APPENDICE
UN’EREDITÀ PER PUBLIO
AURELIO STAZIO
Racconto
Roma, anno 797 ab Urbe condita (anno 44 dopo Cristo, inverno).
Publio Aurelio si levò dalla sella con la schiena che gli doleva, sfinito da due ore trascorse in ieratica immobilità sul seggio d’onore, con le spalle drittissime, il volto impassibile e il braccio che si levava rigido ad accogliere le suppliche.
- Grazie ai Numi, è finita! – esclamò con un sospiro di sollievo, vedendo l’ultimo dei clientes scomparire nel vestibolo.
Aveva appena cominciato a srotolarsi di dosso la toga, che l’intendente Paride tossicchiò con discrezione, come era solito fare quando aveva da comunicargli una notizia spiacevole.
- Ci sarebbe qualcun altro, domine…
- Per Giove Ottimo e Massimo, non ne posso più; fallo tornare domani! – sbottò il senatore, seccato.
- E“ una signora, domine, e ha aspettato tutta la mattina.
L’ho ospitata nei quartieri della servitù, per non costringerla a una lunga attesa in mezzo agli uomini – precisò il verecondo amministratore. L’uso, infatti, voleva che alla salutatio mattutina del patrono convenissero i maschi più anziani delle famiglie protette; qualche volta, però, si presentavano anche vedove e orfane, forzate dal bisogno a sopportare l’imbarazzante contatto promiscuo.
Aurelio esitò: non vedeva l’ora di liberarsi dei calcei curiali, indossare un paio di morbide solae e stendersi comodamente su un triclinio.
- Ho dato un’occhiata alla matrona in questione, domine.
Forse varrebbe la pena di riceverla – intervenne il fido segretario Castore, esprimendo il suo giudizio, – positivo ma non entusiastico, – sull’avvenenza della supplice.
- Fatela passare in biblioteca; non ho alcuna intenzione di appollaiarmi di nuovo su quel trespolo! – cedette Aurelio, allontanando da sé l’austera sella di gala. Paride obbedì, senza nascondere il suo disappunto per quella grave deroga all’etichetta.
Poco dopo i servi introducevano una donna piuttosto giovane, con gli occhi bassi e il capo pudicamente coperto da una modesta palla color ruggine. Non appena rimasta sola col patrizio, sciolse il velo, rivelando il viso piacente dai tratti un po’ marcati e la bocca piena, che le dava un’aria imbronciata e sensuale a un tempo. Una ragazza del popolo, belloccia ma non troppo fine, di condizione libera e poco agiata, si disse Aurelio, valutandone rapidamente aspetto e abbigliamento.
- Grazie per avermi concesso un po’“del tuo tempo, nobile senatore. Sono Priscilla, figlia del defunto Vipsanio Prisco – si presentò la supplice, con un accento che ne denunciava la provenienza dai quartieri più umili.
- Hai marito? – chiese Aurelio, mentre osservava di sottecchi l’acconciatura della ragazza.
- Ero fidanzata… – esitò Priscilla, mordendosi le labbra, come se cercasse le parole più adatte per spiegarsi. – Con Papinio Postumio! – finì poi tutto d’un fiato.
Publio Aurelio trasecolò: l’unico Papinio Postumio che conosceva era un padre coscritto settantacinquenne, morto di vecchiaia proprio il giorno prima tra le braccia del figlio, della nuora e di uno stuolo di nipoti.
- Non il Papinio al quale sto pensando, vero? – domandò dunque il patrizio, non poco perplesso. L’anziano senatore era stato uno dei più tediosi campioni del mos maiorum, sempre pronto a tacciare chicchessia – e in particolare Aurelio – di mancanza di austerità e scarso rispetto verso l’antico costume dei padri. In breve, l’austero Papinio era l’ultimo degli uomini che Aurelio avrebbe immaginato tra le braccia della giovane e procace plebea.
- Proprio lui! – confermò invece Priscilla.
- Ma aveva già un figlio di quarantanni, e poteva contare su ben nove nipoti!
- Ciononostante stava per risposarsi.
- Con te? – incalzò il senatore, sempre più incredulo.
- Con me – ribadì la ragazza. – Per questo l’hanno ucciso, perché non lo facesse!
- La tua è un’accusa grave, per di più rivolta a una famiglia al di sopra di ogni sospetto – le fece notare il patrizio.
Papinio il giovane, erede del defunto, si stava rivelando un bacchettone peggiore del padre, e la moglie Annia era celebre in tutta l’Urbe per il rigore ottuso, prima ancora che per la straordinaria prolificità.
- Puah! – fece Priscilla con una smorfia. – Mistificatori, falsi come un sesterzio greco! Una genìa di ipocriti senza cuore!
