UN VEGLIONE
Non ricordo esattamente l’anno. Da un mese intero cacciavo con entusiasmo, con una gioia selvaggia, con quell’ardore che si ha per le passioni nuove.
Mi trovavo in Normandia, ospite di un parente non sposato, Jules de Banneville, solo con lui, la sua governante, un servo e un guardiano nel castello avito. Questo castello, antica costruzione grigiastra circondata da pini gementi, in mezzo a lunghi viali di querce ove galoppava il vento, pareva abbandonato da secoli. Solo antichi mobili abitavano le stanze sempre chiuse, ove un tempo le persone delle quali si vedevano i ritratti, in un corridoio tempestoso quanto i viali, avevano ricevuto cerimoniosamente i nobili vicini.
Quanto a noi, ci eravamo rifugiati nella cucina, l’unico angolo abitabile del maniero, un’immensa cucina i cui recessi oscuri si illuminavano quando si gettava una nuova fascina nel grande camino. Poi, ogni sera, dopo una dolce sonnolenza davanti al fuoco, dopo che i nostri stivali fradici avevano fumato a lungo e i nostri cani da ferma, accovacciati in circolo tra le nostre gambe, avevano sognato la caccia abbaiando come sonnambuli, salivamo nella nostra camera.
Era l’unico ambiente con un soffitto rimesso a posto e con pareti intonacate dappertutto, a causa dei topi. Ma era rimasto nudo, imbiancato soltanto di calce, con fucili, fruste per cani, e corni da caccia attaccati al muro; ci infilavamo nei letti battendo i denti, da una parte e dall’altra di quella capanna siberiana.
Davanti al castello, a una lega di distanza, la scogliera cadeva a picco sul mare; e il possente respiro dell’oceano, giorno e notte, faceva sospirare i grandi alberi incurvati, gemere il tetto e le banderuole, stridere tutto il venerabile edificio, che si riempiva di vento attraverso le tegole disgiunte, i camini larghi come voragini, le finestre che non chiudevano più.
 
Quel giorno, aveva fatto un gran gelo. Era giunta la sera. Stavamo per metterci a tavola davanti al gran fuoco dell’alto camino ove arrostivano una mezza lepre e due pernici che mandavano un buon odore.
Mio cuginò alzò il capo e disse:
«Non farà caldo, quando andremo a letto».
Replicai con indifferenza:
«No, ma avremo le anitre negli stagni, domattina».
La domestica, che apparecchiava per noi a un’estremità della tavola, e per la servitù all’altra estremità, domandò:
«I signori sanno che è la vigilia di Natale?».
Non ne sapevamo certamente nulla, perché non si guardava affatto il calendario.
Il mio compagno riprese:
«Allora è questa sera la messa di mezzanotte. È dunque per questo che hanno suonato le campane tutto il giorno!».
La domestica replicò:
«Sì e no, signore; hanno suonato anche perché è morto compare Fournel».
Compare Fournel, un vecchio pastore, era una celebrità del paese. All’età di novantasei anni non era mai stato malato sino al momento in cui, un mese prima, aveva preso freddo per essere caduto in uno stagno, in una notte scura. Il giorno dopo si era messo a letto. Da quel momento, aveva agonizzato.
Mio cugino si volse verso di me:
«Se vuoi» disse «andremo dopo a trovare quella povera gente».
Alludeva alla famiglia del vecchio, il nipote di cinquantotto anni, e la nipote moglie di costui, che aveva un anno meno. La generazione intermedia non esisteva già più da un pezzo. Abitavano in una misera casetta, all’ingresso del villaggio, a destra.
Ma non so perché quell’idea del Natale, in fondo a quella solitudine, ci mise addosso la voglia di chiacchierare. Tutti e due, uno di fronte all’altro, ci raccontavamo storie di veglioni passati, avventure di quella folle notte, imprese fortunate e risvegli il giorno dopo, i risvegli a due con le loro sorprese, lo stupore delle scoperte. In questo modo la nostra cena durò a lungo. Caricammo più volte la pipa dopo cena e, invasi da quell’allegria di solitari, dall’allegria comunicativa che nasce improvvisamente tra due intimi amici, parlavamo senza tregua, frugando dentro di noi, per raccontarci quei ricordi confidenziali del cuore che sfuggono nelle ore di effusione.
