LUI?
A Pierre
Decourcelle
Mio caro, non ci capisci nulla? Ne sono convinto. Mi
credi impazzito? Forse un po’ lo sono, ma non per le ragioni che
immagini.
Sì. Mi sposo. Ecco qua.
E tuttavia le mie idee, le mie convinzioni
non sono cambiate. Considero l’accoppiamento legale una
stupidaggine: sono più che sicuro che otto mariti su dieci sono
cornuti. E se lo meritano per esser stati tanto imbecilli da
incatenar la loro vita, da rinunciare al libero amore, la sola cosa
allegra e buona di questo mondo, da tarpare le ali alla fantasia
che continuamente ci sospinge verso tutte le donne, eccetera,
eccetera. Più che mai mi sento incapace d’amare una donna, amerò
sempre troppo le altre. Vorrei avere mille braccia, mille labbra,
mille... temperamenti per poter stringere nello stesso tempo un
esercito di queste creature incantevoli ed effimere.
Eppure mi sposo.
Aggiungo che la mia futura moglie mi è quasi
sconosciuta. L’ho vista soltanto quattro o cinque volte. So che non
mi dispiace; e questo mi basta per quanto mi aspetto da lei. È
piccolina, bionda, grassoccia. Dopodomani, appena sposato,
desidererò ardentemente una donna alta, bruna e magra.
Non è ricca. Appartiene a una famiglia del
ceto medio. È una ragazza come ce ne sono dozzine nella borghesia
ordinaria, fatta apposta per il matrimonio, senza qualità e difetti
apparenti. Si dice di lei: “La signorina Lajolle è graziosa”.
Domani si dirà: “È veramente graziosa, la signora Raymon”. Insomma,
appartiene alla legione delle ragazze oneste, di quelle che “si è
felici di far propria moglie” sino al giorno in cui si scopre di
preferire tutte le altre donne a quella che si è scelta.
Allora perché sposarsi? mi dirai.
Oso appena confessarti la strana e
inverosimile ragione che mi spinge a quest’atto insensato.
Mi sposo per non essere solo!
Non so come dirtelo, come farmi capire.
T’incuterò pietà e disprezzo, tanto il mio stato d’animo è
miserevole.
Non voglio restar più solo, la notte. Voglio
sentire un altro essere vicino a me, contro di me, un essere in
grado di parlare, di dir qualcosa, qualunque cosa.
Voglio poter interrompere il suo sonno; fare
improvvisamente una domanda, magari stupida, per sentire una voce,
sentire una mente che si sveglia, un ragionamento in formazione,
per vedere, accendendo di colpo la candela, una figura umana al mio
fianco... perché... perché... (non oso confessare una simile
vergogna)... perché ho paura a star solo.
Oh! non mi capisci ancora.
Non ho paura dei pericoli; se entrasse un
malintenzionato lo ammazzerei senza tremare. Non ho paura dei
fantasmi; non credo al soprannaturale. Non ho paura dei morti;
credo che ogni morto si annulli definitivamente. Allora!... sì.
Allora!... Ebbene! ho paura di me stesso! ho paura della paura;
paura degli spasimi della mia mente che va ottenebrandosi, paura di
quest’orribile sensazione del terrore incomprensibile.
Ridi pure. Tutto questo è orrendo,
inguaribile. Ho paura delle pareti, dei mobili, degli oggetti
familiari che, per me, vibrano d’una specie di vita animale. Ho
paura soprattutto dell’orribile turbamento del mio pensiero, della
ragione che mi sfugge confusa, scompaginata da una misteriosa e
invincibile angoscia.
Provo dapprima una vaga inquietudine che mi
attraversa l’animo e mi fa correre un brivido sulla pelle. Mi
guardo intorno. Nulla! Almeno vedessi qualcosa! Qualcosa di
comprensibile. Infatti, ho paura solo perché non capisco la mia
paura.
Parlo: ho paura della mia voce. Cammino: ho
paura dell’ignoto dietro la porta, dietro la tenda, dentro
l’armadio, sotto il letto. Eppure so benissimo che non c’è nulla,
nessuno, in tutti questi posti.