E così, con poche, impietose parole, la ragazza liquidava una delle stirpi più illustri di Roma…
- Hai qualche prova per convincermi che Papinio si era davvero deciso a convolare a nuove nozze? – chiese Aurelio, scettico.
- Ecco il contratto di matrimonio! – rispose Priscilla, traendo da sotto la palla un papiro arrotolato. Il senatore vi dette una rapida occhiata: era tutto in regola… salvo un particolare non irrilevante.
- Manca il sigillo – obiettò.
- Non ha fatto in tempo ad apporla! – ribattè la fanciulla, imperterrita.
- E allora? – domandò il patrizio, ben poco convinto.
- Papinio mi disse che avrei dovuto rivolgermi a te, se gli fosse successo qualcosa.
- A me? – si meravigliò Aurelio. – Strano, credevo che mi tenesse in scarsissima considerazione…
- Appunto! – spiegò trionfalmente Priscilla. – “Vai da Publio Aurelio”, mi ha suggerito. “Soltanto uno scriteriato come lui ti presterà ascolto. Qualunque onesto cittadino si affretterebbe a metterti alla porta, ma Stazio, se ben lo conosco, non si farà sfuggire l’occasione di dar fastidio a una famiglia dabbene e timorata dei Numi come la mia!”.
- Ha detto proprio così? – mugugnò il senatore.
- Te lo giuro! – affermò la ragazza sputando in terra, in un gesto che avrebbe fatto inorridire qualunque matrona di nobili natali.
- È bello godere della fiducia dei colleghi – considerò Aurelio, sarcastico. – Ma che dovrei fare?
- Dimostrare che Papinio è stato ammazzato e restituirmi l’eredità. – replicò tranquillamente Priscilla. – Tutto qui – Non lo pensare nemmeno, ragazza! – scosse la testa il patrizio. – Anche se, ammesso e non concesso, questo contratto portasse in calce una firma; anche se, ammesso e non concesso, Papinio Postumio avesse avuto intenzione di sposarti; anche se, ammesso e non concesso, fosse giunto a spezzare con te la focaccia di farro davanti al Flamine di Giove, non avresti ugualmente diritto a niente, in assenza di un testamento valido.
- Per Èrcole e tutte le sue fatiche! – inveì Priscilla non possono cavarsela così, lasciandomi nei guai fino al collo!
- Che intendi dire? – volle sapere Aurelio, incuriosito.
- Mio padre – spiegò la fanciulla – era un cliente dei Papinii e alla sua morte, qualche mese fa, mi presentai dal patrono per chiedere soccorso. Aspettavo buona buona nell’atrio, quando è passata la domina Annia, squadrandomi come se avesse visto un topo da fogna uscire dal forno della sua cucina.
Rifiutava persino di annunciarmi, ma io ho insistito tanto che alla fine Papinio mi ha ricevuto, tanto per fare un dispetto alla nuora. Dopo avermi ascoltato distrattamente, ha promesso di trovarmi uno sposo tra i suoi clientes: un operaio stagionale, un disoccupato o qualcosa di simile… Io, però, sapevo bene come sarei finita, con il marito in giro tutto il giorno a mendicare inviti a cena, e i soli avanzi di qualche sportula da mettere in pentola!
- Comincio a capire – sorrise Aurelio. – La soluzione che Papinio ti prospettava non era adeguata alle tue esigenze… così ti sei adoperata per suggerirgliene un’altra.
- Oh, se è per questo, si è fatto convincere facilmente… ammise Priscilla. – Difatti sono incinta.
- Santi Numi! – gemette il senatore.
- Papinio – continuò la ragazza – voleva essere sicuro che fossi prolifica, prima di sposarmi. Dovevi vederlo, allorché ha saputo della gravidanza! Lui, sempre tanto severo, è scoppiato a ridere di gusto, immaginando la faccia che avrebbero fatto figlio e nuora nell’apprendere la notizia. E nessuno poteva trovar da ridire sul nostro matrimonio, mi ha spiegato, perché rientrava a pieno titolo nella tradizione degli antichi padri.
- Vecchio astuto libidinoso… – commentò Aurelio, ricordando tra sé e sé un illustre precedente: Catone, il più severo campione del mos maiorum, rimproverato dalla nuora di bazzicare le serve, aveva reagito impalmando una giovane plebea, che gli aveva subito scodellato un marmocchio, erede del patrimonio paterno alla pari dei nobili fratellastri.
- Papinio, dunque, aveva preso bene la notizia.
- Eccome! Avantieri si è messo a redigere il contratto nuziale, dichiarando che l’avrebbe fatto leggere ai suoi la sera stessa. La mattina dopo è stato trovato morto.
