L’AVVENTURA DI WALTER SCHNAFFS
A Robert
Pinchon1
Dalla sua entrata in Francia con le truppe
d’occupazione, Walter Schnaffs si reputava il più infelice dei
mortali. Era grande e grosso, gli costava fatica marciare, sbuffava
molto e soffriva orrendamente ai piedi molto piatti e gonfi.
Inoltre era un uomo pacifico e benpensante, per nulla magnanimo o
sanguinario, padre di quattro figli che adorava, e sposato con una
giovane donna bionda, della quale ogni sera rimpiangeva
disperatamente le tenerezze, le piccole premure e i baci. A lui
piaceva alzarsi tardi e andare a letto presto, mangiare lentamente
qualcosa di buono e bere boccali nelle birrerie. Pensava inoltre
che tutto quanto è dolce nell’esistenza sarebbe scomparso con la
vita stessa, e provava un odio spaventoso, istintivo e ragionato
allo stesso tempo, contro i cannoni, i fucili, le pistole e le
sciabole, ma soprattutto contro le baionette, essendo pienamente
convinto della propria incapacità a manovrare tale arma rapida
abbastanza in fretta per difendere il suo grosso ventre.
E, quando si coricava sulla terra, essendo
sopraggiunta la notte, arrotolato nel suo mantello, a fianco dei
compagni d’arme che già ronfavano, pensava a lungo ai suoi,
abbandonati laggiù, e ai pericoli seminati sul suo cammino. Se
fosse rimasto ucciso, che ne sarebbe stato dei piccoli? Chi li
avrebbe nutriti e allevati? Adesso già non nuotavano proprio
nell’oro nonostante tutti i debiti che lui aveva contratto prima di
partire pur di lasciar loro qualcosa. A volte a Walter Schnaffs
veniva da piangere.
All’inizio delle battaglie si sentiva nelle
gambe una debolezza tale che si sarebbe lasciato cadere a terra se
non l’avesse sorretto l’idea che tutto l’esercito sarebbe passato
sul suo corpo. Il sibilare dei proiettili gli faceva rizzare tutti
i peli sulla pelle.
Da mesi e mesi viveva quindi nel terrore e
nell’angoscia.
Il suo corpo d’armata avanzava verso la
Normandia; un giorno egli fu inviato in ricognizione con un debole
distaccamento che doveva soltanto esplorare una parte del paese e
successivamente ritirarsi. Tutto sembrava calmo nelle campagne:
nessun indizio faceva presagire che fosse stata preparata una
qualche resistenza.
Ora i prussiani stavano tranquillamente
scendendo in una valletta tutta tagliata da profondi fossi, quando
un violento fuoco di fucileria li arrestò bruscamente, stroncandone
una ventina; e una banda di irregolari, sbucando improvvisamente
fuori dal boschetto, che pareva non più vasto d’una mano, si lanciò
all’assalto, baionetta in canna.
Walter Schnaffs rimase dapprima immobile,
tanto sorpreso e smarrito che non pensava nemmeno alla fuga. Poi
una pazza voglia di sgombrare il campo lo assalì; ma gli venne
subito in mente che lui correva come una tartaruga in confronto ai
magri francesi, che arrivavano saltando come un branco di capre.
Allora, notando poco più avanti un largo fossato pieno di rovi e di
foglie secche, vi si buttò dentro a piedi pari, senza starne
neppure a calcolare la profondità, come da un ponte ci si butta giù
in un fiume. Passò, come una freccia, attraverso uno spesso strato
di liane e di spine puntute che gli lacerarono faccia e mani, e
cadde pesantemente a sedere su uno strato di pietre.
Alzando subito gli occhi, intravide il cielo
attraverso il buco che aveva prodotto nella vegetazione.
Quell’apertura rivelatrice poteva denunciare la sua presenza, e lui
si trascinò a quattro zampe, in fondo a quel solco, sotto quel
tetto di rami intrecciati, con la maggiore rapidità possibile,
sempre più lontano dal luogo del combattimento. Poi si fermò e si
sedette nuovamente, rannicchiato come una lepre in mezzo alle alte
erbe secche.
Udì per qualche tempo ancora detonazioni,
grida e lamenti. Poi i clamori della lotta si affievolirono,
cessarono. Tutto ridivenne silenzioso e tranquillo. Improvvisamente
qualcosa gli si mosse vicino, addosso. Egli ebbe un sussulto di
terrore. Ma si trattava soltanto di un uccellino che, essendosi
posato su un ramo, faceva muovere qualche foglia morta. Per circa
un’ora il cuore di Walter Schnaffs continuò a battere a gran colpi
angosciosi.
