8.

Ottavo giorno prima delle Idi di Settembre.

 

La Via Caelimontana, subito fuori delle Mura Serviane, testimoniava il grande sviluppo che l’Urbe aveva conosciuto nell’ultimo mezzo secolo, da quando le aquile delle legioni, senza più“ rivali, erano giunte fino ai confini più” remoti dell’impero, portando ovunque gli innegabili benefici della Pax Romana.

Forse i popoli sottomessi nutrivano qualche dubbio sui vantaggi di pagare tasse esose per avere il privilegio di imparare il latino, ma questo non preoccupava i Quiriti, abituati a vivere comodamente nell’unica città del mondo dove il grano e gli spettacoli erano gratuiti e i giorni di vacanza stavano per superare quelli lavorativi.

E chi, davanti alle generose distribuzioni di cereali e di giochi dell’Arena, si sarebbe lamentato del fatto che ormai tutti, nobili e popolani, liberi e schiavi, dovevano sottomettersi all’autorità di un unico uomo, il divino Cesare? Chi mai, salvo pochi, irriducibili reazionari, rimpiangeva i tempi severi della repubblica? Non certo i calzolai del Vicus Scauri che si affaccendavano nelle loro bottegucce, scommettendo accanitamente sull’ultima corsa, né le prostitute del bordello, che sonnecchiavano beate nei loro cubicoli in attesa dell’ora di riprendere l’attività, e tanto meno il senatore Aurelio Stazio che in quel momento percorreva il vicolo, seguito da una donna coi capelli troppo corti per essere un’onesta matrona.

Il patrizio indossava un rozzo mantello col cappuccio e dei vecchi sandali di cuoio.

La ragazza gli stava modestamente alle spalle con gli occhi bassi come una serva, o meglio, come una concubina.

La strada sboccò improvvisamente in uno slargo e apparve un’insula di proporzioni enormi, circondata da un ampio porticato.

La base, molto stretta, reggeva un numero incredibile di piani, che si libravano pericolosamente verso l’alto: i prezzi astronomici dei terreni edificabili nell’Urbe avevano fatto crescere come funghi quegli edifici mostruosi, che incombevano sui passanti come ciclopi di pietra.

E qui- la giovane si fermò, indicando la torre.

- Demofonte ha l’ambulatorio al pianoterra.

Già parecchi pazienti attendevano accanto alla porta il loro turno di visita.

Lo schiavo portinaio usciva di tanto in tanto, gridando un nome, e subito il chiamato si precipitava dentro.

Aurelio pensò bene di abbreviare i tempi, facendo scivolare in mano al servitore un paio di monete, non troppe, per non scoprire la sua reale disponibilità finanziaria.

- Siete qui per il medico, eh? – li abbordò un vecchietto arzil lo che gironzolava lì attorno.

- Gia. Anche tu? – rispose laconico il patrizio, poco propenso ad attaccar discorso su acciacchi e malattie.

- Ma nemmeno per sogno! – protestò il vecchietto ciarliero- godo di ottima salute, per grazia dei Numi! E poi come vuoi che mi possa permettere i prezzi di quel ladro? Quest’inverno gli ho chiesto di darmi qualcosa per la febbre. era per un bambino che abita qui. Se n’è guardato bene! Niente soldi, niente cure!

- Non mi sembri troppo deperito. Come fai a campare? – domandò Aurelio cui il popolano cominciava a diventare simpatico.

- Qualche lavoretto ogni tanto. me la caverei bene se non fosse per l’affitto! Lo vedi quello là? – domandò indicando un personaggio pretenzioso che entrava in quel momento nell’insula con aria di sussiego. – E“ Minucione, il locatore.

Ha preso in affitto lo stabile per una cifra enorme, ma ci ricava più“ del doppio riscuotendo il canone, da tutti gli inquilini.

- Tu quanto paghi? – s’interessò il senatore, sempre curioso.

- Oh, io non posso permettermi un appartamento. subaffitto una camera, insieme a quattro amici.

- Non state un po’“stretti?

- Bè, sai com’è, in casa ci si sta poco.

Io rimango quasi sempre fuori, sotto il portico, oppure giro per le botteghe.

A che serve un alloggio se non per dormirci? Certo, l’acqua bisogna prenderla alla fontana, quella corrente arriva soltanto a pianoterra, e nell’appartamento non c’è il focolare.

