecuzione del testamento alla fine
della gravidanza.
Nacque un bambino che, memori dell’antica
usanza delle famiglie reali, chiamarono Diodato.
E furono ricchi.
Una sera che il signor Bonnin ritornava a
casa, dove doveva venire a cena il suo amico Frédéric Morel, la
moglie gli disse in tutta semplicità:
«Ho pregato il nostro amico Frédéric di non
mettere più piede qui. Mi ha mancato di rispetto».
Lui la guardò un attimo con un sorriso
riconoscente negli occhi, poi aprì le braccia. Lei vi si gettò e i
due si baciarono a lungo, a lungo come due buoni sposini, teneri,
molto uniti, molto per bene.
E bisogna sentire la signora Bonnin, quando
parla delle donne che hanno sbagliato per amore, e di quelle che
per uno slancio del cuore sono state indotte all’adulterio!