9.
Sedicesimo giorno prima delle Calende di Ottobre.
- Com’è oggi il padrone, abbordabile quanto occorre? – s’informò Castore.
- Provaci tu, che sei la pupilla dei suoi occhi.
Io non riesco a parlarci! – rispose Paride agitatissimo.
Le circostanze avevano costretto i due liberti, tra i quali non era mai corso buon sangue, a stringere una precaria alleanza per far fronte a una grave emergenza.
- Non contare su di me, da quando ha conosciuto quella donna io non esisto più“.
Prima, Castore di qua, Castore di là.
Adesso è come se fossi diventato trasparente! – sbuffò il greco.
- Sai perché mi ha convocato, ieri? Vuole che faccia rimettere a nuovo un’intera insula! Per di più“ ha dato lo sfratto a un famoso medico e ha licenziato il locatario.
D’ora in poi gli affitti li riscuoterà un vagabondo, un certo Probo, e io dovrò occuparmi di tutto il resto personalmente.
Come se non avessi altro da fare!
- E cosa dovrei dire io, che ho dovuto fare il giro di tutti gli orafi di Roma per trovarne uno disposto a fabbricargli dei bisturi? – Vedo già questa onorata domus trasformata in un ospedale per pezzenti! – gemette Paride.
- Quell’intrigante ha un effetto deleterio su di lui.
Pensare che prima mi lamentavo delle cortigiane, ma quelle, almeno, la mattina dopo le mandava via!
Mentre i due si sfogavano, sopraggiunse il cuoco, desolato.
- Sacra Artemide! Mi è toccato smuovere mezzo mondo per farmi comprare da uno dei più“ raffinati buongustai di Roma e cosa succede? Stavo esercitandomi nei miei manicaretti più” squisiti quando il padrone mi ordina: cibi semplici, Ortensio! Basta con questi piatti elaborati che rovinano la salute! D’ora in poi, molte verdure crude e insalate di frutta.
Dite, che ci sta a fare un cuoco di qualità in questa casa?
- Non hai bisogno di spiegarti, Ortensio, anche noi ci siamo dovuti sciroppare le tue erbette crude per cena! – sospirò Castore. – E per di più“ il padrone si è messo a bere pochissimo.
Quello che mi piaceva, in questa casa, era come scorreva il vino.
- Si sta occupando delle sue proprietà in Campania e non sapeva quasi di averle, finora.
Adesso mette il naso dappertutto e vuole apportare non so quanti cambiamenti.
Non ce la faccio più“! – Il piO amministratore era sull’orlo del pianto.
Castore circondò con le braccia le spalle dei compagni di sventura e, guardandosi sospettosamente intorno, come se avesse paura di essere ascoltato, sussurrò: – Avete pensato… se l’influenza nefasta di quella donna non si limitasse a un episodio. se diventasse continuativa? Una sequenza di immagini terrificanti passò davanti agli occhi sbarrati del terzetto.
- Non vorrai dire…. – mormorò Paride con un filo di voce- una padrona! Castore fissò il collega nel fondo delle pupille, e annuì“ gravemente.
- No! Non qui! Non nella mia domus! – ululò l’intendente disperato.
Anni di rancore e d’inimicizia svanirono in un attimo e i due si abbracciarono come fratelli da lungo tempo perduti.
- Su, non fare così, Paride! – lo consolò il greco, tentando di dominare la propria ansia. – Certo che questa è casa tua, lo sappiamo benissimo.
Ma legalmente, capisci, appartiene a lui.
E poi questa storia dura solo da una decina di giorni. i nostri timori potrebbero rivelarsi infondati!
- Ma lo vedi com’è cambiato il padrone! E non le ha nemmeno dormito assieme! – guaiva l’altro.
- Immagina se quella venisse a stare qui! Pretenderebbe di rivedere i conti, vorrebbe dirigere la servitù.
- Niente più“ belle schiave, niente vino. – si esulcerò Castore.
- Erbette lessate. – si disperò Ortensio.
E le tre voci affrante si fondevano nel coro dei lamenti.
- Non devi permetterlo, Castore! Tu solo puoi salvarci! – proruppe Paride deciso.
