17.

Vigilia delle Calende di Ottobre.

- Abbiamo frugato dappertutto, domine! – si difese Castore che Aurelio aveva accusato di battere la fiacca.

Da tre giorni i servi della casa erano mobilitati in massa, insieme ai molti amici poco raccomandabili che il greco contava nei bassifondi della città.

- Nessuno l’ha visto! – sospirò Pomponia che aveva sguinzagliato la sua capillare rete di spionaggio mondano: cameriere, pettinatrici, acconciatori per trovare Rubellio.

- Non è facile rintracciare una persona in una metropoli di un milione e passa di abitanti- affermò convinto Servilio- soprattutto se desidera nascondersi! Il ragazzo non era tornato né alla casa paterna, né al bordello di Oppia e per giunta anche il suo mortale nemico Eleazar sembrava scomparso nel nulla.

Castore, tuttavia, non giudicava inutili quei tre giorni di vane ricerche: il padrone, coinvolto nelle indagini, aveva trascurato parecchio la sua preziosa Mnesarete.

Proprio mirando a questo effetto collaterale la servitù, abilmente manovrata dal liberto, si era prodigata con tanta abnegazione.

Insomma Castore poteva ritenersi abbastanza soddisfatto e quel la sera manifestò il suo ottimo umore rivolgendosi in tono rispettoso, quasi di simpatia, all’ex rivale Paride, ora alleato nella congiuracontro le tentazioni sentimentali del padrone.

Per parte sua l’amministratore gli rispose così garbatamente da far sospettare che nutrisse nei suoi confronti una impercettibile sfumatura d’affetto.

Per soprammercato, a consolazione degli stanchi inquisitori, quella sera il cuoco Ortensio si era prodigato in manicaretti speciali, escludendo drasticamente le erbette crude e i cibi troppo sani.

Con enorme gioia del maestro di cucina, Aurelio aveva mangiato di gusto senza protestare per i possibili danni al fegato.

Castore fischiettava con cauto ottimismo, sentendosi sulla buona strada.

Era addirittura riuscito a ottenere che alla cena presenziasse, in veste di citareda, la negletta Polissena, accuratamente avvolta in veli conturbanti.

Prodigandosi perché le grazie della donzella apparissero sempre nella luce migliore agli occhi distratti di Aurelio, il greco si teneva pronto a eclissarsi al minimo segno d’interesse del padrone.

Persino Servilio, pur fedelissimo alla sua Pomponia, non mancava di seguire con la coda dell’occhio, apprezzandole vivamente, le mosse aggraziate con cui la meretrice, istruita dal poliedrico greco, cercava di attirare l’attenzione del suo signore.

Sembrava che il sogno segreto della piccola prostituta avesse qualche pallida possibilità“ di realizzarsi, dopo la bufera provocata dalla repentina comparsa di Mnesarete.

Ma proprio allora Fabello, strappato brutalmente al suo riposo, comparve sbadigliando.

- Stanno bussando alla porta. Devo aprire? – L’ora piuttosto tarda giustificava la perplessità del portiere.

A un cenno affermativo di Aurelio, Fabello attraversò le fauces e, seguito a ruota da Castore, socchiuse il pesante portone.

Per un attimo il povero ianuarius sgranò gli occhi, pensando di stare ancora dormendo: da dove se non dal mondo dei sogni poteva uscire quell’evanescente figura azzurra dal sesso problematico? L’ermafrodito si precipitò dentro chiedendo concitatamente del padrone di casa.

- Echione, che buon vento ti porta? – domandò Polissena, lieta di rivedere il vecchio collega di lupanare.

Senza badarle, l’adolescente si slanciò su Aurelio e l’afferrò per la tunica.

- Calma, calma- ammonì il patrizio, cercando di tenere quel le mani azzurre lontano dalla sua veste immacolata.

- Mi manda Flavio, dalla casa di Oppia. vieni subito, senatore.

Ha trovato Rubellio! Senza ascoltare il seguito della spiegazione, il patrizio partì di corsa, mobilitando i nubiani.

- E“ ferito gravemente, l’hanno accoltellato per la strada e Flavio non riesce a trovare Demofonte! Aurelio spronò i portatori, rimpiangendo di non tenere cavalcature nella sua casa di città: per quanto rapidi i suoi lettighieri non potevano raggiungere la velocità di un buon puledro.

Ma col traffico di Roma, usare un cavallo per le vie del centro, sia pure nelle ore notturne, gli era sempre sembrato rischioso, oltre che fuori luogo.

