PRESSO I LATINI
Lamenta Ovidio: “Adesso colei che vuole apparire bella corrompe l’utero, e ai tempi nostri è raro che una donna desideri essere madre… ”.
A Roma, contraccezione e aborto costituivano probabilmente la regola, più che l’anomalia: è stato calcolato che, in assenza di metodi di controllo delle nascite, la popolazione dell’Urbe sarebbe stata ben più numerosa del suo milione e mezzo di abitanti, soltanto un terzo del quale, comunque, era di sesso femminile.
A consigliare e praticare i metodi anticoncezionali (nonché abortivi) erano di solito le sagae, ovvero le levatrici, il cui nome echeggia ancora oggi nel termine francese sagesfemmes.
Queste “mammane” costituivano l’unico presidio medico per la stragrande maggioranza delle donne di Roma ed erano le continuatrici latine della celebre tradizione delle ostetriche greche. Greci, infatti, sono i nomi (citati da Plinio) di alcune famose sagae vissute a cavallo del primo secolo: Olimpia di Tebe, Laide, Elefantiade…
Ora, i metodi con i quali si praticava il controllo delle nascite nell’antichità erano realmente efficaci? Non lo sappiamo di certo, tuttavia ci permettiamo di dubitarne: sull’aborto, la letteratura medica antica, ligia al codice ippocratico, non tramanda ricette; in compenso, però, conosciamo alcuni rimedi consigliati dalle levatrici: Laide e Elefantiade, ad esempio, si affidano al carbone delle radici di brassica, mirto o tamerice.
La botanica di Teofrasto, tanto ricca di note sulla fìtoterapia, ci indica come abortivi sia la felce femmina che il famoso vino di Cerinia, di cui parleranno anche Varrone e Dioscoride, medico di Nerone: secondo quest’ultimo, per attivare l’effetto abortivo era necessario piantare ai piedi del viticcio l’elleboro, la scammonica (una specie di convolvolo) o il cosiddetto cocomero selvatico. I principi attivi di queste erbe tossiche sarebbero dovuti passare nel vino, che le pazienti sorbivano a digiuno, dopo essersi provocate il vomito.
Sempre Dioscoride elenca altre piante, alcune delle quali velenose, utilizzate per interrompere la gravidanza: l’aro, il draconzio, lo smirnio, la saponaria, il ciclamino (il cui succo andava spalmato attorno all’ombelico), l’aristolochia (da assumersi insieme a pepe e mirra) e infine la brionia. In effetti, queste ultime specie sembrerebbero caratterizzarsi per talune proprietà farmacologiche, ma la questione rimane controversa, perché non è mai facile identificare con esattezza le piante citate nei testi greci e latini secondo i criteri della moderna tassonomia.
Le pozioni – e i salti pericolosi, riservati alle più povere e disperate – non erano le sole pratiche contraccettive; esistevano anche i pessari, le compresse vaginali e unguenti più o meno spermicidi.
Per provocare l’aborto, si usava Vembriosfacte – citato con orrore anche da Tertulliano – e vari tipi di raschiatoi, di cui sono stati rinvenuti esemplari a Ercolano e Pompei. Alcune donne non sopravvivevano all’intervento; non stupisce quindi che Ovidio le esorti a non “scavare le viscere infilandovi ferri”
e le avverta che sottomettendosi a certe pratiche, corrono il rischio di perdere la vita.
Peraltro, l’esortazione di Ovidio rimase lettera morta, perché i motivi che spingevano le romane a limitare il numero di figli non erano soltanto economici: allora come oggi, infatti, le donne del popolo erano assai più prolifiche di quelle abbienti.
Sotto tale profilo, per inciso, la denatalità della classe dirigente preoccupava a tal punto Augusto da spingerlo ad emanare una serie di leggi per favorire l’aumento demografico.
Sintomatica in questo senso è la concessione di alcuni privilegi alle madri di tre figli, che testimonia come anche una fertilità così modesta fosse tanto rara nei ceti superiori da meritare premi speciali.
A ogni conto, il feto non godeva di alcuna tutela legale. La legge romana si occupava di aborti quasi esclusivamente quando coinvolgevano questioni ereditarie: l’interruzione di gravidanza non veniva punita, a meno che non implicasse un cambiamento di successione. Classica è la causa discussa da Cicerone in difesa di Cluenzio, dove il famoso oratore accusa Abbio Oppianico di avere indotto col denaro una donna ad abortire, allo scopo di appropriarsi dell’eredità del nascituro.
L’aborto, comunque, era praticato soprattutto da donne per cui un figlio avrebbe significato la perdita del lavoro: cantanti, ballerine, meretrici, etere e naturalmente schiave.
In questo ultimo caso, il padrone poteva pretendere l’interruzione della gravidanza, o in alternativa esporre il neonato: in un’epoca di guerre di conquista, allorché una copiosa quantità di manodopera servile veniva immessa quotidianamente sul mercato a basso prezzo, non risultava troppo conveniente allevare un servo fin dalla nascita. Per contro, sappiamo anche di molti proprietari che propiziavano le unioni feconde tra i loro schiavi, favorendo la costituzione di famiglie vernacole numerose, serene e di provatissima fedeltà.