Il greco scuoteva la testa, sconsolato.
- Fallo per Nefer, che, bella com’è, verrebbe subito buttata fuori! – lo esortò l’intendente.
- Fallo per Ortensio, che ne avrebbe la carriera stroncata sul nascere!
- Quando avrei potuto diventare cuciniere imperiale! – singhiozzò il povero cuoco.
- Fallo per Fabello, che invece di dormire beato in guardiola sarebbe costretto a vegliare giorno e notte! – incalzava il liberto, mettendo nella sua arringa la passione dei grandi principi del Foro.
- O almeno fallo per Polissena.
L’ha portata via dal lupanare e non si è ancora degnato di convocarla nel suo letto; se non fosse per i tuoi sforzi generosi la poveretta rischierebbe di passare il resto della vita in castità“! Fallo per Carmide, per Modesto, per Placido, per Corellia.
Castore, temendo che quel pignolo di Paride snocciolasse a uno a uno i nomi dei cento e più“ schiavi della domus, si affrettò a rassicurarlo.
Con un gesto paterno gli posò la mano sulla spalla e assentì.
- Ci proverò“, ci proverò” amici.
Ma adesso uniamoci in un patto solenne e irrevocabile: niente mogli in questa casa!
Le mani dei tre uomini si strinsero in un muto giuramento. – Vado a parlargli! – annunciò il greco con virile decisione, e si avviò verso la camera del dominus.
Aurelio, ahimè, era già in piedi da un pezzo: negli ultimi giorni si era ritirato di buon’ora, sempre squallidamente sobrio.
- Benvenuto, Castore! – lo salutò allegramente. – Ho proprio bisogno di te: c’è un mucchio di lavoro da sbrigare!
Pessimo inizio, pensò il servo, cercando di non perdersi d’animo.
- Ho una magnifica notizia, domine! – esclamò con entusiasmo. – Lollia Antonina sta per tornare a Roma! Il greco attese trepidante.
Aveva scoccato la freccia migliore del suo arco dissestato: Lollia era l’unica, tra le numerose amanti di Aurelio, ad aver lasciato una traccia di qualche rilievo, e Castore conosceva abbastanza il padrone per sapere fino a che punto l’aristocratica e spregiudicata matrona lo attirasse.
D’accordo, anche lei era piuttosto pericolosa, ma almeno combatteva con armi leali e prevedibili, come il fascino, la malizia, la sensualità, tutta roba alla quale si poteva sempre far fronte.
Quella Mnesarete, invece. come fermare una donna che invischia la vittima predestinata in una rete di onestà, saggezza e buoni propositi? Nemmeno un astutissimo alessandrino era attrezzato per uno scontro simile! Lanciato il suo dardo, il greco aspettò che giungesse a segno, pregustandone l’effetto.
Ma lo strale mancò clamorosamente il bersaglio.
- Ah, sì? – fece il patrizio senza soverchia curiosità e continuò imperterrito.
- Hai poi trovato quei bisturi che ti ho fatto cercare?
Incostante, vagheggìno! Vatti a fidare degli uomini. pensò il servo scorato, mentre la sua fertile immaginazione cercava in fretta un altro diversivo.
- Sei riuscito a vedere la famiglia di Rubellio, padrone? – domandò sperando di deviare l’attenzione del patrizio da forcipi e bende.
- Ho annunciato la mia visita per oggi.
- Benissimo, domine, ti accompagnerò, come al solito.
So dove vivono: una casa modesta, oltre il Campo Marzio, nei pressi del Porto Vinario.
Lungo la strada abita una cortigiana che….
- Cortigiana? – ripetè il senatore come se il segretario avesse nominato un animale mitologico. – Dovresti stare attento, Castore, non vorrei che prendessi qualche brutta malattia!
- Oh, Diana d’Efeso, Iside benedetta, Ecate Immortale! – sbottò il greco – siamo già a questo punto!
I lettighieri nubiani trotterellavano svelti verso il Campo Marzio, diretti alla casa di Decimo.
Castore seguiva la portantina a piedi, sforzandosi di apparire in tutto e per tutto un cane fedele che non può vivere se non all’ombra del padrone.