L’indomani, avrebbe trasformato una parte del magazzino in una scuderia, si ripromise, mentre cercava di farsi spiegare la situazione dall’agitatissimo efebo.

Purtroppo l’unica cosa che riuscì ad appurare tra i discorsi confusi di Echione, fu che Oppia era fuori di sé perché le avevano messo sottosopra il locale e in quel bailamme rischiava di perdere la sua scelta clientela.

Finalmente, preceduti dai battitori che si facevano strada a gomitate, i nubiani raggiunsero la porta Caelimontana: l’attentato era avvenuto là, nella piazza, e Flavio non aveva trovato di meglio che portare a braccia il ferito nella casa di piacere.

- Cosa credete che sia, questo, un ospedale? Gestisco un onesto bordello, io, non una caserma di gladiatori! – strepitò Oppia furibonda al loro ingresso. – Chi mi risarcirà il danno? I miei clienti stanno andandosene.

Vengono a cercare una ragazza allegra e trovano un tizio sbudellato sul tavolo dell’ingresso! Roba da farmi togliere la licenza, con tutte le tasse che pago!

Aurelio la spinse in là e corse verso il tavolo dove giaceva il giovane privo di sensi.

La prima impressione fu confortante: lo squarcio si apriva sulla spalla e, con un po’“di fortuna, poteva non aver perforato il polmone.

Gli avventori schiamazzanti si accalcavano attorno al ferito, chi turbato, chi incuriosito dalla novità: qualcuno aveva cercato di disinfettare il taglio versandoci sopra del vino.

Aurelio non perse tempo e ordinò che Rubellio venisse trasportato con tutte le precauzioni sulla sua lettiga.

Con un lungo sospiro, gli esausti africani si misero di nuovo in piedi.

Poco dopo il senatore e il suo seguito bussavano alla porta di legno in Vicolo Capitis Africae sormontata dall’insegna di Igea.

 

- E“ grave? – domandò il senatore a Mnesarete che stava esaminando attentamente la ferita.

- Non sembra: la lama è penetrata profondamente nel muscolo, ma credo che non abbia leso nessun organo vitale.

La donna impartì un breve ordine ad Apelle, che si allontanò.

Aurelio lo vide, con la coda dell’occhio, chinarsi sugli strumenti chirurgici e per un momento gli parve di aver già assistito a quella scena.

Mentre l’inserviente ritornava, reggendo con le pinze un grosso batuffolo di lana cardata, il patrizio lo studiò attentamente, senza riuscire a ricordare dove l’avesse già visto.

L’infermiere passò il fiocco di lana a Mnesarete che lo imbevve in un liquido bruno e con gesti sicuri cominciò a detergere la ferita.

- Acopo encrista! – ordinò poi.

Obbediente, Apelle trasse da una teca un cofanetto d’avorio diviso all’interno in scomparti uguali, che contenevano delle barrette solide di consistenza e colori diversi.

Aurelio l’osservò sceglierne una e avvicinarsi al fornello per scioglierla al calore della fiamma.

Ogni barretta portava inciso il nome del preparato e la sigla del medico.

Ammorbidito l’impasto, l’assistente si lavò accuratamente le mani e prese posto vicino a Mnesarete davanti al lettuccio dove giaceva il ferito, ancora fuori conoscenza.

La dottoressa gli impartì alcune brevi istruzioni, poi si allontanò annunciando: – L’impiastro lo preparo io, Apelle.

Aurelio la seguì in fondo alla stanza.

- Ma come mai non si sveglia? – domandò preoccupato.

- Oltre alla ferita ha preso anche un colpo in testa, e molto energico.

Non ho nemmeno cercato di farlo rinvenire: è meglio che rimanga fuori conoscenza, durante la medicazione: gli risparmierà l’oppio! – spiegò Mnesarete, mescolando alcune sostanze in un mortaio.

- E quella specie di colla con cui lo sta spalmando Apelle? – E l’acopo, una mistura di grasso d’oca, midollo, cera, miele e resina, diluiti in olio di ricino.

Servirà a pulire più“ a fondo il taglio, che ho già disinfettato con l’aceto.

Aurelio aprì la bocca per domandare qualcos’altro ma una richiesta della donna lo prevenne.

- Devo pregarti di non stare così vicino al tavolo operatorio, Aurelio, e lo stesso vale per il tuo amico- disse additando Flavio, che, seguita di corsa la lettiga, era entrato nell’ambulatorio senza una parola e ora fissava come ipnotizzato il corpo privo di sensi dell’antico compagno di gozzoviglie. – Le ferite devono essere trattate solo da mani e strumenti pulitissimi- aggiunse in tono autorevole, mescolando una crema densa, di colore giallastro.