Mi giro bruscamente perché ho paura
dell’ignoto alle mie spalle, sebbene sappia benissimo che nulla,
nessuno è alle mie spalle.
Mi agito, e sento il mio turbamento
ingigantire; e mi chiudo in camera; e mi ficco nel letto, e mi
nascondo sotto i lenzuoli; e, rannicchiato, arrotolato come una
palla, chiudo gli occhi disperatamente e resto così per un’infinità
di tempo, con l’idea fissa che la candela è rimasta accesa sul
comodino e che dovrei spegnerla, Ma non oso.
Non è orribile, essere così?
Un tempo, non provavo nulla di simile.
Tornavo a casa tranquillamente. Andavo e venivo nel mio
appartamento senza che nulla turbasse la serenità del mio animo. Se
mi avessero detto quale malattia di paura inverosimile, stupida e
terribile, mi avrebbe assalito un giorno, avrei riso: aprivo le
porte nell’oscurità con sicurezza: mi coricavo lentamente, senza
tirare i chiavistelli, e non mi alzavo mai in piena notte per
accertarmi che ogni via d’ingresso alla mia camera fosse
sbarrata.
Tutto è cominciato l’anno scorso, in modo
singolare.
Fu in autunno, una sera umida. Quando la mia
domestica se ne fu andata, dopo cena, mi chiesi cosa potessi fare.
Camminai per qualche tempo avanti e indietro per la stanza: mi
sentivo stanco, accasciato senza ragione, incapace di lavorare,
privo di forza persino per leggere. Una pioggia sottile inumidiva i
vetri; ero triste, tutto penetrato da una di quelle tristezze
immotivate che vi fan nascere la voglia di piangere, che vi fan
desiderare qualsiasi cosa, qualsiasi avvenimento in grado di
scuotere il torpore del vostri pensieri.
Mi sentivo solo. Il mio appartamento mi
pareva più vuoto di quanto fosse mai stato. Una solitudine infinita
e penosa mi circondava. Che fare? Mi sedetti. Allora un’impazienza
nervosa mi corse nelle gambe. Mi rialzai e mi rimisi a camminare.
Avevo forse anche un poco di febbre, poiché le mani, che tenevo
congiunte dietro la schiena, come si fa spesso quando si cammina
lentamente, mi si scottavano l’una con l’altra, e lo notai. Poi,
improvvisamente, un brivido di freddo mi corse per la schiena.
Pensai che l’umidità di fuori entrasse in casa, e mi venne l’idea
di accendere il fuoco. Lo accesi; era la prima volta in quell’anno.
Sedetti di nuovo, guardando la fiamma. Ma, presto, l’impossibilità
di restar fermo mi fece alzare di nuovo, e sentii che dovevo
andarmene, scuotermi, trovare un amico.
Uscii. Andai a trovare tre colleghi, che non
trovai in casa; poi, arrivai sul boulevard, deciso a scovare una
persona di conoscenza.
Ogni luogo appariva triste. I marciapiedi
bagnati luccicavano. Un tepore di acqua, uno di quei tepori che ci
snervano con improvvisi brividi, un tepore greve di pioggia
impalpabile opprimeva la strada, e pareva stancare e oscurare la
fiamma dei lampioni. Camminavo con passo fiacco, ripetendo tra me:
“Non troverò nessuno con cui parlare?”.
Ispezionai più volte i caffè, dalla Madeleine
sino al faubourg Poissonnière. Persone
tristi, sedute ai tavolini, parevano non avere neppure la forza di
finire le loro consumazioni.
Vagai per molto tempo in quel modo, e verso
mezzanotte mi avviai per tornare a casa. Ero molto calmo, ma molto
stanco. Il mio portiere, che si corica prima delle undici, mi aprì
subito, contrariamente alla sua abitudine; e pensai: “Deve essere
appena rincasato qualche altro inquilino”.
