UN FIGLIO1
A René Maizeroy2
 
 
Passeggiavano, i due vecchi amici, nel giardino tutto fiorito, che la gioconda primavera risvegliava a nuova vita.
Uno era senatore, e l’altro faceva parte dell’Accademia francese, tutti e due gravi, ricchi di ragionamenti molto logici e solenni, persone di rilievo e di fama.
Parlottarono dapprima di politica, scambiandosi pensieri, non sulle idee ma sugli uomini, poiché le personalità, in questo campo, superano sempre la Ragione. Poi rivangarono alcuni ricordi; poi tacquero, continuando a camminare a fianco a fianco, illanguiditi dal tepore dell’aria.
Un gran cespo di violacciocche esalava intorno un profumo dolce e delicato; una miriade di fiori di ogni specie e di ogni colore gettavano il loro profumo nella brezza, mentre un avornio, sovraccarico di grappoli gialli, spargeva al vento la sua fine polvere, come un fumo dorato che sapeva di miele, e che portava, come le ciprie carezzevoli dei profumieri, la sua semenza odorosa attraverso lo spazio.
Il senatore si fermò, annusò la nuvola fecondante che aleggiava, osservò l’albero innamorato splendente come un sole, i cui germogli si staccavano, e disse:
«Quando si pensa che questi impercettibili atomi, che hanno un profumo, vanno a creare altre esistenze a centinaia di leghe di qui, vanno a far trasalire le fibre e le linfe di alberi femmine e a produrre creature a radice, che nascono da un seme, come noi, mortali come noi, e che saranno sostituiti da altre creature della stessa essenza, sempre come noi!».
Poi, fermo davanti all’avornio radioso, il cui profumo vivificante si staccava a ogni fremito dell’aria, il senatore aggiunse:
«Ah, caro mio, se tu dovessi fare il calcolo dei tuoi figli, rimarresti maledettamente imbarazzato. Ecco qualcuno che, invece, li fa facilmente, li emette senza rimorso, e non se ne preoccupa affatto».
L’accademico rispose:
«Anche noi facciamo altrettanto, amico».
Il senatore riprese:
«Sì, non lo nego, qualche volta scappano anche a noi, ma almeno lo sappiamo, in questo consiste la nostra superiorità».
Ma l’altro scosse la testa:
«No, non è questo che voglio dire; vedete, mio caro, non c’è uomo che non possieda figli ignorati, quei figli detti di padre ignoto, ma che lui ha creato, come quest’albero riproduce, quasi senza coscienza.
Se dovessimo fare il calcolo delle donne che abbiamo avute, saremmo, vero? imbarazzati quanto questo avornio che, se interpellato, lo sarebbe assai, a fare il calcolo dei propri discendenti.
Dai diciotto ai quarant’anni, insomma, calcolando anche gli incontri passeggeri, i contatti di un’ora, si può pure ammettere di avere avuto rapporti intimi con due o trecento donne.
Ebbene, amico mio, in questo numero siete sicuro di non averne fecondata almeno una, e di non possedere sul lastrico o in un penitenziario, un mascalzone di figlio che ruba e assassina la gente onesta, vale a dire noi; oppure una figlia in qualche luogo di perdizione; o forse, se ha avuto la fortuna di essere stata abbandonata dalla madre, a far la cuoca in qualche famiglia?
Pensate inoltre che quasi tutte le donne che noi chiamiamo pubbliche, possiedono uno o due figli dei quali ignorano il padre, figli acquisiti a caso nei loro amplessi da dieci o venti franchi. In ogni mestiere ci sono i profitti e le perdite. Quei rampolli costituiscono le “perdite” della loro professione. Chi sono i generatori? Voi, io, noi tutti, gli uomini cosiddetti per bene! Sono i risultati delle nostre allegre cene tra amici, delle nostre serate di buon umore, di quelle ore nelle quali la nostra carne soddisfatta ci spinge agli accoppiamenti casuali.
I ladri, i vagabondi, tutti i miserabili, insomma, sono tigli nostri. E questo è ancora un vantaggio per noi: potremmo essere noi loro figli, giacché anche loro si riproducono, quei furfanti!
Ecco, vi dirò, per conto mio ho sulla coscienza una bruttissima storia, che vi racconterò. Per me è un costante rimorso, anzi, è un dubbio continuo, una inappagabile incertezza che talvolta mi tortura orribilmente.