Ma in quanto al resto, se a Roma abbonda qualcosa, sono le latrine pubbliche! – dichiarò l’omino soddisfatto. – Per quelli dell’ultimo piano sì, che è una tortura, con le tegole rotte e la pioggia che entra! E poi sono i primi a crepare, in caso d’incendio o di crollo.

- Ma quanta gente vive in questo formicaio?

- Siamo sui centocinquanta, senza contare i bambini, ovviamente.

- Più di duecento persone in quella torre! I muri sembrano di papiro, tanto sono sottili! Da un momento all’altro può crollare tutto!

La legge dice che…

- Già, già, la legge! Sai cosa prende Minucione per un appartamento? Duemila sesterzi l’anno! Potrebbe pagare il proprietario, provvedere ai lavori di manutenzione e gli rimarrebbero ancora un bel mucchio di soldi.

Ma questi locatori sono tutti uguali: cercano di spremere più“ denaro possibile, poi, se la casa crolla, bè, non è mica loro!

- A chi appartiene, a proposito? – domandò Aurelio, indignato.

Gliel’avrebbe fatta vedere lui all’incosciente che trascurava così la sua proprietà, lasciandola in mano ai profittatori!

- Veramente non lo so. è uno dei tanti ricconi.

Quelli non si vedono mai, da queste parti! Mandano la gente come Minucione a trattare con noi, non si sporcano le mani, loro! Aurelio diede un’altra occhiata all’insula.

Sebbene in pessimo stato doveva essere uno stabile di grande valore.

Non era improbabile che ne conoscesse di persona il proprietario: un giorno o l’altro l’avrebbe incontrato e allora…

- Senti, fammi un piacere- disse frugando nella borsa. – Qui ci sono due sesterzi.

Sappimi dire di chi è il palazzo e ne avrai altrettanti.

Gli occhi del vecchio s’illuminarono alla vista del denaro.

- Altri due? Dici sul serio? – esclamò incredulo, agguantando Il peculio – vado subito! Cura la tua salute e quella della tua bella che a trovare il nome di quel disgraziato, ci pensa Probo!

In quel momento l’assistente gridò il nome di Aurelio.

Il patrizio, seguito da Polissena, si avviò all’entrata.

Demofonte doveva cavarsela bene.

Il suo appartamento, con studio annesso, occupava l’intero pianterreno e non era certo arredato con risparmio.

Affreschi e marmi decoravano le pareti e i mobili erano di ottimo legno lavorato.

La stanza in cui vennero fatti accomodare, sobria ed elegante, gridava ai quattro venti il successo professionale del medico.

Il muro di fondo scompariva dietro una serie di scaffali carichi di anfore, di ciotole e di vasetti d’unguenti e davanti agli scaffali troneggiava un tavolo, abbastanza basso perché i pazienti potessero, all’occorrenza, sdraiarvisi sopra.

Curvo sul lettuccio, un giovane finiva di riporre dei medicamenti, voltando le spalle ai nuovi venuti.

Non appena si accorse della loro presenza, radunò in fretta la sua roba e sparì da una porticina sul fondo.

Demofonte non aveva un aspetto troppo simpatico: piccolo e grassoccio, si accarezzava continuamente la barbetta corta e ricciuta, forse persuaso che il gesto gli desse un’aria di saggia autorità.

Squadrò dall’alto in basso i due pazienti, valutando con un’occhiata i loro abiti modesti e l’atteggiamento dimesso dei due: da tutto il suo viso trapelava la convinzione che avessero sbagliato indirizzo.

- Cosa desiderate, buona gente? – domandò senza soverchio interesse. – Ah, sei tu, cara, ti manda Oppia? – aggiunse poi, riconoscendo la prostituta.

- Sono qui per questo mio amico: sua moglie è nei guai e gli ho consigliato di rivolgersi a te.

- Veramente io ho una clientela fissa. ma se conosce Oppia vedrò cosa posso fare.

Dov’è la donna?

- Non è voluta venire, ha mandato me.

E“ molto timida e voleva che prima mi informassi. aspetta un altro figlio e proprio non ce lo possiamo permettere. – dichiarò Aurelio a bassa voce.