Arrivava la notte riempiendo d’ombra il
fossato. E il soldato si mise a pensare. Che avrebbe fatto? Cosa
gli sarebbe capitato? Raggiungere l’esercito prussiano?... Ma in
che modo? Ma passando da dove? Per poi dover ricominciare
l’orribile vita d’angoscia, fatica e sofferenza che conduceva
dall’inizio della guerra! No! Non se ne sentiva più il coraggio!
Non avrebbe più avuto l’energia necessaria per sopportare le marce
e affrontare quei continui pericoli.
Ma che fare? Non poteva rimanersene in quel
solco e nascondervisi sino alla fine delle ostilità. No di sicuro.
Se non avesse dovuto mangiare, una simile prospettiva non l’avrebbe
atterrito molto; ma occorreva mangiare, e mangiare tutti i
giorni.
E lui si trovava solo, in armi, in divisa, in
territorio nemico, lontano da coloro che avrebbero potuto
difenderlo. La sua pelle fu corsa da brividi.
A un tratto pensò: «Se soltanto fossi
prigioniero!».
E il suo cuore fremette di desiderio, di un
desiderio violento, smodato, di essere prigioniero dei francesi.
Prigioniero! Sarebbe stato salvato, nutrito, alloggiato al riparo
dei proiettili e delle sciabole, fuori da ogni preoccupazione, in
una buona prigione ben sorvegliata. Prigioniero! Che sogno!
Prese immediatamente la sua decisione:
«Vado a darmi prigioniero».
Si alzò, risoluto a eseguire tale progetto
senza il minimo ritardo. Ma rimase immobile, afferrato da
riflessioni dolorose e da nuovi terrori.
Dove si sarebbe costituito prigioniero? Come?
Da quale parte? E immagini orrende, immagini di morte
s’impadronirono del suo animo.
Avrebbe corso tremendi pericoli,
avventurandosi solo con il suo elmo chiodato nella campagna.
Se avesse incontrato qualche contadino? Quei
contadini, vedendo un prussiano sperduto, un prussiano indifeso, lo
avrebbero ammazzato come un cane randagio! Lo avrebbero massacrato
con i loro forconi, i picconi, le falci, le vanghe! Avrebbero fatto
di lui una poltiglia, un pasticcio con il loro accanimento di vinti
esasperati.
E se si fosse imbattuto in irregolari? Quegli
irregolari, ribelli senza legge né disciplina, lo avrebbero
fucilato per semplice divertimento, per trascorrere un’ora, per
ridere un poco a sue spese. E si credeva già con le spalle al muro
davanti a dodici canne di fucile, che con i loro piccoli fori tondi
e neri parevano guardarlo.
Se si fosse imbattuto nello stesso esercito
francese? Gli uomini d’avanguardia lo avrebbero scambiato per un
esploratore, per qualche audace e malintenzionato soldato partito
da solo in ricognizione, e gli avrebbero sparato. Sentiva già gli
spari irregolari dei soldati accovacciati tra i rovi, mentre lui,
in piedi nel mezzo d’un campo si accasciava, bucato come una
schiumarola dalle pallottole che gli penetravano nella carne.
Si rimise a sedere, disperato. La sua
situazione gli sembrava senza uscita. La notte era ormai arrivata,
la notte silenziosa e buia. Lui non si muoveva più, ma trasaliva a
ogni rumore misterioso e leggero che si produceva nelle tenebre. Un
coniglio, toccando col posteriore l’estremità di una tana, per poco
non metteva in fuga Walter Schnaffs. Le strida delle civette gli
straziavano l’anima, pervadendolo di paure improvvise, dolorose
come ferite. Spalancava i grossi occhioni per cercare di vedere
nell’ombra; e a ogni momento s’immaginava di udir passi lì vicino a
lui.
Dopo ore interminabili, dopo sofferenze da
dannato, vide attraverso il suo soffitto di rami il cielo
schiarirsi. Allora provò un immenso sollievo, le sue membra si
distesero, immediatamente placate; il suo cuore si calmò; i suoi
occhi si chiusero. Si addormentò.
Al suo risveglio, il sole gli parve arrivato
presso a poco in mezzo al cielo; doveva essere mezzogiorno. Nessun
rumore turbava la pace triste dei campi; Walter Schnaffs si accorse
di essere terribilmente affamato.
Ansava, con l’acquolina in bocca al pensiero
delle salsicce, delle buone salsicce che costituivano il rancio; lo
stomaco gli faceva male. Si alzò, fece qualche passo, si sentì le
gambe deboli, e si risedette a riflettere. Per due o tre ore
ancora, stette a vagliare il pro e il contro, cambiando ogni
momento decisione, combattuto, reso infelice, disputato dalle
ragioni più contrastanti.
Un’idea gli sembrò infine logica e pratica;
aspettare il passaggio di un contadino solo, senz’armi e senza
neppure arnesi di lavoro, corrergli incontro e consegnarglisi,
facendo ben comprendere che quella era una resa a
discrezione.