A venticinque anni avevo iniziato con un mio amico, oggi consigliere di Stato, un viaggio in Bretagna a piedi.
Dopo quindici o venti giorni di marcia forzata, dopo aver visitato le Côtes-du-Nord e una parte del Finistère, arrivammo a Douarnenez; di là, in una sola tappa, raggiungemmo la selvaggia punta del Raz, attraverso la baia dei Trépassés, e dormimmo in un villaggio qualsiasi, il nome del quale finiva in o; ma, al mattino, una strana stanchezza trattenne a letto il mio amico. Dico letto per abitudine, poiché il nostro giaciglio era costituito semplicemente da due bracciate di paglia.
Impossibile ammalarsi in un luogo simile. Lo costrinsi dunque ad alzarsi, e arrivammo a Audierne verso le quattro o le cinque di sera.
Il giorno dopo, stava un poco meglio; si riprese ad andare; ma per via egli fu colto da intollerabile malessere, e, a gran fatica, potemmo raggiungere Pont-Labbé. Lì, almeno, avevamo un alloggio. Il mio amico si mise a letto, e il medico che facemmo venire da Quimper accertò una forte febbre senza poterne stabilire la natura.
Conoscete Pont-Labbé? No? Ebbene, è la città più bretone di tutta quella Bretagna bretoneggiante che va dalla punta del Raz al Morbihan, di quel paese che contiene l’essenza dei costumi, delle leggende e degli usi bretoni. Ancor oggi quel pezzo di regione non è cambiato. Dico: ancor oggi, poiché ora vi ritorno tutti gli anni, purtroppo!
Un vecchio castello bagna la base delle sue torri in un grande stagno triste, triste, popolato dai voli degli uccelli selvatici. Dallo stagno esce un corso d’acqua che i canottieri possono risalire sino alla città. E nelle vie strette tra le case antiche, gli uomini portano il cappello grande, il panciotto ricamato e le quattro giacche sovrapposte: la prima grande come una mano, ricopre al massimo le scapole e l’ultima termina proprio al disopra del fondo dei pantaloni.
Le ragazze, alte, belle e fresche, hanno il petto schiacciato in un corsetto di panno che forma corazza, le stringe, senza lasciare nemmeno intravedere il loro seno possente e martirizzato; e sono acconciate in modo strano: sulle tempie, due placche ricamate a colori inquadrano il viso, e trattengono i capelli, che ricadono in treccia dietro la testa, poi risalgono ad ammucchiarsi in cima al cranio sotto una strana cuffia, spesso intessuta d’oro o d’argento.
La fantesca della nostra locanda aveva al massimo diciott’anni, gli occhi azzurri di un azzurro pallido attraversato dai due puntini neri della pupilla; i suoi denti corti, serrati, che mostrava continuamente quando rideva, parevano fatti per masticare granito.
Non sapeva una parola di francese, parlava solo bretone, come la maggior parte delle sue compaesane.
Il mio amico non stava affatto meglio, e, sebbene non si riuscisse a capire che malattia potesse avere, il medico gli aveva proibito di muoversi e gli aveva ordinato un riposo completo. Io passavo quindi le giornate vicino a lui, e la giovane fantesca entrava continuamente, portando la mia cena oppure i decotti.
Scherzavo un poco con lei, cosa che pareva divertirla, ma non si parlava, naturalmente, poiché non ci capivamo.
Una notte che ero rimasto sino a tarda ora accanto al malato, mentre mi dirigevo alla mia camera incontrai la ragazza che entrava nella sua. Eravamo proprio davanti alla mia porta aperta; allora, bruscamente, senza riflettere a quello che facevo, più per scherzo che altro, l’afferrai per la vita, e, prima che si fosse riavuta dallo stupore, l’avevo spinta e rinchiusa nella mia camera. Mi guardava, spaventata, sconvolta, smarrita, senza osar di gridare per timore di uno scandalo, di essere scacciata indubbiamente dai padroni, e forse, dopo, dal padre.
L’avevo fatto scherzando; ma, appena lei si trovò nella mia camera, m’invase il desiderio di possederla. Fu una lotta lunga e silenziosa, una lotta a corpo a corpo, alla maniera degli atleti, con le braccia tese, irrigidite, contorte, il respiro affannoso, la pelle madida di sudore. Oh! si dibatté coraggiosamente; di tanto in tanto urtavamo un mobile, una porta, una sedia; allora, sempre avvinghiati, rimanevano immobili per vari secondi, temendo che il rumore avesse destato qualcuno; poi riprendevamo la nostra accanita battaglia; io attaccavo, lei resisteva.