Quando esco di casa, do sempre un doppio giro
di chiave alla porta. La trovai appena accostata, e questo mi
colpì: pensai che dovevano avermi portato su della posta, quella
sera.
Entrai. Il fuoco ardeva ancora, e rischiarava
persino, debolmente, l’appartamento. Presi una candela per andare
ad accenderla sulla fiamma, allorché, alzando lo sguardo, scorsi
qualcuno seduto nella mia poltrona, che si scaldava i piedi
voltandomi le spalle.
Non ebbi paura, oh, neppure per sogno. Una
supposizione molto verosimile mi attraversò la mente; e cioè che un
mio amico fosse venuto a trovarmi. La portinaia, da me avvertita
mentre uscivo, gli aveva detto che sarei rientrato subito, e gli
aveva prestata la sua chiave. E tutte le circostanze del mio
ritorno mi rivennero in un attimo alla mente: la prontezza con la
quale mi era stato aperto, e la porta appena accostata.
Il mio amico, del quale scorgevo solamente i
capelli, si era addormentato davanti al fuoco, aspettandomi; e io
mi feci avanti per destarlo. Lo vedevo perfettamente, con un
braccio che penzolava a destra e i piedi incrociati uno sull’altro;
la testa un poco inclinata dal lato sinistro della poltrona
rivelava chiaramente il sonno. Mi domandai:
“Chi è?”. Del resto, ci si vedeva poco, in
quella stanza. Tesi la mano per toccargli la spalla...
Incontrai solo il legno della poltrona. Non
c’era più nessuno. La poltrona era vuota!
Che sobbalzo, misericordia!
Saltai indietro, dapprima, come se un
terribile pericolo fosse apparso davanti a me.
Poi mi girai, sentendo qualcuno dietro le mie
spalle; poi ancora, a un tratto, un imperioso bisogno di guardare
di nuovo la poltrona mi fece girare di nuovo. E restai in piedi,
ansando per il terrore, tanto sgomento che non riuscivo neppure a
pensare, e prossimo a cader svenuto.
Ma, siccome sono un uomo di sangue freddo, la
ragione mi tornò subito. Pensai: “Ho avuto un’allucinazione, ecco
tutto”. E immediatamente riflettei su un tale fenomeno. Il pensiero
va in fretta, in momenti simili.
Avevo un’allucinazione: era un fatto
incontestabile. Ora, la mia mente era rimasta per tutto quel tempo
lucida, funzionando regolarmente e logicamente. Non v’era alcun
turbamento nel mio cervello. Gli occhi, soltanto gli occhi si erano
ingannati, ingannando il mio pensiero; gli occhi avevano avuto una
visione, una di quelle visioni che fan gridare al miracolo gli
ingenui: si trattava di una malattia nervosa dell’apparato ottico,
nulla di più, una specie di congestione, forse.
E accesi la candela. Chinandomi verso il
fuoco, mi accorsi di tremare, e mi rialzai con un sussulto, come se
mi avessero toccato alle spalle. Non ero per nulla tranquillo,
assolutamente.
Feci qualche passo, parlai ad alta voce, mi
misi a cantare qualche ritornello. Poi chiusi a doppia mandata la
porta della camera, e mi sentii un poco rassicurato. Per lo meno,
nessuno poteva entrare.
Mi sedetti di nuovo e riflettei a lungo sulla
mia avventura; poi mi coricai, e soffiai sulla candela.
Per qualche minuto, tutto andò bene. Restavo
coricato sul dorso, assai scomodamente. Poi avvertii il bisogno di
guardarmi intorno, nella camera; e mi girai sul fianco.
Nel caminetto erano ancora solo due o tre
tizzoni rossi che illuminavano appena i piedi della poltrona; e mi
parve di vedere di nuovo l’uomo seduto.