- Hai finito? – domandò poi all’assistente e, a un suo cenno affermativo, prese una spatola di legno e cominciò a ungere l’interno del muscolo lacerato.

- C’è qualcosa che non va in queste abrasioni. – mormorava, come parlando a se stessa- sono troppo secche e scure e non buttano abbastanza sangue! – Esaminò ancora attentamente i margini della ferita e poi, finito di spalmare, li chiuse con alcuni, rapidi punti di sutura.

Soltanto allora si occupò della testa, dove un ematoma, non molto grande, rivelava il punto d’impatto con un corpo contundente.

- Adesso aspettiamo che si svegli, – disse tranquilla togliendo si il grembiule.

- Nel frattempo, tu ci spiegherai cos’è successo, – ordinò Aurelio a Flavio. – E cerca di essere convincente!

- Stavo andando da Oppia quando mi è parso di scorgere Rubellio da lontano.

Non credo che mi avesse visto: camminava a testa bassa, come se non volesse farsi riconoscere.

Mi sono fermato un attimo a guardarlo, perché non ero certo che fosse lui: la notte era scura e io ero sull’altro lato della piazza.

In quel momento un’ombra gli è piombata addosso, una cosa nera, indistinta.

Li ho visti lottare e ho cercato di raggiungerli: Rubellio, sai, non se la cava molto bene nel corpo a corpo.

- E tu, generosamente, ti sei esposto per salvarlo! – commentò Aurelio sarcastico.

- E“ caduto, mentre li raggiungevo. – continuò Flavio, senza raccogliere l’allusione alla sua ben nota codardia. – Quando l’assalitore mi ha visto, se l’è data a gambe.

Allora ho preso in braccio Rubellio e l’ho portato da Oppia, poi sono corso a cercare Demofonte, che abita poco lontano, ma non l’ho trovato in casa.

Intanto spedivo Echione da te, che mi avevi raccomandato di avvertirti…

Aurelio soppesò il racconto per capire fino a che punto fosse attendibile: non credeva affatto al coraggioso intervento di Flavio, ma era disposto ad ammettere che il giovinastro si era preso la briga di avvisarlo, probabilmente allarmato per i suoi sospetti sulla malattia del padre.

Tutto sommato, la sua versione dei fatti mutatis mutandis poteva persino rivelarsi vera.

Non aveva forse temuto che Eleazar trovasse Rubellio prima di lui?

- Hai riconosciuto l’uomo che l’ha assalito?

- No, ma, mentre scappava, ho notato che aveva i capelli molto lunghi, oppure qualcosa in testa, una specie di velo. non il solito cappuccio, e nemmeno un cappello.

Il copricapo ebraico, pensò il patrizio.

Mosso dall’aria, nell’impeto della corsa, poteva sembrare una capigliatura sciolta.

Non appena Rubellio si fosse svegliato avrebbe confermato l’accusa e per Eleazar non ci sarebbe stato più“ scampo.

Ai giudei che attentavano alla vita di un cittadino romano era riservata la croce.

Così, questo era il frutto delle sue esitazioni: incapace di decidere se difendere l’uomo che aveva subito il torto o il ragazzo che, senza volerlo, gliel’aveva fatto, Aurelio non aveva preso in mano la situazione e li aveva rovinati entrambi.

Ma per Rubellio, c’era ancora speranza.

In quel momento dal lettino sul quale giaceva il giovane venne un rumore sommesso. si sveglia! – pensò il patrizio emozionato, avvicinandosi.

Il ragazzo aveva ancora gli occhi chiusi: Mnesarete gli sollevò la palpebra, scoprendo un globo bianchissimo dove la pupilla contratta era appena visibile, alta fra le ciglia appiccicose.

Il respiro del ferito, però, non gli parve regolare: qualcosa non andava; era evidente anche a un orecchio profano come il suo e, quando alzò lo sguardo, l’espressione preoccupata di Mnesarete confermò i suoi dubbi.

Rubellio non stava affatto migliorando: dalle sue labbra bluastre usciva un rantolo indistinto.

- Che cosa sta succedendo? – domandò il patrizio agitato alla dottoressa che, senza rispondergli, si affannava attorno al ferito cercandone il cuore.

Con l’orecchio appoggiato sul petto del ragazzo, e gli occhi chiusi nello sforzo di concentrarsi, Mnesarete sembrava una maschera di gesso.

Poi, di colpo, si rizzò cercando di dominare l’agitazione e cominciò a massaggiare il torace di Rubellio alternando gesti lenti a forti pressioni ritmiche.