- Dov’è la sua copia del documento?
- Ovviamente l’hanno fatta sparire. Ma io non me ne starò zitta e cheta a subire questo sopruso: intendo far causa agli assassini e costringerli a riconoscere i miei diritti! – dichiarò Priscilla con voce perentoria.
- Impossibile, mia cara – la deluse Aurelio. – A Roma nessun figlio, legittimo o illegittimo, può avanzare pretese sul patrimonio paterno. I cittadini dell’Urbe decidono per testamento a chi lasciare i propri beni e hanno la facoltà di commetterli anche a un perfetto estraneo, diseredando la loro stessa discendenza. Quindi, anche se riuscissi a ottenere un riconoscimento di paternità – del che dubito fortemente – non metteresti le mani su un solo sesterzio…
- Voglio che quella gentaglia paghi per ciò che ha fatto! insistette la ragazza.
- Intendi forse in senso letterale? – replicò il senatore, in tono palesemente sarcastico. – Certo, è increscioso che i parenti del vecchio caprone l’abbiano sottratto alle tue grazie con un efferato delitto; tuttavia, scucendoti un po’“di soldi, potrebbero evitare un’accusa di parricidio…
- L’idea era proprio questa – ammise Priscilla con sfacciato candore. – Sono venuta da te perché Papinio era convinto…
- Che io fossi abbastanza dissennato da prestare aiuto a una graziosa ricattatrice – concluse Publio Aurelio. – E invece si sbagliava: se scoprissi chi ha ucciso il mio collega, mi affretterei a denunciarlo, e tu rimarresti comunque a becco asciutto. Adesso che sai come la penso, vuoi ugualmente che mi occupi di questo affare?
- Sì – affermò la fanciulla, decisa.
- D’accordo – ribattè il senatore. – Prima di tutto, allora, sarà bene chiarire una cosa: io non ho settant’anni, né una nuora da far schiattare di rabbia, e non sono il tipo che si fa mettere in testa idee matrimoniali da una piccola sfrontata…
Capisci cosa intendo?
- Oh, ti giuro che non ci pensavo per niente, nobile Stazio! – si affrettò a rassicurarlo Priscilla, coprendosi all’istante le spalle da cui, solo un attimo prima, aveva sapientemente fatto scivolare la palla.
- Mi compiaccio del tuo acume, ragazza mia. E ora – la accomiatò Aurelio – torna a casa, mentre io mi recherò a porgere le condoglianze ai parenti del tuo promesso.
- Non ho nessun posto dove andare – si lamentò tuttavia Priscilla. – il cenaculum della Suburra, dove vivevo con mio padre, appartiene ai Papinii e stamattina uno schiavo della famiglia è venuto a cacciarmi fuori…
- Bè, qui non puoi certo rimanere – escluse Aurelio.
- Perché no? – chiese lei, facendosi più vicina.
- Lo sai benissimo, il perché! – sbottò il senatore, impazientito, prima di chiamare Castore a viva voce.
- Sì, domine! – si presentò immediatamente il segretario, fingendo con ostentata innocenza di non avere origliato alla porta.
- Fai preparare la lettiga, Castore… Conduciamo questa giovane a casa di Pomponia. La brava matrona ha un debole per le fanciulle sedotte e abbandonate; e quando saprà che Priscilla è incinta, si farà in quattro per aiutarla.
- Subito, domine! – obbedì il segretario, mentre la ragazza si lasciava docilmente condurre fuori, raccomandandosi con voce flautata: – Conto su di te, senatore!
- Certo che lo sapevo! Credi forse che non sia capace di tenere le orecchie aperte? – si inalberò Pomponia, fiera della sua reputazione di informatissima pettegola. – Ho imparato che quel lubrico vecchiaccio approfittava di una fanciulla povera e indifesa il giorno stesso in cui è cominciata la tresca!
- Dunque, è proprio vero… – si stupì Publio Aurelio.
- Verissimo. La relazione durava da qualche mese e già correva voce che Papinio avrebbe finito per portarsi Priscilla in casa come paelex, o addirittura come moglie; il che, come puoi bene immaginare, faceva rizzare i capelli in testa a quel bamboccio del figlio e a quell’arpia della nuora.
- La conosci?
- La nuora? Eccome! Tanto bene da essere disposta a ospitare la tua protetta per tutto il tempo che sarà necessario, nella speranza di farla diventare verde di bile. Per darti l’idea della simpatia che suscita tra le amiche, ti basti sapere che alle terme femminili l’hanno soprannominata Cicuta!
- Grazioso nomignolo! Che mi dici invece di Papinio il giovane?