La domestica, che da molto se n’era andata, riapparve:
«Io vado a messa, signore» disse.
«Già!»
«Mancano tre quarti d’ora alla mezzanotte.»
«Se andassimo anche noi sino alla chiesa?» disse Jules; «la messa di Natale è molto interessante in campagna.»
Accettai, e ci avviammo, avvolti nelle nostre pellicce da caccia.
Un freddo acuto pungeva la faccia e faceva lacrimare gli occhi. L’aria cruda prendeva i polmoni e disseccava la gola. Il cielo profondo, limpido e duro, era crivellato di stelle che parevano sbiancate dal gelo; scintillavano non come fuochi, ma come astri di ghiaccio, brillanti cristallizzazioni. Lontano, sulla terra di bronzo secca e risonante, echeggiavano gli zoccoli dei contadini. E su tutto l’orizzonte, le piccole campane dei villaggi, tintinnando, gettavano le loro note deboli, anch’esse quasi infreddolite, nella vasta notte gelida. La campagna non dormiva. I galli, ingannati dai rumori, cantavano; e passando accanto alle stalle, si sentivano muovere le bestie agitate da quei rumori di vita.
Avvicinandoci al villaggio, Jules si ricordò dei Fournel.
«Ecco la loro baracca» disse. «Entriamo!»
Bussò a lungo, invano. Allora una vicina, che usciva di casa per recarsi in chiesa, vedendoci disse:
«Sono a messa, signori: vanno a pregare per il vecchio».
«Li vedremo all’uscita» disse mio cugino.
La luna che stava per tramontare profilava all’orlo dell’orizzonte la sua esile falce in mezzo a quell’infinita semina di punti lucenti gettati a manciate nello spazio. E nella campagna scura, piccoli fuochi tremolanti venivano dappertutto verso il campanile aguzzo che suonava senza requie. Tra i cortili delle fattorie, tra gli alberi, in mezzo alla pianura immersa nell’oscurità, quei fuochi saltellavano rasente la terra. Erano lanterne di corno portate dai contadini, che camminavano davanti alle loro donne in cuffia bianca, avvolte in lunghi scialli neri, seguite da marmocchi desti a malincuore, che si tenevano per mano nella notte.
Attraverso la porta aperta della chiesa si scorgeva il coro illuminato. Una ghirlanda di candele da un soldo girava tutt’intorno alla navata; e per terra, in una cappella a destra, un grosso Bambino Gesù esponeva su paglia autentica, in mezzo a rami di abete, la propria nudità rosea e manierata.
La funzione incominciava. I contadini curvi, le donne inginocchiate pregavano. Quella gente semplice, ravvivata dal freddo della notte, guardava tutta commossa l’immagine grossolanamente dipinta, e congiungeva le mani ingenuamente convinta quanto intimidita dall’umile splendore di quella puerile raffigurazione.
L’aria gelida faceva palpitare le fiammelle. Jules mi disse:
«Usciamo! Si sta ancora meglio fuori».
E sulla strada deserta, mentre tutti i campagnoli prosternati tremavano devotamente, ci mettemmo a riparlare dei nostri ricordi, tanto a lungo che la funzione era finita quando tornammo al villaggio.
Un filo di luce filtrava sotto la porta dei Fournel.
«Stanno vegliando il morto» disse mio cugino. «Entriamo finalmente da quella povera gente, farà loro piacere.»
 
Nel camino agonizzavano alcuni tizzoni. La stanza scura, come verniciata di sudicio, con le sue travi tarlate e annerite dal tempo, era piena dell’odore soffocante del sanguinaccio abbrustolito. In mezzo alla grande tavola, sotto la quale la madia tondeggiava come un ventre per tutta la sua lunghezza, una candela in un candeliere di ferro ritorto filava sino al soffitto l’acre fumo del suo lucignolo. E i due Fournel, l’uomo e la donna, vegliavano uno davanti all’altro.