Allora si tolse l’elmo, il chiodo del quale
avrebbe potuto tradirlo, e con precauzioni infinite mise fuori la
testa dall’orlo del suo buco.
Nessun individuo isolato era visibile
all’orizzonte. Laggiù, un piccolo villaggio levava al cielo il fumo
dei suoi camini, il fumo delle sue cucine! Laggiù a sinistra
s’intravedeva, in fondo agli alberi d’un viale, un grande castello
fiancheggiato da piccole torri.
Walter Schnaffs attese sino a sera, soffrendo
orrendamente, non vedendo altro che voli di corvi, udendo solo i
gemiti sordi delle sue interiora.
E di nuovo scese su di lui la notte.
Si stese in fondo al suo rifugio e si
addormentò d’un sonno febbrile, visitato dagli incubi, un sonno
d’uomo affamato.
Di nuovo l’aurora si alzò sul suo capo. Lui
si rimise in osservazione. Ma la campagna restava deserta come il
giorno prima; e una nuova paura penetrava nella mente di Walter
Schnaffs, la paura di morire di fame! Si vedeva steso sul fondo
della sua tana, con la faccia al cielo e gli occhi chiusi. Poi
qualche bestia, piccole bestie di ogni specie, si accostavano al
suo cadavere e cominciavano a mangiarlo, attaccandolo da ogni
punto, infilandosi sotto le vesti per mordere la carne gelata. E un
grosso corvo gli pungeva gli occhi con il becco affilato.
Allora gli parve d’impazzire, immaginando di
star per svenire a causa della debolezza, di non potersi più
muovere. E già si preparava a correre verso il villaggio, deciso a
tutto osare, a sfidare tutti, quando vide tre contadini, che si
recavano nei campi con i loro forconi in spalla, e risprofondò
nella sua buca.
Ma quando la sera abbrunò la pianura, egli
uscì lentamente dal fossato e si mise in cammino, curvo, impaurito,
con il cuore che gli batteva forte, in direzione del lontano
castello, preferendo entrare là dentro invece che nel villaggio,
che gli sembrava temibile come una tana di tigri.
Le finestre del pianterreno erano illuminate.
Una finestra era addirittura socchiusa; e un forte odore di carne
cotta ne sfuggiva, un odore che penetrò bruscamente nel naso e sino
in fondo al ventre di Walter Schnaffs, un odore che lo fece
fremere, lo fece ansare, attirandolo irresistibilmente, mettendogli
addosso un’audacia esasperata.
E, bruscamente, senza riflettere, egli fece
la sua apparizione, con tanto d’elmo, nel vano della
finestra.
Otto domestici cenavano intorno a una grande
tavola. Ma di colpo una cameriera rimase intontita e lasciò cadere
il suo bicchiere, gli occhi spalancati. Tutti gli sguardi seguirono
il suo!
Videro il nemico!
Dio! I prussiani attaccavano il
castello!...
Dapprima fu un grido, un solo grido, fatto di
otto gridi emessi in otto diversi toni di voce, un grido di orrendo
spavento, poi ci fu un alzarsi tumultuoso, uno spingersi, un
urtarsi, una fuga disperata verso la porta di fondo. Caddero sedie,
gli uomini rovesciarono le donne e passarono sui loro corpi. In due
secondi la scena fu vuota, abbandonata, con quella tavola imbandita
di cibi, davanti a Walter Schnaffs stupefatto, sempre in piedi nel
riquadro della finestra.
Dopo qualche istante d’esitazione egli
scavalcò il davanzale e avanzò verso quei piatti. La sua terribile
fame lo faceva tremare come se avesse la febbre: ma la paura lo
trattenne, ancora una volta lo paralizzò. Stette in ascolto. Tutta
la casa pareva tremare; venivano sbattute porte, rapidi passi
correvano sul soffitto. Il prussiano inquieto tendeva l’orecchio a
quei rumori confusi; poi udì tonfi sordi come se dei corpi
precipitassero nella terra molle, in fondo ai muri: corpi umani
saltavano giù dal primo piano.
Poi tutto quel movimento, tutta
quell’agitazione ebbero fine, e il grande castello diventò
silenzioso come una tomba.
Walter Schnaffs si sedette davanti a un
piatto rimasto intatto e prese a mangiare. Mangiava a grandi
bocconi come se temesse di venire interrotto troppo presto e di non
poter mandar giù abbastanza roba. Scagliava a manate i bocconi
nella bocca spalancata come una trappola; uno dopo l’altro, gli
scendevano nello stomaco grumi di cibo, gonfiandogli il gozzo nel
passare. A volte s’interrompeva, lì lì per scoppiare come tubo
troppo pieno. Allora afferrava la brocca del sidro e si liberava
l’esofago proprio come si lava una conduttura bloccata.