- Ah, ma quanto è ignorante la plebe! Adesso, venite da Demofonte, adesso! Non sapete che basta un buon pessario per impedire la concezione? Oppure un po’“di vino di Cerinia, come Teofrasto consigliava già tre secoli or sono? Ma, già, i romani sono così stupidi! Aurelio deglutì” a fatica, imponendosi di mantenere la calma.

- Hai ragione, illustre sapiente, siamo stati stupidi. ma adesso cosa si può fare?

- Dipende, giovanotto, dipende.

Ci sono molti modi per interrompere una gravidanza.

Potrei far prendere a tua moglie una pastiglia di draconzio, oppure provare con una buona dose di aloe.

Anche le frizioni di succo di ciclamino fanno effetto, se accompagnate da opportuni esercizi fisici.

Naturalmente, tutti questi metodi non garantiscono l’espulsione del feto.

Il sistema più“ sicuro è senz’altro l’intervento.

- L’intervento? – fece eco Aurelio fingendosi spaventato.

- Sì, sì.

Cosa credi? Pratichiamo la chirurgia da secoli, noi greci, non come voi, che ne avete appreso i rudimenti sui campi di battaglia, cercando di rappezzare i legionari!

- In cosa consiste l’operazione?

Demofonte, spazientito, trasse da una scatola di strumenti un lungo ago di bronzo.

- Questo è l’embriosfacte, l’uccisore di embrioni.

Si introduce nell’utero della donna e si trafigge il feto.

L’intervento è doloroso, ma si possono alleviare le sofferenze con un anestetico.

Pagato a parte, naturalmente!

- E quanto verrebbe a costare? – domandò Aurelio timidamente.

- Cinquecento sesterzi, più“ o meno, – ribattè l’altro indifferente.

- Ma è quanto guadagno in sei mesi di lavoro! – protestò il patrizio che si era ormai immedesimato nella parte.

- Allora rivolgiti a una saga, non a un medico! – lo liquidò Demofonte con disprezzo.

- Io servo una clientela scelta, non gli straccioni.

La strada qui davanti è piena di mammane, a cui non manca certo il lavoro, con tutti i bordelli dei dintorni.

Se non avevi un asse, potevi dirlo prima! – concluse acido, suonando il campanello per richiamare l’assistente.

Sospinti fuori in fretta dall’infermiere, i due si ritrovarono sotto il portico.

- Adesso ci mettiamo a cercare le mammane! – annunciò Aurelio furioso.

In quella il portinaio, che si era affacciato sull’uscio per chiamare un altro cliente, gli fece un segno.

- Ascolta, conosco io un posto. Potresti andare lì!

- Davvero?

- Se il padrone lo sapesse, mi leverebbe la pelle. – tergiversò lo schiavo guardando significativamente la borsa di Aurelio: evidentemente la mancia data a Probo non gli era sfuggita.

Qualche moneta cambiò rapidamente di mano.

- Vicolo Capitis Africae, a due passi dalla Porta.

Una casa bassa, di mattoni- mormorò scomparendo rapidamente all’interno.

Aurelio, piuttosto risentito per il trattamento umiliante che avevasubito, stava per avviarsi quando vide Probo fargli larghi saluti dall’altra parte della strada.

- L’ho trovato, signore! Parecchi, qui, conoscono il nome del proprietario dell’edificio!

Il patrizio sospirò soddisfatto.

Almeno la passeggiata non sarebbe stata del tutto inutile.

- Sentiamo, ti ascolto! – invitò consegnandogli il compenso promesso.

- Tutta l’insula appartiene a un senatore.

Al solito, pensò Aurelio, figurarsi se un disgraziato simile non sedeva in Curia!

- Si tratta di un certo Stazio – annunciò il vecchio trionfante – Publio Aurelio Stazio!

 

Sdraiato sul lettuccio, con le reni coperte solo da un breve perizoma, Aurelio si abbandonava alle abili mani di Nefer, la massaggiatrice egizia che aveva pagato una fortuna.

L’umore del patrizio non era dei migliori e il povero Paride, come al solito, ne aveva fatto le spese: il liberto, amministratore metodico e oculato, si era sentito accusare di tentata strage nella persona degli abitanti dell’insula pericolante.

Aveva avuto un bel giustificarsi, mostrando i conti inequivocabilmente in attivo: si era preso dello speculatore, del disonesto e dell’infanticida.