Il rantolo aumentava di intensità, man mano che il giovane per deva le forze.

- Reggetelo! Apelle, vieni, corri! – gridò la dottoressa ai due uomini che fissavano allibiti la scena.

Rubellio ebbe un sussulto spasmodico nel tentativo di incamerare un po’“d’aria.

Aurelio lo prese saldamente per le spalle, incurante della medicazione, mentre l’infermiere cercava di adagiarlo sul tavolo operatorio.

Flavio li guardava inebetito, incapace di muovere un dito.

Mnesarete corse a prendere una fiala e la spezzò sotto le narici del paziente, ormai stremato.

Inutile: con un ultimo singhiozzo, lugubre come la voce stessa della morte, Rubellio si abbattè inerte sul lettuccio.

La dottoressa diede un lungo sospiro e chiuse gli occhi.

Apelle sollevò una palpebra del ferito sulla pupilla ormai invisibile, poi la richiuse con un gesto pietoso.

- E“ morto? – domandò Aurelio, conoscendo già la risposta.

La donna assentì, senza parlare.

- Ma com’è possibile? Hai detto che non era grave! Il senatore faticava a dominare la collera.

Mnesarete il chirurgo portentoso, la grande guaritrice.

Lei taceva, sconfitta una volta di più“ nell’eterna lotta del medico contro la morte.

E“ il destino di chi si vota alla guarigione dei suoi simili: sapere fin dall’inizio, che si possono vincere molte battaglie, ma, alla fine, sarà” sempre la grande nemica a prevalere.

- Dimmi qualcosa, spiegami! – gridò il patrizio esasperato, in tono d’accusa.

La donna prese fiato, cercando di dominare l’emozione che la faceva tremare.

- Aveva una ferita abbastanza superficiale, non mi sono sbagliata. E l’ho curata bene.

Anche il colpo in testa non era pericoloso.

- E allora?

- C’è un’unica spiegazione. già prima, mentre lo suturavo ho visto qualcosa di strano, una secchezza sospetta ai margini della ferita, un colore inconsueto.

Credo che sia stato colpito con un’arma intrisa di veleno.

Veleno! Aurelio si sentì agghiacciare.

Eleazar sarebbe arrivato a tanto? L’orgoglioso ebreo, adamantino nella sua onestà, avrebbe colpito con un’arma così subdola? Poteva vederlo sguainare la sica, per freddare l’uomo che gli aveva sedotto la sposa, ma non intingere la lama in un liquido mortale.

- Non c’è altra spiegazione: così poco sangue, la pupilla contratta, le labbra bluastre, lo spasmo finale. credimi: Rubellio è morto avvelenato!

Flavio avanzò di qualche passo, attonito.

Guardò il cadavere, poi Aurelio. Sembrava sconvolto. incredulo.

Chissà se stava davveroammazzando suo padre? E aveva visto davvero un attentatore o aveva inferto lui stesso il colpo mortale? Flavio, sì, era facile immaginarlo che uccideva in modo tanto vile.

Aurelio osservava il teppistello: pareva in preda al panico.

D’un tratto cominciò ad arretrare finché, giunto alla porta, si precipitò ciecamente in strada.

Aurelio si accostò a Mnesarete, che era rimasta a sedere con la testa tra le mani, affranta.

- Grazie- le mormorò- grazie per averci provato.

 

Depresso, Aurelio rientrò nella sua domus.

Si sentiva stanchissimo, e disperatamente inutile.

Il sonno tardava a dargli conforto, dopo una serata così densa di eventi, e già una pallida luce, nel riquadro di cielo visibile dal peristilio, annunciava l’alba non lontana.

Ma, decisamente, la notte per lui non era ancora finita.

Aveva a pena sentito il primo cinguettio dei passeri nell’orto quando, nel silenzio, gli parve che qualcuno battesse sommessamente alla porta.

Si alzò in fretta dal divano dove si era sdraiato ancora vestito e tese l’orecchio.

E sentì di nuovo i colpi all’uscio, insistenti e tuttavia non abbastanza forti da turbare il sonno di Fabello.

Cauto ma non impaurito, attraversò l’atrio rischiarato da un alto candelabro e socchiuse il portone.

Sulla soglia, incappucciato nello scialle ebraico, le spalle dritte e lo sguardo cupo, stava Eleazar.

La mano, posata sul petto, stringeva spasmodicamente una sica da combattimento.

Il primo impulso di Aurelio, alla vista della spada, fu di arretrare bruscamente: l’arma avvelenata doveva essere ancora fresca del sangue di Rubellio.