- È un retrogrado ottuso e insipiente: figurati che ha impedito alla mia amica Servia Quinta di discutere personalmente la sua causa in tribunale, costringendola a farsi rappresentare da un patrono maschio, come se l’Urbe non avesse avuto tante oratrici di vaglia, a cominciare dalla famosa Ortensia!
- Dunque si tratta di un uomo all’antica… – rifletté il senatore.
- Dici poco! – ribatté Pomponia, infervorandosi. – È un barbaro troglodita che vorrebbe le matrone coperte dalla testa ai piedi a mò di salsicce insaccate! Però non inganna nessuno, mostrandosi tanto rigido in pubblico: tutti sanno che a casa sua comanda la moglie…
- Hanno parecchi figli, vero?
- Nove piccoli spocchiosi – sbottò la matrona.
Impeccabili, moralisti e saccenti come i genitori!
- Mi par di capire che non si tratta di persone adorabili…
Ma li credi davvero capaci di arrivare all’omicidio per impedire il matrimonio del vecchio?
- Senza dubbio! – dichiarò Pomponia con un tono che non ammetteva repliche. – Tieni conto che a Roma, indipendentemente dall’età, la domina è sempre la moglie del paterfamilias e tutte le donne della casa devono rispettosamente obbedirle… Quell’altezzosa di Annia, abituata a fare il bello e il cattivo tempo, non si sarebbe mai rassegnata a chinare la testa davanti alla giovane moglie del suocero.
- Non è un motivo valido per uccidere – obbiettò Aurelio.
- Te ne posso fornire uno migliore, se vuoi – replicò Pomponia. – Sicuri com’erano di mettere le mani sull’intero patrimonio del vecchio, i Papinii hanno fidanzato le figlie con i migliori partiti dell’Urbe, promettendo ricche doti ai futuri generi in cambio dell’appoggio alla carriera dei maschi. Le nuove nozze del capofamiglia, quindi, mettevano in gioco molto di più dell’orgoglio personale: la nascita di un altro figlio, a cui il vecchio si sarebbe legato con l’entusiasmo dei padri tardivi, era in grado di sovvertire completamente l’asse ereditario. Quale movente migliore per un delitto?
- Sicché – osservò Aurelio – quella coppia di furboni aveva fatto i conti senza l’oste… mi hai convinto, Pomponia, ora non rimane che trovare le prove.
- Se è stata Cicuta a farlo fuori, scordatelo: è abbastanza astuta da non lasciare in giro alcun indizio. Papinio il giovane, invece, è un borioso talmente pieno di sé da credersi invulnerabile.
Prega gli dei che sia lui il colpevole; avrai molte più possibilità di incastrarlo! – profetizzò la matrona. – Ma adesso, lascia che corra ad occuparmi della povera Priscilla.
Chissà, magari avrà voglia di qualcosa di speciale. Potrei far venire delle ostriche fresche dal lago Lucrino, oppure…
Mentre la brava matrona si abbandonava compiaciuta ai suoi progetti, Publio Aurelio ritenne opportuno non indugiare oltre. Del resto, lo attendeva una visitina alla residenza del defunto collega.
Il senatore Stazio fece fermare la portantina davanti alla domus listata a lutto, che sorgeva dietro al Foro Olitorio.
Papinio il giovane, per nulla stupito di vederlo arrivare, lo accolse con le gote imbrunite e i capelli spettinati ad arte, perfetta immagine del buon figlio colpito da un aspro cordoglio.
- Sei venuto per il libro, vero? – domandò senza preamboli.
Publio Aurelio si guardò bene dal negare, pur non avendo idea di che cosa il suo ospite stesse parlando.
- Mio padre lo leggeva proprio la notte delle Calende, poco prima di sentirsi male, e sul letto di morte si è raccomandato più volte che te lo consegnassimo – spiegò Papinio il giovane, senza nascondere la sua meraviglia per quel legato del tutto inatteso.
Dunque, il vecchio gli aveva fatto pervenire un volume che forse celava le prove dell’omicidio, pensò Aurelio con un brivido di eccitazione. Naturalmente, se il moribondo non avesse espresso la sua volontà in presenza di tanti testimoni, il figlio si sarebbe ben guardato dal rimettergli il rotolo. Anche così, però, aveva avuto tutto il tempo di cancellare dalle pagine qualunque indizio…
- Sono oltremodo stupito da questo lascito – continuò il padrone di casa. – Credevo, infatti, che tu e mio padre foste in pessimi rapporti…
- No, ti sbagli – mentì spudoratamente Aurelio. – Anzi, negli ultimi tempi era nata una solida amicizia tra noi.