Sorpassando la zona dei templi, il greco alzò gli occhi verso il santuario di Iside, arredato da Caligola, amante dei riti egizi, con una sontuosità tutta orientale, ed elevò pìamente una preghiera alla signora del Nilo, perché lo aiutasse a distogliere Aurelio dai propositi scellerati che stava covando.
Meditò per un attimo di aggiungere alla preghiera una piccola offerta, allo scopo di aumentarne l’efficacia, poi scartò l’idea: la fiducia che nutriva negli Immortali non bastava a far li rischiare su una dea, per quanto qualificata, il suo sudato peculio.
Mandò un economico bacio in direzione del tempio e proseguì.
Aurelio intanto aveva fatto fermare la lettiga per attraversare a piedi la spianata dei Saepia lulia, soffermandosi tra le bancarelle in cerca di qualche pezzo di antiquariato da aggiungere alla sua ricca collezione.
Castore intravide una buona occasione e si affrettò a tornare sui suoi passi.
Trovò il padrone davanti a un banco che rigirava tra le mani uno specchio alessandrino di squisita fattura.
In altri tempi il servo si sarebbe domandato a quale delle tante matrone che gli concedevano con entusiasmo le loro grazie fosse destinato.
Ora il dubbio non lo sfiorò nemmeno: quella greca maledetta l’aveva stregato! – Posso aiutarti, domine? – domandò ossequioso caricandosi del peso lievissimo dello specchio. – Guarda questo braccialetto. – arrischiò poi-.
Come starebbe bene a Cinzia.
Inutile: Aurelio senza ascoltarlo era già sgattaiolato fra i banchetti riguadagnando la portantina.
I nubiani avevano l’ordine di non affrettarsi e il senatore si godeva, dalle cortine aperte, la bellezza disordinata della sua Roma.
Com’era diversa l’Urbe da tutte le altre città!
Quelle, costruite con ferrea geometria attorno a due strade rigorosamente perpendicolari, il cardine e il decumano massimo, avevano un aspetto ordinato e razionale.
L’Urbe invece si era sviluppata in un caos festoso senza un centro preciso, con le strade che finivano bruscamente davanti agli edifici, le piazze ricavate da sventramenti assurdi, i templi vicini ai macelli, i tribunali accanto alle latrine, i bordelli muro a muro con le domus più“ signorili.
Cresciuta come un’immensa pianta dai mille rami, Roma era la negazione stessa dell’ordine romano, e proprio per questo Aurelio l’amava come si può amare soltanto una donna eccentrica e unica.
Passarono sotto il gigantesco orologio solare del Campo Marzio, con le ore di granito multicolore incastonate nel pavimento.
Il patrizio alzò gli occhi verso l’altissimo obelisco che Augusto aveva sottratto a Eliopoli dopo il trionfo su Cleopatra e Marcantonio.
La lunga ombra segnava l’ora terza, ma Aurelio non si fidò: sapeva che alcuni lievi sommovimenti tellurici ne avevano alterato l’angolazione, un tempo perfetta.
Preferì estrarre dalla tunica il suo gnomone tascabile, dirigerlo verso il sole e regolarsi con quello.
Il corteo sorpassò il grande Mausoleo che accoglieva in un maestoso tumulo circolare le ceneri di Augusto, Livia e Tiberio, numi tutelari della famiglia GiulioClaudia.
In quel punto la strada piegava a est dirigendosi verso gli Orti di Lucullo e, poco prima dei famosi giardini del generale gastronomo, sorgeva un gruppo di case modeste.
Il patrizio accennò agli schiavi di arrestarsi.
La famiglia di Rubellio, antica ma non certo abbiente, abitava lì in una piccola domus e per far quadrare il bilancio aveva dovuto sacrificare le stanze prospicienti la strada, affittandole come botteghe ai vinai del quartiere.
Appena sceso dalla lettiga, il raffinato senatore fu investito dall’odore dell’uva fermentata, acre come il fiato di cento ubriachi e tappandosi il naso con un lembo della toga si addentrò nel vicolo brulicante di attività.
Ecco dove Dinah poteva aver conosciuto il suo innamorato.