Ma qualcosa in lui l’orgoglio, o la collera glielo impedì: l’eredità di generazioni di eroici soldati, che affrontavano i gladi nemici senza battere ciglio, prevalse sull’elementare buon senso, e il senatore romano fronteggiò immobile il giudeo che, con lo scialle svolazzante intorno al capo, pareva l’Angelo della Morte di cui parlavano i suoi miti barbarici.

L’ebreo alzò la sica.

Poi, con un gesto lento, studiato, l’infilò nella cintura.

Aurelio gli additò il vestibolo e lo precedette nel buio senza voltarsi, consapevole che la minima esitazione avrebbe potuto costargli la vita.

Giunto nello studio, accese le due lanterne del soffitto e si sedette con calma.

La luce tremula illuminò il viso di pietra di Epicuro, che da una colonnata incombeva su un tavolo d’ebano: gli occhi dipinti della statua parvero per un attimo splendere di un bagliore spettrale.

Senza una parola, il giudeo estrasse nuovamente l’arma e la posò sul tavolo, spingendola verso Aurelio.

- Ti chiedo asilo – disse senza la minima intonazione supplichevole nella voce.

- Dopo aver ucciso l’amante della tua donna? – ribattè il patrizio sarcastico. – No, non ho nessuna voglia di nasconderti, giudeo.

Se avessi usato solo questa avrei capito subito- disse indicando la lama ricurva. – Ma il veleno è indegno di un vero uomo, quale tu pretendi essere.

- Romano, ascoltami prima di giudicare! L’ho colpito, è vero.

Gli facevo la posta da giorni, per ucciderlo.

Ha disonorato la mia sposa e ha distrutto la mia vita.

Sapevo che sarebbe venuto, prima o poi. e finalmente l’ho trovato.

Era solo.

Ho sguainato la sica e gli sono piombato addosso.

- Affondandogliela nel corpo. – concluse il patrizio.

- Sì, l’ho ferito: volevo battermi, ma quel vile non ha mosso un dito.

Aveva solo un coltellino, buono per tagliare il pane, e l’ha lasciato cadere immediatamente.

Gli ho urlato in faccia che l’avrei ammazzato e lui è piombato in ginocchio a braccia aperte come una donnicciola.

- E vorresti farmi credere che l’hai aspettato notte dopo notte per lasciarlo vivo, una volta trovato? – domandò Aurelio scettico. – In lontananza ho visto un uomo che arrivava di corsa.

Ho pensato: adesso lo finisco.

Ma lui stava lì, in ginocchio, e invocava Dinah.

- Allora hai preferito abbandonarlo, ancora vivo, certo che il veleno avrebbe compiuto l’opera!

- Io uccido con la spada, non col veleno!

- Invece io credo che tu abbia progettato tutto: sono convinto che fossi informato da un pezzo della relazione tra la tua fidanzata e Rubellio.

L’hai costretta ad abortire, perché portava nel ventre il figlio impuro di un goy! Poi hai avvelenato questa lama, per essere sicuro che non fallisse! L’ebreo ascoltava, senza abbassare gli occhi.

- E sai perché? – incalzò Aurelio- Perchè Rubellio non era solo l’adultero che ti aveva portato via Dinah, no.

Rubellio ai tuoi occhi era Roma: Roma con le sue legioni, i suoi procuratori corrotti che affamano il tuo popolo, coi soldati che calpestano il sacro suolo di Israele, profanano il Tempio e ne fanno un covo di idolatria, con le autorità che crocifiggono i tuoi fratelli e stuprano le tue sorelle.

La mano di Eleazar si contrasse, come cercando l’elsa della spada.

- Per te Rubellio era questo e molto di più“: era Caligola che installa la sua statua nel Sancta Sanctorum, Tiberio che deporta gli ebrei nelle paludi della Sardegna, Claudio che mette sul trono di Giudea un re fantoccio nelle cui vene scorre sangue idumeo.

- Pensa quello che vuoi, romano! Venire da te è stato un atto di debolezza, e me ne pento.

Rallegrati, magistrato, la sorte ti è propizia.

Un cittadino romano è stato ucciso e tu hai qui un giudeo, pronto per essere mandato sulla croce.

I due uomini si fissarono come belve prima dell’attacco.

- Sono nelle tue mani, senatore di Roma.

Ti ho consegnato la mia spada: doveva servire alla libertà del mio popolo, non a lavare l’onore di una puttana! Chiama il Prefetto dell’Urbe, mi sta cercando.

Che importa se non l’ho ucciso io, Rubellio? A chi interessa che paghi il vero assassino? Giustiziare un ebreo è tanto più comodo!