Raccontami piuttosto come è morto.
- Il cuore – sospirò Papinio il giovane. – L’abbiamo trovato col capo chino sul papiro aperto: il braciere era spento e la candela consumata a metà. Con ogni evidenza, non ha avuto la forza di suonare in tempo il tintinnabolo per chiedere aiuto e, quando infine ci è riuscito, ormai non c’era più niente da fare… L’unica consolazione è sapere che si è spento serenamente, tra le nostre braccia – aggiunse il padrone di casa, lisciandosi il mento sfuggente con la mano sudata su cui spiccava il sigillo di onice del padre, che lo confermava a tutti gli effetti come nuovo paterfamilias.
- Come mai un malore così improvviso? – volle informarsi Publio Aurelio. – Tuo padre sembrava godere di ottima salute…
- Difatti è così – riconobbe il giovane. – Lui aveva sempre condotto la vita semplice e sobria che si addice a un buon romano: pasti frugali, poco vino, niente lussi…
- Niente donne… – proseguì Aurelio nel suo tono più innocuo.
- Alla sua età, figurati! – sbottò Papinio con un moto di stizza.
- Bè, non sarebbe stato il primo – osservò il senatore.
- Ti dico che… – annaspò l’altro, guardandosi attorno in cerca di aiuto. La moglie, che si trovava evidentemente in ascolto, fece la sua comparsa alla velocità del lampo, scostando con un gesto brusco la cortina del tablino.
- La nostra è una casa rispettosa della tradizione, quindi nessuno si sarebbe permesso di indagare sugli affari personali del paterfamilias – intervenne con voce perentoria.
Publio Aurelio scrutò in tralice la famosa Cicuta e decise che mai soprannome era stato più azzeccato: la donna era magra come un chiodo e aveva le labbra tanto sottili da sembrare i margini di una ferita mal cicatrizzata. Il mento le sporgeva aguzzo e gli occhi erano piccoli, mobili, maligni. Nel mezzo del corpo scheletrico, il ventre deformato dalle troppe gravidanze appariva flaccido come l’otre di montone spremuto fino all’ultima goccia da un cammelliere disperso nel deserto mauritano.
Perfetta come assassina, considerò il senatore, ripromettendosi di non rivolgerle mai le spalle senza aver preventivamente indossato una lorica di cuoio. Al suo fianco, il bolso marito dall’aria solenne e untuosa sembrava giustificare la propria esistenza solo nel farle da contrappunto.
- Comunque sia, è stata brutta disgrazia, proprio ora che stava per risposarsi – buttò lì Publio Aurelio con studiata noncuranza.
- Cosa stai vaneggiando? – impallidì l’erede.
- Che sciocchezza, non so proprio come tu abbia potuto immaginare una cosa simile! – si scandalizzò la moglie, storcendo la bocca in un sorriso sprezzante.
- Me lo confidò lui stesso, pochi giorni or sono, mentre conversavamo sui gradini della Curia… – insistette il senatore, che, dopo tanti anni al fianco di Castore, sapeva ormai spacciare qualunque fandonia con solenne indifferenza.
- Povero Stazio, ti sei fatto giocare come un bambino; è ovvio che mio suocero ti stava prendendo in giro! Sai bene quanto deprecasse le tue intemperanze, soprattutto in fatto di donne e, dato che le sue censure non sortivano su di te alcun effetto apprezzabile, ha pensato di ricorrere all’ironia, per farti capire quanto riesce a rendersi ridicolo un uomo incapace di conservare intatta la sua dignitas! – spiegò in tutta fretta Cicuta, dimostrandosi abbastanza scaltra da fornire un’interpretazione innocente delle parole del suocero, anziché tentare di smentirle.
- Capisco… – mormorò Aurelio, risolvendosi al lancio del suo ultimo dado. – Posso vedere la stanza in cui è morto?
- Purtroppo è già stata rassettata! – escluse bruscamente la matrona, prima che il marito avesse il tempo di aprir bocca.
- Ma se desideri rendere omaggio alla salma, fermati pure nell’atrio, mentre vado a prendere il libro.
Al senatore non rimase che accomiatarsi con qualche mesta frase di circostanza.
Poco dopo Castore raggiungeva il suo padrone nella lettiga, ferma nel Foro Olitorio.
- Meno male che mi sono messo di guardia alla porta di servizio, domine! – disse l’alessandrino al senatore. – Ho bloccato un corriere di Lanuvium, che doveva consegnare una lettera personale al capofamiglia: due giorni fa non l’ha trovato in casa e ieri quello stupido di Papinio il giovane si è rifiutato di riceverlo.
- Non dirmi che hai intercettato il rotolo, Castore! sogghignò il patrizio.