Con le lacrime agli occhi l’intendente aveva dovuto ritirarsi mormorando qualcosa su certa gente che scambiava gli interessi privati per beneficenza pubblica.

Un po’“rabbonito dalle carezze di Nefer, Aurelio aveva cominciato a riflettere.

Dove avrebbe potuto trovare la piccola Dinah i cinquecento sesterzi necessari per l’intervento? D’accordo: aveva in mano praticamente tutta l’amministrazione familiare ma la cifra richiesta non era una bazzecola che si potesse racimolare facendo la cresta sulla spesa.

Forse era stata indirizzata anche lei da qualche praticona.

Il patrizio tremava al pensiero.

Quello che aveva visto, il giorno prima, visitando, guidato da Probo, le sagae del quartiere, era ben poco rassicurante: amuleti di ogni tipo, falli eretti, lampade magiche, ciondoli a forma di vagina e di feto, erbe magiche garantite come infallibili, il tutto in una cornice di sporcizia e di degradazione.

Nessuna delle mammane aveva ammesso di conoscere Dinah, ma della loro parola non c’era da fidarsi: avrebbero giurato la stessa cosa anche se si fosse trattato della loro figlia.

Così Aurelio si ritrovava esattamente al punto di prima, col nome del seduttore pronto per essere riferito a Mordechai e la profonda convinzione che farlo non sarebbe stato un atto di giustizia.

Eppure aveva promesso.

No, prima doveva parlare col ragazzo, capire perché Dinah ave va scelto la strada che l’avrebbe portata alla morte.

- L’hanno ammazzata. – Il ricordo dei vaneggiamenti di Shula tornava a galla, di tanto in tanto, ed era sempre più“ difficile respingerlo nei recessi della memoria.

L’affermazione di una folle, di un’avvinazzata. ma in vino veritas.

Dinah voleva fuggire: che qualcuno l’avesse fermata?

Trovare l’autore materiale dell’aborto gli avrebbe chiarito molte cose.

Si rammentò l’indirizzo che gli aveva fornito il servo di Demofonte.

Non c’era nemmeno andato, ormai deluso dall’inutilità delle sue ricerche.

Tuttavia, avrebbe provato anche lì, per scrupolo e poi basta.

Era come cercare un ago in un pagliaio: decine di delitti rimanevano insoluti nell’immensa metropoli e nessuno se ne curava.

E lui se ne andava in giro per ambulatori, in cerca di una praticona o un medico abortista.

Comunque, dare un’occhiata anche là non poteva far male.

Ma stavolta non intendeva sottoporsi a una trafila umiliante: aveva una carica da magistrato, dopotutto, ed era ora che qualcuno se ne accorgesse.

Comandata una veste elegante e un paio di anelli vistosi, chiamò i portatori e si avviò in lettiga.

La piazzetta di Porta Caelimontana era ormai familiare ai nubiani che sorpassarono in fretta l’arco di Dolabella e imboccarono il vicolo Capitis Africae con insolita rapidità.

Il patrizio si fece condurre fin davanti alla casa per non rinunciare all’effetto.

Intendeva far valere la sua posizione per ottenere un trattamento più“ rispettoso dal nuovo cerusico, certo un altro greco arrogante come tutti gli imbroglioni a cui l’impero magnanimo aveva concesso la cittadinanza romana.

La casa era modesta, a soli tre piani, una rarità a quei tempi, e ostentava davanti alla taberna medica l’insegna di Igea, la dea della salute.

La piccola porta dava su un ambiente vasto e arioso, intonacato di fresco: tutt’attorno alle pareti correva un sedile di legno grezzo, sul quale, pigiate strettamente, parecchie donne in stato di avanzata gravidanza attendevano il loro turno.

In terra, alcuni seduti, molti addirittura sdraiati, altri pazienti aspettavano la visita.

Aurelio puntò deciso alla porta di abete bianco che immetteva nel vero e proprio ambulatorio e bussò con insistenza.

Dopo qualche istante apparve un giovane dai capelli chiari e dall’aria seriosa, che lo fissò interrogativamente.

- Ho bisogno di parlare col medico- annunciò Aurelio, senza preamboli.

L’assistente, imbarazzato, additò la folla di malati che lo precedeva.

- Sì, ho visto, ma sono un magistrato romano e sto conducendo un’indagine.

Non ho tempo da perdere.