Accesi un fiammifero con mossa rapida. Mi ero
ingannato, non vedevo più nulla. Tuttavia, mi alzai e andai a
nascondere la poltrona dietro al letto. Poi spensi di nuovo la luce
e cercai di addormentarmi. Ma non avevo perso conoscenza da più di
cinque minuti, quando vidi in sogno, e nettamente come nella
realtà, tutta la scena di quella sera. Mi svegliai terrorizzato, e,
dopo avere illuminato la stanza, restai seduto sul letto, non
avendo neppure il coraggio di cercar di dormire. Tuttavia, per due
volte il sonno m’invase, senza volerlo, per qualche secondo. E per
due volte rividi la cosa. Credetti d’essere impazzito.
Quando apparve la luce del giorno, mi sentii
guarito, e sonnecchiai tranquillamente sino a mezzogiorno. Era
finito, completamente finito. Avevo avuto la febbre, un incubo, che
so io? Insomma, ero stato poco bene. Mi trovai nondimeno molto
sciocco.
Quel giorno fui molto allegro. Pranzai al
ristorante, andai a vedere uno spettacolo, poi mi avviai per
rincasare. Ma, ecco, avvicinandomi a casa, un’inquietudine strana
mi afferrò. Avevo paura di rivederlo, lui. Non proprio paura di
lui, non paura della sua presenza, a cui non credevo affatto, ma
avevo paura di un nuovo malessere nei miei occhi, paura
dell’allucinazione, e dello spavento di cui sarei stato
preda.
Per più di un’ora camminai avanti e indietro
sul marciapiede; infine, mi considerai troppo imbecille, ed entrai.
Ansavo a tal punto, che non riuscivo neppure a salire le scale.
Restai ancora per più di dieci minuti davanti alla porta, sul
pianerottolo, poi all’improvviso ebbi uno slancio di coraggio, un
irrigidimento della volontà: introdussi la chiave, mi precipitai
avanti con una candela in mano, spinsi con una pedata la porta
socchiusa della mia camera, e lanciai uno sguardo sgomento verso il
camino. Non vidi nulla.
Ah!...
Che sollievo! che gioia! che liberazione!
Andavo su e giù con aria spavalda. Ma non mi sentivo molto sicuro;
mi voltavo a scatti; l’ombra degli angoli mi inquietava.
Dormii male, destato continuamente da rumori
immaginari. Ma lui, non lo vidi. Era finita!
Da quel giorno, ho paura a stare solo, la
notte. La sento lì, vicino a me, intorno a me, quella visione. Non
mi è più apparsa, oh no! E cosa importa, del resto, dato che non ci
credo? dato che so bene che non è nulla?
Eppure mi disturba, perché ci penso
continuamente. Una mano penzoloni dal lato destro, la testa
inclinata a sinistra come quella di un uomo che dorme... Andiamo,
basta, in nome di Dio! Non voglio pensarci più!
E, tuttavia, cos’è quest’ossessione? Perché
tanta insistenza? I suoi piedi erano vicinissimi al fuoco!
Mi ossessiona, è una follia, ma è così. Chi,
lui? So bene che lui non esiste, che non è nulla! Esiste solamente
nella mia apprensione, nel mio timore, nella mia angoscia! Andiamo,
basta!...
Sì, ma ho un bel ragionare, farmi forza, io
non posso più rimanere solo a casa. Perché c’è lui. Non lo vedrò
più, lo so; lui non si farà più vedere; è finita. Ma lui è
ugualmente nel mio pensiero. Rimane invisibile, ma questo non
toglie che lui ci sia: è dietro le porte, nell’armadio chiuso,
sotto il letto, in tutti gli angoli scuri, in tutte le ombre. Se
apro la porta, se apro l’armadio, se abbasso la lampada a scrutare
sotto il letto, se illumino gli angoli, le ombre, lui non c’è più;
ma allora lo sento dietro a me. Mi volto, sicuro però di non
vederlo, di non rivederlo più. E, tuttavia, lui è sempre dietro a
me.
È stupido, ma è atroce. Cosa vuoi? Non posso
farci nulla.
Ma, se fossimo in due, a casa mia, sento, sì,
sono convinto, che «lui» non ci sarebbe più! Infatti, è lì perché
io sono solo, unicamente perché sono solo!