- Ovviamente, padrone. Ho la fortuna di godere di un aspetto distinto e stamattina, per caso, indossavo proprio la tua tunica più elegante; di conseguenza, mi è stato facile ingannare il corriere facendomi passare per il padrone di casa – precisò il liberto, rimettendo la missiva nelle mani del senatore.
Publio Aurelio lesse in fretta, corrugando la fronte.
- Ah, è così! – esclamò. – Piccola bugiarda… – e senza aggiungere spiegazioni, fece sparire il foglio sotto il guanciale della lettiga, certo che il segretario ne conoscesse già il contenuto.
- Castore – ordinò al liberto – esegui subito un sopralluogo nel quartiere in cui viveva Priscilla, e scopri quando si è incontrata l’ultima volta con un tal Lucceio.
Dopo che l’alessandrino si fu congedato, Publio Aurelio si stese qualche istante sui cuscini e chiuse gli occhi, cercando di imprimersi nella mente ogni particolare della visita alla domus dei Papinii. Dall’esame sommario del corpo esposto sul catafalco, non aveva appreso granché: gli unici segni visibili erano alcune minuscole bruciature sulla mano destra e un’ecchimosi sulla fronte, che il vecchio doveva essersi procurato stramazzando sul tavolo.
Poi c’era il libro. Il senatore srotolò il volume che gli era stato lasciato in eredità dall’anziano collega e scoprì con sua grande meraviglia che si trattava di un’edizione parziale dei carmi di Catullo.
Una lettura insospettabile, per l’austero padre coscritto: che Papinio Postumio avesse perso talmente la testa per la sua giovane pupilla da darsi alla poesia erotica? No, si corresse, srotolando il volumen: le pagine riportavano soltanto i versi più casti del poeta, quelli in cui compiangeva la fine precoce dell’amato fratello.
“Multas per gentes et multa per aequora vectus…” (“Dopo aver attraversato tante genti e tanti mari… ”), recitava l’inizio del celebre carme. Ma l’occhio del senatore fu attratto immediatamente da un verso successivo: “Et mutant nequiquam adloquerer cinerem…” (“A parlare invano con la tua cenere muta…”).
Sulla parola cinerem spiccava una nota scarabocchiata in tutta fretta, con un inchiostro e una grafìa diversa da quella del copista che aveva vergato il libro.
XXXIV: trentaquattro, lesse Aurelio, sovreccitato. Che cosa poteva significare?
Uno schiavo, forse: c’erano padroni che, possedendo intere decurie di domestici, riuscivano a distinguerli soltanto attribuendo a ciascuno un numero progressivo. Papinio, tuttavia, ligio agli austeri costumi degli avi, teneva in casa soltanto una ventina di servi, che conosceva senza dubbio di persona.
Un deposito bancario, allora? Improbabile: di solito non venivano contrassegnati con una cifra, ma col nome del cliente.
Anche il riferimento a una stanza era da escludersi, perché l’antiquata domus dei Papinii ne contava assai meno di trentaquattro.
Publio Aurelio si sforzò di ricordare meglio la disposizione dei locali della casa. Nell’atrio si aprivano due porte alte e strette, che immettevano nei tablini: quello a destra era adibito al ricevimento dei visitatori, mentre il più piccolo, dove era stato ritrovato il cadavere, fungeva da studio e biblioteca.
La biblioteca…? Sicuro, la biblioteca! esultò il senatore, battendosi la mano sulla fronte: scrivendo quel numero, Papinio voleva indicare un altro libro, tra le cui pagine era riuscito a nascondere qualche indizio prima di chiamare aiuto!
Bisognava dunque metterci le mani sopra, e senza indugio.
Ma come intrufolarsi di nuovo in casa? I lettighieri nubiani, con la loro pelle nerissima, non sarebbero passati inosservati tra il personale di servizio; quindi, in mancanza di Castore, non gli restava che agire di persona.
- Ehi, tu! Mi vendi il tuo vestito? – chiese a un passante che avanzava a fatica, trascinando una carriola colma di galline in gabbia.
Il popolano nicchiò: – È stoffa buona: la porto da vent’anni e potrebbe durarmi altrettanto…
- Pagherò la tua veste un denario, e in più ti comprerò un paio di galletti – propose il patrizio, facendo tintinnare le monete.
Poco dopo, mimetizzato nella ruvida tunica del pollaiolo, Publio Aurelio bussava all’ingresso di servizio della domus dei Papinii, reggendo sottobraccio i due pennuti starnazzanti che dovevano servirgli da lasciapassare.