Chiama il tuo padrone.

Il giovane, allarmato, scomparve rapidamente nella stanza attigua e riemerse subito dopo scuotendo la testa con rammarico: – Mi dispiace, senatore, ha detto che devi aspettare.

- Scherzi? Ho bisogno di vederlo adesso, mandalo qui, parlerò“ con lui.

Rassegnato, l’infermiere obbedì.

Passarono pochi minuti, un tempo che al patrizio spazientito parve interminabile, poi una popolana grossissima, evidentemente prossima al parto, uscì dalla porticina tirandosi dietro tre marmocchi in tenera età.

La seguiva una donna alta, dal viso regolare e levigato, coi capelli ramati raccolti in una semplice crocchia.

- Sei tu il magistrato?

- Sono Publio Aurelio Stazio, senatore di Roma.

- E io sono Mnesarete di Pergamo, il medico.

Apelle non ti ha detto che sono occupata?

Dalla figura dritta e slanciata la dottoressa emanava una serena autorità.

Un po’“stupito Aurelio la osservò meglio: sapeva che a Roma alcune donne esercitavano la medicina, ma, naturalmente, si era aspettato un uomo.

- Ho urgenza di parlarti.

- E i miei pazienti hanno urgenza di essere visitati! – ribattè la donna.

- Ma io sono….

- La Curia può aspettare, la malattia no! Mettiti in coda come tutti gli altri- ordinò lei in tono perentorio.

Aurelio non fece in tempo a replicare: Mnesarete era già scomparsa seguita da un poveraccio che si trascinava malamente su una gamba infetta.

Il patrizio si guardò attorno con disappunto: la folla di clienti era tale che non se la sarebbe cavata prima di sera.

Sbuffando, decise che valeva la pena di portar pazienza: in passato aveva trascorso interi pomeriggi ad aspettare i comodi di qualche matrona capricciosa; forse mezza giornata per interrogare quello strano personaggio non sarebbe stata del tutto sprecata.

Mnesarete: “colei che aspira alla virtù”, riflettè.

Che nome ridicolo! Eppure, a lei assurdamente stava bene.

Si sedette con un sospiro e si preparò ad affrontare un lungo in terludio di noia.

Nulla come l’attesa davanti a un ambulatorio suscita la loquacità della gente: in due ore Aurelio aveva collezionato la storia di almeno dieci parti travagliati ed era divenuto un esperto in fatto di malattie infantili.

Per giunta aveva raccolto parecchi commenti malevoli sull’esosità di Demofonte, conosciuto in quartiere come un ladro matricolato.

A proposito di Mnesarete, invece, i pazienti erano unanimi: la donna aveva fama di ottimo medico e, particolare non trascurabile, praticava tariffe alla portata di tutte le borse.

Alcuni la pagavano con qualche asse, e ad altri, più“ abbienti, chiedeva un compenso maggiore.

Una serva si era presentata con due anatre ancora vive e un mendicante aveva ottenuto la visita gratis.

Sembrava che la parcella dipendesse più“ dalle possibilità” del cliente che dalla complessità delle cure.

Davanti a questo insolito comportamento la curiosità del patrizio, che conservava, dietro la sua apparente superficialità, un alto senso di giustizia, si accrebbe ancora.

Quando l’ultimo cliente uscì chiudendosi la porta alle spalle, la dottoressa finalmente riapparve, meravigliandosi di trovarlo ancora la.

Lentamente si slacciò il grembiule, mentre raccomandava ad Apelle di lavare e riporre gli strumenti.

Il viso luminoso appariva tirato e stanco per la lunga giornata di lavoro.

- Ti ringrazio di avere aspettato, senatore: adesso posso rispondere alle tue domande, senza che nessuno ci interrompa.

Aurelio ne seguiva i gesti sicuri, aggraziati e ne osservava le mani morbide, dalle dita sottili, capaci di lenire le sofferenze.

Si accorse improvvisamente che la donna era bella nonostante la leggera rete di rughe che le circondava gli occhi.

Bella come mai gli era parsa nessuna delle matrone che si lavavano nel latte d’asina e passavano ore ad adornarsi.

- Ho fame, senatore: è tutto il giorno che lavoro.

Non verresti con me a comprare qualcosa di caldo?