Tristi, con l’aria scontenta e la faccia abbrutita dei contadini, mangiavano seriamente, senza dire una parola. In un solo piatto posto in mezzo a loro, un grosso pezzo di sanguinaccio emanava il suo fumo appestante. Di tanto in tanto, ne strappavano un boccone con la punta del coltello, lo schiacciavano sul pane che spezzavano a bocconi, poi masticavano con lentezza.
Quando il bicchiere dell’uomo era vuoto, la donna prendeva la brocca di sidro e lo tornava a riempire.
Quando entrammo, si alzarono e ci fecero sedere, ci invitarono a fare come loro, e, al nostro rifiuto, si rimisero a mangiare.
Dopo alcuni minuti di silenzio, mio cugino chiese:
«Ebbene, Anthime, vostro nonno è morto?».
«Sì, mio buon signore, è spirato oggi.»
Il silenzio riprese. La donna, per cortesia, smoccolò la candela. Allora, per dire qualcosa, aggiunsi:
«Era molto vecchio».
La nipote cinquantasettenne riprese:
«Oh, il suo tempo era passato, non aveva più nulla da fare qui».
A un tratto mi prese il desiderio di guardare il cadavere di quel centenario, e li pregai di mostrarmelo.
I due contadini, sino a quel momento placidi, si commossero improvvisamente. I loro occhi inquieti s’interrogarono, e non risposero.
Mio cugino, vedendo il loro turbamento, insistette. Allora l’uomo, con aria sospettosa e sorniona, domandò:
«A cosa vi servirebbe?».
«A nulla» disse Jules «ma si suole fare sempre; perché non volete mostrarlo?»
Il contadino alzò le spalle:
«Oh, per me, è lo stesso; soltanto, a quest’ora, non è facile».
Mille supposizioni ci passarono per la mente. Siccome i nipoti del morto non si muovevano ancora, e rimanevano uno davanti all’altro con gli occhi bassi, con quella faccia legnosa della gente scontenta che sembra dire: “Andatevene”, mio cugino parlò con autorità:
«Andiamo, Anthime, alzatevi e conduceteci nella sua camera».
Ma l’uomo, che aveva preso la sua decisione, rispose arcigno:
«Non vale la pena, non c’è più, signore».
«Ma allora, dunque, dov’è?»
La donna prese la parola in luogo del marito:
«Ve lo dirò: l’abbiamo messo nella madia sino a domani, perché non avevamo posto». E, togliendo il piatto del sanguinaccio, alzò il piano della tavola, e si chinò con la candela per illuminare l’interno del cassone aperto in fondo al quale scorgemmo qualcosa di grigio, una specie di lungo involto di dove usciva da una parte una magra testa con i capelli bianchi, scarruffati, e dall’altra parte due piedi nudi.
Era il vecchio, risecchito, con gli occhi chiusi, arrotolato nel suo mantello da pastore, che dormiva lì il suo ultimo sonno in mezzo ad antiche croste di pane annerite, secolari quanto lui.
I suoi nipoti avevano fatto sopra di lui la cena di Natale!
Jules indignato e tremante di collera esclamò:
«Perché non lo avete lasciato nel suo letto, villani che siete?».
Allora la donna si mise a lacrimare, e disse precipitosamente:
«Vi dirò, mio buon signore, abbiamo un solo letto in casa. Dormivamo con lui, prima, perché eravamo solo in tre. Ma da quando era tanto malato, noi si dormiva per terra; è duro, mio caro signore, con questo tempo. Ebbene, quando è trapassato, poco fa, ci siamo detti così: giacché non soffre più, quell’uomo, a che serve lasciarlo nel letto? Possiamo bene metterlo sino a domani nella madia, non potevamo mica dormire con quel morto, miei buoni signori!...».
Mio cugino, esasperato, uscì bruscamente sbattendo la porta, mentre io lo seguivo ridendo sino alle lacrime.
Racconti
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