E' fanatico, pensava Aurelio.

Sono fanatici tutti quanti.

Hanno ottenuto di praticare i loro riti, sono stati esentati dal giurare sulla divinità dell’imperatore, hanno avuto da noi casa, lavoro, protezione.

Cosa vogliono ancora?

- Gli puntavo la sica al cuore.

Ma non si è difeso.

Chiamava Dinah, voleva morire come lei.

- Molto cortese, da parte tua, cercare di accontentarlo! – ironizzò Aurelio.

- Lo odiavo e lo odio ancora.

Come odio te, romano.

Che modo urbano di chiedermi asilo, meditò il patrizio.

- Perchè allora non l’hai finito?

- Perchè ho capito una cosa.

Aurelio aspettava, con un sorriso incredulo.

- Lui, quel bamboccio. non era neppure un uomo, solo un ragazzetto spaventato. – proseguì Eleazar a fatica- lui l’amava più“ di me- concluse come liberandosi di un peso che si era portato addosso per troppo tempo.

Aurelio si stupì: arrogante, pazzo, ma umano! Anche lui, dunque, aveva qualcosa nel cuore, oltre alla vendetta e alla libertà di Israele! Lo studiò perplesso: lo sguardo del fiero israelita non chiedeva comprensione né pietà.

Anzi.

Avrò sentito bene? si domandò il patrizio.

- Tu amavi il tuo Dio molto più“ di lei – constatò.

- Così com’è giusto – convenne l’ebreo.

Aurelio guardò la lanterna che fumigava sotto il naso di Epicuro. viene qui, mi offende, pensava, non fa mistero del fatto che vorrebbe vedermi morto, dichiara candidamente che, se dovesse salvarsi, prenderebbe le armi contro Roma. perché mai dovrei proteggerlo?

 

- Castore, sveglia! – Il greco, completamente nudo, russava sonoramente tra le lenzuola candide.

E nel groviglio dei lini si distingueva un ciuffetto di capelli biondi.

Polissena si tiene in esercizio, meditò Aurelio.

- Su, alzati, lazzarone! E tu vattene- ordinò alla ragazza. Ho un ospite da alloggiare qui.

Castore si rizzò a sedere con un gemito assonnato, mentre Polissena usciva sospirando dalla stanzetta.

- Un’ospite? Al posto della biondina? Bè, devo dire che non mi dispiace.

Quella figliola sta diventando troppo appiccicosa.

Com’è, carina? – E un maschio nerboruto nel fiore dell’età, svelto di mano e dal sonno lievissimo.

Manovra la spada come Ortensio i suoi spiedi.

Non ti consiglio di rivolgergli attenzioni galanti.

- Un maschio? Dovrei dividere il mio cubicolo con un omaccione peloso? – si scandalizzò Castore.

- Ma se voi greci ne avete fatto persino una filosofia! scherzò Aurelio, che conosceva la tetragona eterosessualità del liberto.

- Infatti è proprio per questo che ho lasciato la patria! – protestò Castore. – Mi dici per quale altra ragione avrei accettato di vivere in mezzo a voi barbari? Spero almeno che sappia giocare a dadi- sospirò, deciso a spillare almeno un po’“di quattrini all’ospite sgradito.

- Macchè: non gioca, non beve, non….

- Chi è questo noiosissimo campione di virtù?

- Eleazar, il fidanzato di Dinah.

- Vuoi dire quel Lazaarus che poco fa ha pugnalato Rubellio con una sica avvelenata? – vociferò Castore indignato. – Non potrò chiudere occhio, con un simile compagno di camera, avrei paura che nel buio mi trafiggesse con uno stilo intinto nel sangue di scorpione.

- Se dovesse accadere, pronuncerò per te il più“ bell’elogio funebre che questa città abbia mai udito! – ghignò il padrone. – E, bada bene: nessuno deve sapere che è qui! – - Ottimo: se non finirò infilzato, sarò” pronto per la tortura.

Quello è un ricercato! Mi arresteranno per aver dato rifugio a un assassino! Castore era veramente fuori di sé.

E, quando il giudeo apparve sulla soglia, si era ben raggomitolato nell’angolo più“ lontano del letto, fingendo di dormire per non doverlo accogliere.

E, per motivi prudenziali, stringeva tra le dita, sotto il guanciale, un tagliacarte dalla punta estremamente acuminata.

 

Nel modesto tablinio della casa di periferia faceva caldo.

Aurelio sedeva accanto a Decimo, con aria di circostanza.