Prima di uscire Mnesarete si riassestò le vesti e si accomodò i capelli nella crocchia ormai sfatta con un gesto tutto femminile. Nell’istante in cui s’incontrarono sulla soglia il braccio della donna lo sfiorò leggermente e il patrizio, che in vita sua aveva messo le mani addosso con disinvoltura ad aristocratiche e plebee, nobili e schiave, esitò a toccarla.

Fu lei a prendergli la mano.

 

- Sì, ricordo una ragazza ebrea che risponde alla tua descrizione.

Aurelio e Mnesarete erano seduti al tavolo della sala d’aspetto, dove le briciole di alcune focacce al rosmarino e un calice vuoto testimoniavano una semplice, ma calda ospitalità“.

L’altro bicchiere, invece, era colmo di acqua di fonte: col vino si sa sempre come si comincia, mai come si finisce, si era scusata Mnesarete, e un chirurgo ha bisogno di mani ferme.

- Venne circa un mese fa, non so dirti di preciso il giorno.

Era già passata da un mio collega, ma non aveva osato entrare, perché l’assistente l’aveva trattata come una ragazza da bordello.

- Hai idea di chi l’abbia mandata da te? – domandò Aurelio pensando al poco fidato portiere di Demofonte.

- Può esser stato chiunque: nella zona sono abbastanza conosciuta- ribattè lei con malcelato orgoglio. – Avrebbe dovuto tornare per abortire.

Aspetta, posso dirti il giorno preciso che avevo fissato per l’intervento- soggiunse consultando alcuni appunti.

- Ecco, era per il quarto giorno prima delle Calende di Settembre.

Ma non si è presentata: avrà“ deciso di tenersi il bambino.

- Purtroppo le cose non sono andate così- rispose Aurelio, e in breve, le raccontò la triste vicenda.

- Ma è assurdo! – esclamò Mnesarete. – Nessun medico decente sbaglierebbe un intervento del genere! Persino Apelle saprebbe farlo! Il patrizio aprì le braccia in un gesto rassegnato.

- E pensare che avrebbe potuto rivolgersi a me!

- Si sarà“ vergognata. – obiettò l’uomo.

- Ma io cerco sempre di mettere a loro agio le donne che hanno certi problemi.

Sono una donna anch’io e so che interrompere una gravidanza, per quanto indesiderata, significa sempre pagare un prezzo altissimo.

Spesso poverine desiderano esser madri e rinunciano solo perché le circostanze non lo consentono.

- Nel caso di Dinah, le circostanze erano particolarmente sfavorevoli.

L’uomo era un romano.

- Proprio per questo avrebbe fatto bene ad abortire! Meglio così, piuttosto che esporre il bambino in un letamaio e lasciarlo a morire lentamente.

- Non ho mai sentito un medico parlare in questo modo: per te i clienti sono uomini e donne veri, non casi clinici.

Mnesarete sorrise e scosse la testa.

- Devo stare attenta: non è bene lasciarsi coinvolgere troppo.

Credi che sia piacevole aiutare una donna ad abortire o un uomo a darsi la morte? Sarebbe tanto più“ piacevole far nascere i bambini e guarire gli ammalati! Ma talvolta è necessario, come è necessario asportare un tumore, incidere una ferita.

Quando spingo il coltello nella carne non devo fermarmi a pensare che la persona cui sto facendo male è un essere umano come me: potrei esitare, e fare un danno irreparabile.

Devo incidere la pelle come se fosse la buccia di un frutto, con la stessa precisione.

La dottoressa si alzò e prese da un cassetto un cofano di legno.

Lo aprì con gesti quasi religiosi e srotolò, dalle pezzuole che li avvolgevano, alcuni strumenti di raffinata fattura.

- Guarda, – disse sfiorando il braccio del senatore con una lama affilatissima. – E“ un’arma più” potente del gladio e della sica: con questo un bambino può uccidere un legionario.

E proseguì, appoggiandogli il bisturi sul collo. – Basterebbe una piccola pressione qui e in pochi istanti tutto sarebbe finito.

Involontariamente Aurelio ebbe un brivido.

- Noi abbiamo il potere di dare la vita o la morte: dipende dalla nostra abilità e dalla nostra freddezza.

A volte occorre amputare una gamba, perché il paziente sopravviva, a volte è necessario sopprimere il feto, perché la madre possa avere un’esistenza decente.