Dal Porto era facile raggiungere i magazzini: in fondo anche il padre della ragazza era un commerciante di vino, sebbene si limitasse a quello kasher, l’unico che i suoi schizzinòsi correligionari accettassero di bere.
Forse la giovane ebrea era stata vista dall’occhiuto Uriele chiacchierare con dei gentili proprio al Porto Vinario.
Probabilmente la cricca di Flavio l’aveva abbordata, com’era solita fare con le ragazze sole.
Che cos’aveva detto Polissena? Che il capobanda l’aveva importunata, e Rubellio era accorso in sua difesa.
Poi da cosa nasce cosa. il primo appuntamento, gli incontri clandestini, la tragedia.
- Entra, senatore Stazio! – invitò Decimo Rubellio, porgendogli il pane del benvenuto. – Questa è mia moglie Fannia.
Aurelio avanzò nel vestibolo: i suoi occhi perspicaci prendevano nota di ogni particolare: la veste fuori moda della padrona di casa, gli affreschi sbiaditi, la mediocre qualità degli arredi.
Non era certo l’abitazione di gente che potesse permettersi un figlio scialacquatore.
L’ambiente, anche se decoroso, era quasi spartano e il patrizio notò uno schiavo che andava e veniva nell’atrio trascinando dei secchi pieni: evidentemente, pur vivendo al pianterreno, la famiglia non aveva un reddito tale da poter pagare la forte tassa che garantiva l’allacciamento all’acqua potabile.
Decimo era di origini abbastanza illustri, ma i tempi in cui i suoi antenati avevano un patrimonio sufficiente per sedere in senato erano passati da un pezzo.
Eppure Rubellio andava in giro con la banda di Flavio, spendendo a piene mani.
- Cerco tuo figlio, Decimo! – esordì Aurelio senza preamboli non appena si fu accomodato nel tablinio.
I due uomini erano soli, ora: Fannia si era ritirata con un rapido Vale!, accampando lavori urgenti.
- Che cos’ha combinato? – s’informò l’altro accigliandosi.
- Non temere, ho semplicemente bisogno di parlargli.
- Perchè? Temi che abbia commesso qualche sciocchezza? Decimo sembrò riflettere, poi il desiderio di sfogarsi ebbe la meglio.
- Mi ha sempre dato dei pensieri, quel figliolo.
Suo fratello è già nell’esercito e ha buone prospettive di carriera.
La sorella è sposata a un cavaliere, benestante se non proprio ricco.
A noi sono rimasti ancora un paio di fondi in campagna e ne ricaviamo il necessario per vivere.
D’altra parte non abbiamo molte esigenze, Fannia e io, e di questi tempi, con tutti gli stranieri che vengono a rubarci il pane, bisogna ringraziare gli dèi se si tira avanti! Ma lui non si accontenta, ha delle pretese, lui! – Forse è per via della gente che frequenta.
- Già, quel Flavio e gli altri bellimbusti della sua risma! Gli hanno montato la testa, al mio ragazzo! Sempre fuori di notte, per bordelli e taverne- sospirò il vecchio. – E la nostra casa non gli basta più“: i suoi compagni hanno tutti una camera in centro, con quel che costano gli affitti!
Le tuniche tessute dalle serve non sono abbastanza eleganti. i suoi preziosi amici indossano stoffe egiziane!
- Da quanto dura questa faccenda?
- Da due anni, più“ o meno. – Decimo scosse il capo.
- Ultimamente poi, con quella figliola di mezzo….
- Sì? – fece Aurelio rizzando le orecchie.
- Ci crederesti? Rubellio si è messo in testa di sposarla.
Ma ti rendi conto? Ha appena diciotto anni e si sceglie da solo la moglie, un’illustre ignota, una sgualdrinella da due soldi!
- Si chiama Dinah per caso?
- Dinah, sì, e chi è, si può sapere? Una meretrice da strapazzo che ha conosciuto in un lupanare? Un mese fa è venuto da me, fresco come una rosa, annunciandomi che l’aveva messa incinta e che dovevamo prenderla in casa, con tutti gli onori, come una donna per bene!