A portarlo di nuovo nella strada dei vinai non era stato soltanto il penoso dovere di fare le condoglianze alla famiglia di Rubellio, ma anche il desiderio di vedere confermata un’altra, sconcertante notizia che l’abilissima Pomponia era riuscita a scovare, insinuando le sue spie nei più“ reconditi recessi del Palatino.

Decimo, però, non sembrava particolarmente lieto della visita.

- A quando il funerale? – s’informò Aurelio, che aveva provveduto perché il corpo del povero Rubellio venisse riconsegnato ai genitori per l’estremo omaggio.

- Non si fanno pubbliche onoranze a un giudeo- dichiarò il vecchio, arcigno.

- Ma Decimo, è tuo figlio!

- si era fatto circoncidere, aveva scelto.

Non era più“ un romano e non può più” riposare nella tomba dei miei avi.

- Decimo, il tuo ragazzo, è stato assassinato: come puoi parlare così? – Sei peggio di Fannia, Aurelio! Anche lei sta tutto il giorno a frignare! Rubellio ci aveva voltato le spalle, per correre dietro a quella sgualdrina: li amava tanto da convertirsi, i suoi ebrei.

Ci pensino loro, adesso, a seppellirlo: perché un funerale romano non l’avrà“.

Aurelio ebbe un moto di collera: era questa la gente che rendeva Roma odiosa ai popoli soggetti.

Per colpa dei Decimi intransigenti e razzisti le province si ribellavano e rifiutavano di pagare i tributi.

Roma era il mondo intero, con tutte le sue nazioni, e quell’imbecille non riusciva a capirlo! Trattenne la frase caustica che gli era venuta alle labbra e si dominò.

C’era qualcosa di importante da appurare.

- So per certo, Decimo, che, circa un mese fa, prima della morte della ragazza, Rubellio aveva chiesto un’udienza al Palatino.

- Davvero? Chissà che non volesse convertire Claudio! Ma già, quello sta bene in mezzo ai giudei, Erode è suo amico.

- L’udienza era stata chiesta a Messalina.

- Avrà voluto presentarle la sua bella: tra puttane ci si intende! – sibilò Decimo. – E ora, Aurelio, se vuoi scusarmi avrei da fare.

Non occorre che tu mi porga le tue condoglianze: quello che è morto non era mio figlio, era solo un ebreo! – Minchione ottuso, pensò il giovane, stupido xenofobo da due soldi! E adesso, che ne avrebbe fatto del corpo di Rubellio? Sulla soglia, Fannia, in lacrime, sfogò il suo dolore.

- Non c’è niente da fare, non vuole seppellirlo né farlo cremare! Dice che è un estraneo, un nemico!

- Ci penserò io, Fannia: sarà“ degnamente onorato- promise Aurelio, rivolgendo un pensiero a un uomo di buona volontà e di buon cuore che, al porto di Ostia, avrebbe vegliato il corpo del giovane recitando per lui il Kaddish dei defunti.

Sulla via del ritorno, l’amarezza lo travolse.

Principi, principi. Quando mai, invece che ai principi, la gente avrebbe cominciato a dar retta al buon senso? Quando rientrò in casa era di pessimo umore e la scena che lo aspettava non era destinata a migliorarlo.

Polissena, in lacrime, era in piena crisi di gelosia, e Castore la stava amorevolmente consolando.

- Quella greca è più“ puttana di me! – inveiva la ragazza prendendosela con Mnesarete.

- Ti dico che l’ho vista al casino! Con tutte le sue arie. – e giù lacrime.

- Levami questa donna dai piedi! – gridò Aurelio.

- Certo, certo, domine. – acconsentì il liberto con visibile disapprovazione, allontanando la ragazza. – Ma devi capirla, poverina. – L’ho comprata, no? L’ho tolta dal lupanare.

- Cosa vuole ancora? Mica sono obbligato ad andarci a letto!

Sono io il padrone.

- Certo, domine, ma…

- Vorrei che lo capiste tutti, una buona volta: il padrone sono io e voi gli schiavi! Non sono tenuto a fare quello che vi accomoda!

- Certo, domine, tu sei il nostro signore. ma proprio per questo hai degli obblighi nei nostri confronti.

Noi dipendiamo da te, ogni tuo desiderio è un ordine, ma….

- Fuori dai piedi anche tu! – strepitò Aurelio esasperato.

Anzi, no. Ho un’idea.

Hai detto che ogni mio desiderio è un ordine? Bene, ho un desiderio. vieni un po’“qui.

Castore vide addensarsi un temporale.

Ecco cosa succede a chi si espone per il bene comune.

A difendere gli altri si paga di persona.

Se fossi stato zitto…. pensava.