- Mi aspettano in cucina – disse, eclissandosi rapidamente verso i quartieri di servizio, dove occultò i polli legati per le zampe dietro la porta della dispensa. Fatto questo, dette inizio alla perquisizione.
Il tablino dove il vecchio aveva trovato la morte era senz’altro il primo a sinistra, pensò Aurelio mentre avanzava nel corridoio, ringraziando il rigoroso rispetto della tradizione che aveva spinto l’anziano collega a mantenere intatta la struttura della magione avita, senza cedere al richiamo di nuovi stili architettonici.
Il senatore socchiuse la porta della stanza e vi scivolò dentro.
Contrariamente alle dichiarazioni di Annia, il locale non era stato ancora riordinato: le tende dietro il braciere apparivano sporche di polvere e sul lungo tavolo rettangolare giacevano in eloquente disordine le carte di Papinio, sparse dappertutto come se qualcuno le avesse esaminate con grande premura. Lo stesso scompiglio regnava tra i rotoli della teca, dalle cui asticciole pendevano dei cartellini triangolari di cuoio che indicavano, al posto del titolo, un numero progressivo.
Aurelio cercò affannosamente negli scaffali, senza riuscire a trovare da nessuna parte il trentaquattresimo volume. Dopo un po’, dovette arrendersi. I casi erano due: o stava prendendo un grosso granchio, oppure gli eredi avevano esaminato a fondo il libro di Catullo, prima di consegnarglielo/ e, afferrata l’allusione, si erano affrettati a distruggere il rotolo a cui si riferiva l’appunto.
Chissà che cosa aveva nascosto il vecchio in quel papiro… la copia firmata del contratto di nozze, oppure un atto pubblico dove riconosceva la paternità del figlio di Priscilla? Che ingenuo era stato, a credere che quel blando trucchetto bastasse a ingannare i suoi avidi parenti! Con ogni evidenza, non aveva messo in conto la possibilità di cadere vittima di un delitto; sicché, colto alla sprovvista, doveva essere stato costretto a nascondere il papiro nel pochissimo tempo che aveva a disposizione prima di perdere le forze.
Se Papinio Postumio non era morto di mal di cuore, doveva aver sorbito del veleno, rifletté il patrizio. Ma dove e da chi gli era stato propinato?
Sì, perché la colpevolezza del figlio e della nuora non era affatto sicura: la missiva intercettata da Castore, infatti, obbligava a prendere in considerazione almeno altre due ipotesi, oltre a quella del parricidio.
La prima vedeva Priscilla, delusa nelle sue ambizioni, attribuire ai parenti del maturo fidanzato una furia omicida del tutto inesistente e scambiare quindi per omicidio una morte per cause naturali. La seconda, assai più sgradevole, contemplava la possibilità che fosse stata l’intraprendente popolana o un suo complice – a recidere la vita dell’anziano Papinio.
Sulle intenzioni matrimoniali del vecchio, infatti, non esisteva alcuna prova, salvo la parola della sedicente fidanzata, e in ogni caso un tale progetto sarebbe naufragato non appena una certa lettera fosse giunta a destinazioneMentre il patrizio seguiva il corso dei suoi pensieri, gli occhi vagavano inquieti nella penombra della stanza deserta, andando dalle teche polverose ai piedi leonini del grande braciere di bronzo, dalla candela mozza al calamo, ancora intinto nell’inchiostro con cui era stato scritto il numero misterioso.
All’improvviso, l’attenzione di Aurelio fu attratta da un cerchio chiaro che spiccava sul marmo nero del tavolo. Pareva l’impronta di un’anfora, di un vaso o di qualcosa di simile: forse si trattava proprio del recipiente che aveva contenuto il veleno, si disse il senatore, accingendosi a ispezionarlo.
In quell’istante, però, una voce tonante echeggiò dal quartiere degli schiavi.
- Chi ha messo qui queste bestie? – stava inveendo il capo della servitù, il quale, attratto dal pigolare dei polli, li aveva appena scoperti dietro l’uscio della dispensa.
Publio Aurelio si precipitò fuori dal tablino, macchinando in tutta fretta qualche scusa ingegnosa da imbastire lì per lì, allo scopo di giustificare la sua presenza nella domus.
Non ne ebbe bisogno: richiamato da un ordine imperioso di Annia, il capo della servitù perse immediatamente ogni interesse per i pennuti e si precipitò dalla padrona, aprendo al patrizio un’insperata via di fuga.
Senza esitare, Aurelio corse verso l’uscita e si dileguò in strada.
- Sì, il vecchio era stato nel cenacolo di Priscilla, il pomeriggio prima di morire – riferì Castore. – L’hanno riconosciuto in parecchi…
Quindi la ragazza avrebbe avuto modo di fargli bere il veleno, dedusse Aurelio.