- Era una donna per bene, Decimo! – non potè trattenersi dal ribattere Aurelio.
- Ti manda lui per convincermi, vero? – scattò il vecchio inviperito. – Non crederà che ci caschi, eh? Con la bella reputazione che ti ritrovi, per di più“! Non siete nemmeno più“ capaci di distinguere una figlia di famiglia da una lupa da bordello? Adesso le schiave vanno trattate come le matrone! Se si è fatta incastrare, gli ho detto io, dovrà arrangiarsi: che metta al mondo il suo bastardo e lo butti in un letamaio, come fanno tutte! Ma no, lui pretende che prepari il flamine rosso, il velo nuziale per accoglierla come una nuora! Te lo scordi mio caro, gli ho detto, sei ancora sotto la mia tutela e io sto trattando il tuo matrimonio con la figlia di Quinto Basso, che porta in dote una delle vigne più” grasse dell’Agro Romano! Altro che quella puttanella orientale!
- Allora lo sai che è ebrea! – sbuffò Aurelio, che non sopportava di sentire parlare in quel modo della povera Dinah.
- Ebrei, egiziani, fenici, tutti uguali, quelli! Vengono a Roma e ci portano via il lavoro: cominciano con uno straccio sul marciapiede, con un banchetto volante in una piazza e in men che non si dica hanno preso il nostro posto nelle botteghe.
Hai visto, sotto casa mia? Quanti romani credi che ci siano tra i commercianti che si riempiono le tasche con i miei soldi? Alcuni non sanno neanche parlare latino, e io ho dovuto cedere quattro locali della mia casa, perché potessero aprire i loro negozi.
E adesso si sono piazzati lì con tutta la famiglia: alla sera chiudono la bottega, e ci dormono dentro in sette o otto. – Lo sfogo dell’anziano possidente ormai in rovina era forse comprensibile, ma Aurelio, che amava la sua bella Roma cosmopolita, ne fu irritato.
- Allora gli hai risposto che non avresti mai dato il tuo con senso?
- Certo! Vuoi che gli dicessi: porta pure qui la tua giudea, a cuocere le azzimelle nel nostro focolare, e ad accendere la menorah al posto dei lumi per i nostri Lari? Ah, gliel’ho cantata chiara! E sai cos’ha avuto il coraggio di rispondermi? Il vecchio tremava di collera. – Sai cos’ha detto a me, suo padre, di antica e onorata stirpe? Aurelio aspettava, muto, di conoscere l’estremo peccato di Rubellio.
- Mi ha detto che se non davo il mio consenso si sarebbe fatto lui giudeo, per sposarla coi suoi riti! Ha minacciato di farsi circoncidere! – urlò furibondo.
- Non temere, Decimo- lo rassicurò il patrizio, gelido. – Non aver paura che una giudea entri nella tua casa onorata: la ragazza è morta!
- Morta? – ripetè l’altro, mentre un guizzo di sollievo gli passava negli occhi.
- Morta, sì, cercando di liberarsi del bambino, di tuo nipote, Decimo.
E non mi pare che tu abbia molte speranze di averne altri – aggiunse con calcolata malignità. – Gli onesti matrimoni dei tuoi primi figli non hanno dato frutti, o sbaglio?
- Non sapevo, mi dispiace. – mentì Decimo con faccia di circostanza.
- Tu la conoscevi?
- Molto bene e ti assicuro che non avresti potuto trovare una nuora migliore.
Tra l’altro era anche molto ricca e figlia unica. non che la cosa abbia importanza, bada bene….
- Non potevo immaginare…. – balbettò il vecchio costernato e dal suo viso traspariva lampante la stizza per la cospicua dote che si era stupidamente lasciato sfuggire. – Se Rubellio mi avesse detto….
- Forse tuo figlio non immaginava che il profumo dei soldi avrebbe coperto l’odore di ebrea per il tuo naso delicato.
Pazienza, ormai non c’è più“ niente da fare. Aurelio si alzò.
- Vale. Ti auguro come nuora una delle amichette di Flavio, che tuo figlio frequenta nei bordelli: loro, almeno, non sono giudee! – E con uno sconfortante senso di amarezza lasciò la stanza.