Finalmente, sfinita, cadde; e la presi brutalmente, per terra, sul pavimento di pietra.
Appena si poté rialzare, corse verso la porta, aprì il catenaccio e fuggì.
I giorni successivi non la incontrai quasi mai. Non si lasciava avvicinare. Poi, dato che il mio amico era guarito e dovevamo riprendere il nostro viaggio, la vidi entrare, la vigilia della mia partenza, a mezzanotte, a piedi nudi e in camicia, nella mia camera, dove m’ero appena ritirato.
Si gettò tra le mie braccia, mi strinse con passione, poi sino all’alba mi abbracciò, mi accarezzò piangendo e singhiozzando, dandomi insomma tutte le dimostrazioni di tenerezza e di disperazione che una donna può darci quando non conosce una parola della nostra lingua.
Otto giorni dopo avevo già dimenticato questa avventura, comune e frequente quando si viaggia, poiché le serve delle locande sono generalmente destinate a distrarre in tal modo i viaggiatori.
Rimasi trent’anni senza pensarci, e senza ritornare a Pont-Labbé.
Nel 1876, vi tornai per caso, durante un viaggio in Bretagna, intrapreso per documentare un libro e per fissarmi bene in mente il paesaggio.
Nulla mi parve cambiato. Il castello bagnava sempre le sue mura grigiastre nello stagno, all’ingresso della piccola città; la locanda era la stessa, sebbene riparata, rimessa a nuovo, con un aspetto più moderno. Entrando, fui accolto da due giovani donne bretoni di diciott’anni, fresche e gentili, corazzate nel loro stretti corsetti di panno, con copricapi d’argento dalle grandi placche ricamate sulle orecchie. Erano circa le sei di sera. Mi misi a tavola per cenare, e poiché il padrone premuroso mi serviva lui stesso, la fatalità certo mi fece dire: “Avete conosciuto i vecchi padroni di questa casa? Io ho passato qui dieci giorni, trent’anni or sono. Vi parlo di cose lontane”.
Quello rispose: “Erano i miei genitori, signore”.
Allora gli raccontai in quale occasione mi fossi fermato in quel luogo, e come vi fossi stato trattenuto dall’indisposizione di un compagno. Lui non mi lasciò finire.
“Oh, mi ricordo benissimo. Io avevo allora quindici o sedici anni. Voi dormivate nella camera in fondo e il vostro amico in quella che ora è la mia, sulla strada”.
Solo in quel momento mi ritornò molto vivo il ricordo della piccola fantesca. Chiesi:
“Vi ricordate di quella graziosa servetta che lavorava allora per vostro padre, e che possedeva, se la memoria non m’inganna, occhi belli e denti freschi?”.
Lui rispose:
“Sì, signore; morì di parto poco tempo dopo la vostra visita”.
E facendo cenno con la mano verso il cortile dove un uomo magro e zoppo smuoveva il letame, aggiunse:
“Quello è suo figlio”.
Mi misi a ridere.
“Non è bello, e non somiglia affatto alla madre. Ha preso certamente dal padre”.
L’albergatore riprese:
“È possibile; ma non si è mai saputo di chi fosse figlio. Lei è morta senza dirlo, e nessuno qui sapeva che qualche uomo le stesse intorno. Fu uno stupore generale, quando si seppe che era incinta. Nessuno voleva crederlo”.
Ebbi una specie di brivido sgradevole, una di quelle penose sensazioni che toccano il cuore, come l’avvicinarsi di un grave dolore. Guardai l’uomo nel cortile. Ora aveva attinto dell’acqua per i cavalli, e portava i due secchi, zoppicando, con uno sforzo doloroso della gamba più corta. Era vestito a brandelli, terribilmente sudicio, con lunghi capelli giallastri tanto sporchi che gli scendevano come corde sulle guance.
L’albergatore aggiunse:
“Non vale molto, lo hanno tenuto in casa per carità. Forse sarebbe riuscito meglio se fosse stato allevato come tutti. Ma che volete, signore? Senza padre, senza madre, senza un soldo! I miei genitori hanno avuto pietà del bambino, ma non era figlio loro, capite”.