Vuotò tutti i vassoi, tutti i piatti, tutte
le bottiglie; poi, saturo di liquidi e di vivande, abbrutito,
rosso, scosso da singulti, la mente torbida e la bocca ingrommata,
si sbottonò l’uniforme per respirare, incapace di fare un solo
passo. Gli occhi gli si chiusero, le idee gli si offuscarono: posò
la testa pesante tra le braccia incrociate sulla tavola e perse
dolcemente la coscienza delle cose e dei fatti.
La falce della luna illuminava vagamente l’orizzonte
al di sopra degli alberi del parco. Era l’ora fredda che precede il
giorno.
Nella forra scivolavano ombre, numerose e
mute; e ogni tanto un raggio di luna faceva scintillare
nell’oscurità una lama d’acciaio.
Il castello, tranquillo, levava al cielo la
sua grande sagoma nera. Due sole finestre erano ancora illuminate
al pianterreno.
A un tratto una voce tonante urlò:
«Avanti! maledizione! all’assalto, miei
prodi!»
Allora, in un attimo le porte, le imposte e i
vetri s’infransero all’urto di un fiume di uomini che irruppe,
frantumò, spezzò tutto, invase la casa. E in un istante cinquanta
soldati armati sino ai denti, fecero irruzione nella cucina ove
riposava pacificamente Walter Schnaffs e, puntandogli contro il
petto cinquanta fucili carichi, lo rovesciarono, lo fecero
rotolare, lo afferrarono, lo legarono dalla testa ai piedi.
Lui ansava di stupefazione, troppo abbrutito
per comprendere, pesto, malconcio2 e folle di paura.
E d’improvviso un grosso militare dai gradi
dorati gli piantò un piede sul ventre, vociando:
«Siete mio prigioniero, arrendetevi!».
Il prussiano udì quella sola parola
“prigioniero” e gemette:
«Ja, ja, ja».
Fu rimesso in piedi, legato a una sedia ed
esaminato con molta curiosità dai suoi vincitori che sbuffavano
come balene. Molti di loro si sedettero, non potendone più per
l’emozione e la fatica.
E lui sorrideva, sorrideva, adesso che era
sicuro di essere prigioniero, finalmente!
Un altro ufficiale entrò e disse:
«Colonnello, i nemici sono fuggiti; pare che
molti siano stati colpiti. Restiamo padroni del campo.
Il grosso militare che si asciugava la fronte
vociò:
«Vittoria!».
E scrisse su un piccolo taccuino estratto
dalla tasca:
«Dopo una lotta accanita i prussiani hanno
dovuto battere in ritirata, portando i loro morti e i loro feriti.
Si possono calcolare messi fuori combattimento cinquanta uomini.
Molti sono rimasti in nostra mano».
Il giovane ufficiale disse ancora:
«Quali disposizioni debbo prendere,
colonnello?».
Il colonnello rispose:
«Ripiegheremo per evitare un ritorno
offensivo del nemico con artiglierie e forze superiori».
E dette ordine di ripartire.
Si riformò la colonna nell’ombra sotto le
mura del castello, e si mise in marcia, circondando da ogni lato
Walter Schnaffs, che ben sei guerrieri tenevano sotto la minaccia
delle loro pistole.
Furono mandati soldati in ricognizione per
batter la strada. Avanzavano con prudenza, fermandosi di tanto in
tanto.
Al levar del sole giunsero alla
sottoprefettura di La Roche-Oysel,3 la cui guardia nazionale aveva compiuto quel
fatto d’arme.
La popolazione ansiosa e sovreccitata era in
attesa. Quando fu visto l’elmo del prigioniero, scoppiarono
formidabili clamori. Le donne alzarono le braccia; i vecchi
piangevano; un vegliardo scagliò il suo bastone contro il
prigioniero e colpì al naso uno dei suoi guardiani.
Il colonnello urlò:
«Salvaguardate l’integrità del
prigioniero!».
Finalmente si pervenne alle carceri. Fu
aperta la prigione e Walter Schnaffs, liberato da ogni legame, vi
fu buttato dentro.
Duecento uomini armati montarono la guardia
intorno all’edificio.
Allora, nonostante i sintomi d’indigestione
che da un poco lo tormentavano, il prussiano, pazzo di gioia, prese
a ballare, a ballare perdutamente, sollevando le braccia e le
gambe, a ballare emettendo grida frenetiche, sino al momento in cui
cadde, spossato, ai piedi di una parete della cella.
Era prigioniero! Era in salvo!
Così il castello di Champignet fu ripreso al nemico
dopo solo sei ore d’occupazione.
Il colonnello Ratier, mercante di tessuti,
che condusse l’azione alla testa della guardia nazionale di La
Roche-Oysel, venne decorato.