- Ho un compito da affidarti.

- Non ora, domine.

Non potrei assolverlo con la dovuta cura.

Ho dormito male stanotte, con un sicario nel letto e….

- Ti piace vestire elegante, vero Castore?

- Modestamente, un certo gusto ce l’ho, domine!

- Ti ho preparato qualcosa!

Ancora ignaro dell’infausta missione cui l’aveva destinato il suo signore, Castore si lasciò acconciare, contemplando con orgoglio il risultato allo specchio.

- Mi dona! – commentò infine compiaciuto e solo allora, quando lo vide perfettamente abbigliato, Aurelio gli spiegò in che cosa consisteva esattamente il suo compito.

Le parole e i gesti irripetibili con cui reagì il liberto furono tali da sconcertare non solo il pio Paride, ma anche Polissena, che credeva di aver imparato tutte le possibili oscenità al bordello.

Aurelio non vi badò: aveva un altro, penoso dovere da compiere.

 

Quando il romano entrò nella sua camera, il vecchio stava togliendosi i filatteri.

Con un gesto lento finì di srotolare i nastri dal braccio e dalle dita, li baciò con reverenza e li ripose, accuratamente ripiegati, nella loro scatola.

Il patrizio aveva aspettato che l’amico terminasse il rito, prima di parlare.

- L’ho trovato, Mordechai. – L’ebreo non si mosse.

Nessuna reazione, nessuno sguardo interrogativo nel volto solcato da rughe profonde.

- Conosco il nome del padre del bambino- chiarì il patrizio, come se l’altro non avesse capito.

- Non voglio saperlo- rispose il vecchio pacato.

Poi si avvicinò e battè con la mano grinzosa la spalla dell’amico.

- Mia è la vendetta, dice il signore Dio degli Eserciti.

Nella Thorà sta scritto che l’Eterno condannò Caino ad andare ramingo per il mondo e gli pose in fronte un segno, perché tutti conoscessero il suo delitto.

Ma comandò anche che chi avesse levato la mano sul fratricida fosse punito settanta volte sette più“ dello stesso Caino.

Quindi non dirmi il nome di quell’uomo, perché io non leverò la mano su di lui.

Aurelio lo guardò sconcertato.

- Il vostro è un dio problematico, Mordechai!

- Lo so, per questo lo amiamo- rispose l’altro, con orgoglio. – Sto per partire, amico mio.

Ti benedico per quanto hai cercato di fare e se non odio questa città è perché tu ne fai parte.

Ma non posso più“ restare: Dinah è morta e per la prima volta mi sento uno straniero a Roma.

Ho vissuto troppo a lungo e non ho discendenza.

Adesso sono stanco.

Il mio unico desiderio è di morire in Erez Israel, nella terra dei miei padri.

- Mordechai, tua figlia è stata uccisa! – disse Aurelio d’un fiato.

Temeva, se avesse esitato ancora, di non trovare più“ il coraggio di spiegargli nulla.

- Non voglio sapere nemmeno questo! – gridò il vecchio, allontanandolo con un gesto brusco.

- Mordechai! – esclamò il patrizio, afferrando l’amico per le braccia magre e costringendolo a guardarlo. – Non è morta di aborto, è stata uccisa perché aveva visto cose che non doveva vedere.

Anche il padre del bambino è morto! – Uccisa. e anche il padre del bambino. – il vecchio sembrava smarrito, come se il peso schiacciante del dolore gli togliesse lucidità. – Dinah era un’adultera, si era data a un idolatra- mormorò come parlando a se stesso.

- No. Non era un gentile, era un ebreo.

Un ebreo circonciso!

- E“ vero? – domandò Mordechai sospettoso.

- Ti do la mia parola di senatore romano! – ribattè Aurelio. – Si sarebbero sposati davanti al rabbino di Ostia, non appena rescisso il contratto con Eleazar.

Te lo potrà confermare lui stesso.

- Un ebreo! – ripetè Mordechai, mentre negli occhi gli si accendeva una pallida luce di speranza. – E“ stata uccisa. non ha tradito la sua gente, non si è venduta a un pagano, non ha spento la vita che l’Altissimo le aveva concesso. era ancora una di noi! Il viso rugoso parve distendersi e il bagliore comparso poco prima nello sguardo spento, si trasformò, per un attimo, in un lampo di gioia.

Il vecchio levò le braccia al cielo, tremando: – sia lode all’Eterno, che ci ha tratti dalla schiavitù d’Egitto! – gridò riconoscente, mentre Aurelio si ritirava in silenzio, chiudendosi la porta alle spalle.