E per i figli non nati, credimi, è meglio così.

Aurelio osservò ancora quelle mani fragili, che sapevano uccidere e guarire e saggiò il bisturi con la punta di un dito: era tagliente e infido.

Si guardò intorno: mille presenze minacciose incombevano su di lui, i vasi istoriati, gli strumenti aguzzi e la grande sedia gestatoria. muta testimone delle urla delle partorienti.

Quell’ambiente estraneo, ostile, greve di odori sconosciuti, lo respingeva e lo affascinava al tempo stesso.

La greca parve accorgersi del suo disagio e le labbra le si incresparono in un impercettibile sorriso di sufficienza.

- Osserva, – incalzò, aprendo del tutto il cofano. – Con questa si allargano i genitali femminili, per poterli esaminare, – spiegò porgendogli uno speculum. – La canna invece serve a insufflare nella vagina i medicamenti, mentre con ventose, applicate sui seni, aspiriamo fino a provocare i mestrui.

- E questo cos’è? – domandò Aurelio, attratto suo malgrado da quell’armamentario.

Aveva preso in mano uno strano cucchiaio. col manico che terminava in una spatola ricurva.

- Col lato concavo s’introducono gli unguenti nell’utero, l’altro serve a ripulirlo, dopo una cura.

- O dopo un aborto- terminò il patrizio per lei.

E traendo dal la custodia un lungo ago di bronzo- l’embriosfacte? – domandò con vago ribrezzo.

- Esatto, senatore.

Non è facile trovare un magistrato romano che s’intenda di ginecologia!

Aurelio le raccontò la visita al suo concorrente.

- Ah, Demofonte, non si smentisce mai! E“ avido come un’arpia ma dicono che non sia un cattivo medico.

- Lo conosci bene?

- Non tanto: qualche volta gli ho soffiato dei clienti, ma quelli che lui non gradisce, perché sono di borsa leggera.

Trova più“ comodo rimettere a nuovo le sgualdrine, che occuparsi dei casi difficili.

- L’ho notato.

- Ma anche lui, ha il suo ruolo: contribuisce a mantenere sani e pimpanti i facoltosi frequentatori del bordello di Oppia.

Vedi, quando una ragazza è infetta, la buttano fuori subito.

Qualcuna è venuta a curarsi da me, dopo che Demofonte le aveva fatto perdere il posto.

- Ma tu come riesci a farcela, con tutti i poveri diavoli che ti pagano a polli e insalata? – Ho anche clienti ricchi, senatore: sono loro che mi permettono di tenere aperto l’ambulatorio e di comprare dei ferri come questi.

Hai idea di quanto costino?

- Ma passi le tue giornate tra i mendicanti e i pezzenti!

- Non credere che lo faccia per puro buon cuore: la malattia non conosce classi sociali, caro magistrato, e io imparo di più“ in un giorno qui in questo buco, che tutti i Demofonti di Roma nei palazzi delle matrone isteriche.

- Tra un po’“mi ripeterai, come il tuo esimio collega, che ci vogliono i campi di battaglia, per imparare la medicina.

- Se è per questo, voi romani vi siete dati veramente da fare, negli ultimi secoli, per permetterci di studiare!

Il patrizio si risentì: nemmeno Mnesarete dunque, sfuggiva all’arroganza degli Elleni, convinti di essere gli unici uomini civili in un mondo di barbari ignoranti: Aurelio lo sapeva bene dopo anni con un Castore al fianco.

- E avete insegnato tutto, vero, a noi poveri soldatacci illetterati, buoni solo a sgozzarci in battaglia! – sbottò piccato.

- Io non l’ho detto.

Ma che sarebbe di Roma senza l’amplesso fecondatore dell’Ellade? – replicò lei ironica.

- Sarebbe soltanto la padrona del mondo- la rimbeccò pronto il patrizio deciso a non lasciarsi sopraffare.

Mnesarete rise. – E“ vero: noi, con tutto il nostro sapere, non abbiamo nemmeno conservato la libertà, e ora siamo vostri sudditiammise con un’ombra di tristezza. – Ma tu sei diverso, senatore: mi piaci perché sai incassare.

Qualche ora fa, quando ti ho costretto ad aspettare, immaginavo che te ne saresti andato furente, magari per tornare con le guardie.