Non dissi nulla.
Dormii nella mia camera di un tempo; tutta la notte pensai a quell’orribile mozzo di stalla, ripetendo tra me: “Se fosse mio figlio? Come ho potuto uccidere quella ragazza e procreare quell’essere?” Eppure, era possibile.
Decisi di parlare a quell’uomo, e di conoscere esattamente la data della sua nascita. Una differenza di due mesi mi avrebbe tolto ogni dubbio.
Il giorno dopo lo feci venire. Ma neppure lui parlava francese. Aveva l’aria di non capire nulla, del resto, e ignorava in modo assoluto la sua età, che una delle serve gli chiese facendo da interprete. Lui se ne stava davanti a me con aria idiota, rigirando il cappello tra le dita nodose e repellenti, ridendo di un sorriso sciocco, che aveva qualcosa del sorriso della madre, agli angoli delle labbra e degli occhi.
Ma il padrone, sopraggiunto, andò a prendere l’atto di nascita del disgraziato.
Era venuto al mondo otto mesi e ventisei giorni dopo il mio passaggio da Pont-Labbé; infatti ricordavo perfettamente di essere arrivato a Lorient il 15 agosto. L’atto portava la menzione: Padre ignoto. La madre si chiamava Jeanne Kerradec.
Allora il cuore prese a battermi precipitosamente. Non potevo più parlare, mi sentivo soffocare; e guardai quel bruto, la grande capigliatura gialla del quale pareva letame, più sordido di quello delle bestie; e lo sciagurato, messo in imbarazzo dal mio sguardo, cessò di ridere, girò la testa e cercò di andarsene.
Tutto quel giorno vagabondai lungo il fiumicello, immerso in pensieri dolorosi. Ma a che mai poteva servire riflettere? Nulla poteva tranquillizzarmi. Per ore e ore considerai ogni ragione buona o cattiva pro o contro l’ipotesi della mia paternità, snervandomi in supposizioni irriducibili, per tornare immancabilmente alla stessa orrenda incertezza, e poi alla convinzione, cosa ancora più atroce, che quell’uomo fosse mio figlio.
Non potei mangiare e mi ritirai nella mia camera.
Me ne stetti parecchio tempo senza riuscire a dormire, poi il sonno arrivò, ma fu un sonno brulicante di insopportabili visioni. Vedevo quel mostro ridermi in faccia e chiamarmi “babbo”; poi si mutava in cane e mi mordeva i polpacci, ed era proprio inutile che cercassi scampo nella fuga, mi seguiva sempre e, invece d’abbaiare, parlava, m’ingiuriava; poi compariva davanti ai miei colleghi dell’Accademia riunitisi per decidere se io fossi proprio suo padre, e uno di quelli esclamava: “Non ci son dubbi! Guardate come gli rassomiglia”. Ed effettivamente, mi accorgevo di quanto quel mostro mi rassomigliasse. Mi svegliai con quell’idea ben fissata in testa e con il folle desiderio di rivedere quell’uomo per decidere se avessimo o no tratti in comune.
Lo raggiunsi mentre stava andando a messa (era domenica) e gli regalai cento soldi scrutandolo ansiosamente. Si rimise a ridere in modo ignobile, prese il denaro, poi, nuovamente imbarazzato dalle mie occhiate, si eclissò dopo aver farfugliato una parola presso a poco inarticolata che voleva senza dubbio significare un “grazie”.
Quel giorno trascorse per me nella medesima angoscia del giorno precedente. Verso sera chiamai il locandiere, e con molte precauzioni, astuzie e sottigliezze, gli comunicai il mio interessamento per quell’essere abbandonato da tutti e privo di tutto. Gli dissi che volevo fare qualcosa per il poveraccio.
Ma l’uomo replicò:
“Oh! non pensateci neppure, signore, non vale nulla, non ne avrete che dispiaceri. Io gli faccio vuotar la stalla ed è tutto quanto può fare. Per questo gli do da mangiare e dorme con i cavalli. Non gli occorre altro. Se avete un vecchio paio di pantaloni, dateglielo, ma lo ridurrà in pezzi in una settimana”.
Non insistetti, riservandomi di riflettere.
Lo sciagurato rientrò quella sera completamente ubriaco, per poco non dette fuoco all’edificio, massacrò un cavallo a colpi di zappa e, alla fine, si addormentò per strada sotto la pioggia, e tutto a causa delle mie elargizioni.
Venni pregato il giorno dopo di non dargli più denaro. L’acquavite lo rendeva furioso e, appena aveva due soldi in tasca, lui se li beveva.
Il locandiere mi disse anche:
“Regalargli del denaro significa volere la sua morte”.
Quell’uomo non ne aveva mai posseduto, mai assolutamente, se si faceva eccezione per qualche centesimo che gli gettavano i viaggiatori come mancia. Lui non conosceva altro posto ove spendere i soldi al di fuori della taverna.
Allora trascorsi ore intere nella mia camera, con un libro aperto davanti, fingendo di leggere e incapace di far altro che guardare quel bruto, mio figlio! mio figlio!, cercando di scoprire se davvero avesse qualcosa di mio. A forza di scrutarlo, credetti di riconoscere linee simili tra la fronte e l’inizio del naso, e presto mi convinsi che esisteva una vera rassomiglianza dissimulata dal diverso modo di vestire e da quella sua odiosa criniera.
Ma non potevo rimaner là più a lungo senza destare sospetti, e partii, il cuore straziato, dopo aver lasciato al locandiere un poco di denaro per migliorare l’esistenza di quel suo servitore.
Da sei anni vivo con questo pensiero, questa orribile incertezza, questo dubbio vergognoso. E ogni anno una forza invincibile mi riconduce a Pont-Labbé. Ogni anno io mi condanno al supplizio di vedere quel bruto rivoltolarsi nel suo letamaio, d’immaginarmi la sua rassomiglianza, di cercare, sempre vanamente, di acquistare la sicurezza. Ogni anno ritorno qui più indeciso, più tormentato, più ansioso.
Ho provato a farlo istruire, ma è disperatamente idiota.
Ho provato a rendergli la vita meno penosa. È irrimediabilmente ubriaco e impiega ogni somma che gli dono nell’acquisto di vino, ed è sempre pronto a vendere gli abiti nuovi per procurarsi acquavite.
Ho provato a impietosire alla sua sorte il suo padrone perché lo curasse.
Il locandiere, stupito alla fine, mi ha detto molto saggiamente:
“Tutto quello che farete per lui, signore, servirà solo a perderlo. Bisogna tenerlo come un prigioniero. Appena ha tempo libero o è trattato bene, diviene pericoloso. Se volete fare della beneficenza, non mancano le occasioni, via, c’è l’infanzia abbandonata, ma sceglietevi un trovatello che risponda alle vostre premure”.
Cosa potevo ribattere?
E se io lasciassi trasparire un sospetto dei dubbi che mi torturano, quel cretino certamente diverrebbe maligno per sfruttarmi, compromettermi, perdermi, mi griderebbe “babbo”, come nel mio sogno.
Dico a me stesso che ho ucciso la madre e rovinato quella creatura atrofizzata, larva di scuderia, sviluppatasi e cresciuta nel letamaio, quell’uomo che, allevato come gli altri, avrebbe potuto essere uguale agli altri. Non immaginate la sensazione strana, confusa e intollerabile che provo davanti a lui, pensando che quello è uscito da me, che è legato a me con quel legame intimo che lega il figlio al padre, e che, per le terribili leggi dell’eredità, è me stesso in mille cose, nel sangue e nella carne, che in lui sono gli stessi germi di malattie, gli stessi fermenti di passioni.
Ho un implacabile, continuo bisogno di vederlo; la sua vista mi fa soffrire orribilmente; e dalla mia finestra laggiù, lo guardo per ore muovere e trasportare le immondizie delle bestie, ripetendo tra me: È mio figlio.
Provo talvolta un insopportabile desiderio di abbracciarlo. Ma non ho mai neppure toccato la sua mano sordida.
 
L’accademico tacque. E il suo amico, l’uomo politico, mormorò:
«Sì, veramente, dovremmo occuparci un poco di più dei figli che non hanno padre».
 
E un soffio di vento, attraversando il grande albero giallo scosse i suoi grappoli, e avviluppò in una nube sottile e odorosa i due vecchi, che la fiutarono a pieni polmoni.
E il senatore aggiunse:
«Eppure è bello avere venticinque anni, e anche creare dei figli così».
Racconti
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