Invece ti sei seduto a fare la coda in mezzo alle ortolane e agli spazzini.

- Ah, non attribuirmi doti di umiltà e di pazienza, Mnesarete: ti avverto che ne sono gravemente sprovvisto! Come ogni patrizio romano di nobili origini.

- Allora perché hai aspettato?

- Ho deciso che ne sarebbe valsa la pena quando ti ho visto.

- Lascia correre, senatore! – lo interruppe la greca- queste belle frasi riservale alle matrone smorfiose! Ci vuol altro che un paio di paroline mielate per conquistarmi!

- Dovevo anche chiederti delle informazioni… – si giustificò Aurelio, furioso con se stesso per l’attrazione che provava verso quella creatura indisponente.

Vacci piano, si diceva: questa non si lascia comprare da un regalo, o da un bel discorso: è dura come il sasso.

Tranquillizzala, Aurelio, non lasciare che diffidi di te…

- Dimmi, pensi che Dinah si sia procurata da sola l’aborto?

- Forse non proprio da sola. in ogni caso dev’essersi rivolta a un incompetente: una saga, forse, una di quelle vecchie maghe puzzolenti che spacciano porcherie come medicinali miracolosi. oppure a un’amica, a una serva.

L’immagine di Shula comparve davanti agli occhi di Aurelio, la vecchia Shula con quell’osceno ago di bronzo tra le dita malferme per l’idromele.

La scacciò dalla mente: non poteva pensarci in quel momento.

Più tardi sarebbe tornato nel ghetto e avrebbe interrogato di nuovo la vecchia.

Ma non ora.

E se la greca avesse mentito? Se fosse stata proprio lei a compiere la disgraziata operazione? Certo non l’avrebbe ammesso.

Come aprire uno spiraglio nella sua corazza ferrigna? Il patrizio non aveva intenzione di lasciarsi liquidare così. era necessario andare più“ a fondo, rivederla.

Trovata una buona scusa per il suo desiderio inconfessato, Aurelio partì all’attacco.

- Desidero ricambiare la tua ospitalità“ gentile, dottoressa.

Verresti a cena da me? – le domandò con finta indifferenza.

- Intendi invitarmi a un’orgia in piena regola, di quelle che si tengono nelle grandi domus patrizie, senatore? Con tanto di danzatrici conturbanti e di pietanze afrodisiache?

- Ometterò la musica e i balli, se non ti piacciono.

Quanto ai cibi afrodisiaci…. temo che il mio cuoco non ne conosca altri.

- Ah, uova di gabbiano, ostriche, aragoste e un mucchio di santoreggia, suppongo!

E pensare che basterebbe del semplice sedano!

- Sedano? Dici davvero? Chi l’avrebbe mai pensato! Ho proprio bisogno dei consigli di un medico: sono disposto a pagarti la parcella!

- Attenzione, senatore. Per uno come te il conto potrebbe essere particolarmente salato, – lo mise in guardia la greca.

- Allora verrai? – domandò di nuovo Aurelio, non senza una briciola di apprensione.

- Certo, perché no? – sorrise lei accompagnandolo alla porta.

Sulla soglia Aurelio esitò.

Non voleva andarsene in quel modo, con la vaga sensazione di essere stato trattato come uno studentello impertinente.

La sicurezza di Mnesarete lo irritava enormemente, ma suo malgrado lo attirava.

Voltandosi verso la donna, la tirò a sé delicatamente, e le passò il braccio dietro alla nuca, baciandola con studiata lentezza, senza capire se stesse soddisfacendo un desiderio o semplicemente affermando un principio.

Poi si sottrasse alla penombra inquietantedell’ambulatorio e uscì nella luce della strada.

Emerse nel vicolo con la testa leggera e un vago senso di euforìa.

Avviandosi verso la portantina si sorprese a canticchiare.

Una grassa popolana, con le braccia cariche di ceste, lo guardò stupita quando, distratto, le passò accanto senza vederla e rischiando d’investirla.

Aurelio, imbarazzato, si ricompose immediatamente in tutta la sua dignità, assumendo la tipica espressione seriosa che gli era tanto difficile mantenere a lungo persino in senato, durante i discorsi dei colleghi.

La corpulenta plebea, che aveva già aperto la bocca per inveire, la richiuse prontamente, sopraffatta dalla gravità del suo atteggiamento di magistrato.