- Tuttavia – proseguì l’alessandrino – ora che è morto, ci serve a poco dimostrare che Papinio si divertiva con una donna libera: non possiamo certo citare in giudizio per stuprum il suo cadavere! In quanto al nascituro, provarne la discendenza sarebbe impresa ardua: anche prescindendo dalla lettera, abbiamo a che fare con una ragazza sola, senza nessuno in grado di garantirne la condotta…
- Dimmi, Castore, hai scoperto qualcosa su quel Lucceio?
- volle sapere il senatore.
- Si tratta di un giovane avvenente e di oneste origini, dotato di esigue possibilità economiche – fu la risposta del segretario. – Priscilla è stata vista più volte in sua compagnia, al Macello di Livia. L’ultimo incontro risale a più di un mese, fa; da allora il ragazzo è rimasto sempre a Lanuvium e ha fatto ritorno a Roma soltanto oggi.
- Con questo siamo sistemati! – sbottò Publio Aurelio.
- Se Priscilla insistesse nella sua denuncia, i Papinii sosterrebbero che ha irretito il vecchio per spillargli del denaro a favore dell’amante. Purtroppo è facilissimo distruggere la testimonianza di una donna: basta scavare un po’“nel suo passato per scoprirvi una minima debolezza, preferibilmente di carattere sessuale; e se proprio non si riesce a trovare niente, si può sempre inventarsi lì per lì qualche falso pettegolezzo.
- Già! – convenne il liberto. – Fu proprio attaccando la reputazione di Clodia che Cicerone fece scagionare Celio. E lo stesso accadrà questa volta: non appena Priscilla metterà piede in tribunale, la faranno a pezzi. A meno che non si possa dimostrare che Papinio è stato ucciso…
- Sempre che sia vero – sospirò il senatore.
- Ne dubiti?
- A essere sinceri, sì. Non c’è nulla a suffragare la tesi dell’omicidio.
- Dimentichi il libro: Papinio te l’ha affidato proprio per aiutarti a smascherare l’assassino.
- Anche questa è soltanto un’illazione. Magari il numero trentaquattro faceva parte di una semplice nota delle spese…
- Improbabile, domine. Perché, altrimenti, un rigido padre coscritto che non ti teneva in alcuna simpatia avrebbe pensato di lasciarti un volume in eredità?
- C’è dell’altro – aggiunse Aurelio. – Pomponia ha sguinzagliato le sue spie, facendosi riportare per filo e per segno gli ultimi istanti della vita di Papinio Postumio. Tutti concordano nel riferire che è morto serenamente, circondato dall’intera famiglia: se avesse avuto il sospetto di essere stato avvelenato, non sarebbe rimasto tanto tranquillo in presenza del probabile assassino.
- Forse se la rideva sotto i baffi, pregustando il brutto scherzo che stava per giocargli! Hai a che fare con gente molto scaltra, domine, e stavolta le spie di Pomponia, per quanto abili, non sono sufficienti. Qui ti occorre un fuoriclasse!
- Tu, Castore? – domandò il patrizio, senza nascondere l’ironia.
- Ovviamente! Per quaranta… no, diciamo cinquanta sesterzi – si corresse subito il liberto – sono disposto a penetrare in quella casa e rivoltarla come un guanto. È tardi per cercare nuovi indizi, lo so, ma il delitto emana un odore tanto penetrante da lasciare sempre qualche traccia nell’aria, anche dopo che la finestra è stata aperta…
- E tu possiedi un fiuto sopraffino – ribatté Aurelio, scuotendo il capo in cenno d’assenso. – Provaci, allora, e che Hermes ti sia propizio!
- Non temere, domine – concluse Castore. – Hermes, dio dei ladri, è il mio nume protettore.
La mattina seguente il patrizio, dopo aver superato le mille resistenze della sospettosa Pomponia, passeggiava con Priscilla nel giardino dell’amica: aveva preteso che l’incontro si svolgesse all’aperto, certo com’era che la curiosa matrona, nel suo sforzo protettivo, avesse piazzato almeno una decina di ancelle a origliare dietro le tende.
- Di che cosa volevi parlarmi, senatore? – chiese la ragazza, arrestandosi al suo fianco sotto la pergola di vite.
- Di Lucceio – fece lui sbrigativo.
- Non ha nulla a che vedere con questa storia!
- Un vecchio ricco, un giovane povero ma bello, una fanciulla nei guai… C’è da riflettere, non credi?
- Lucceio mi piaceva molto – rispose Priscilla in tono amaro. – Se avessi avuto la minima speranza di sposarlo, non avrei certo accettato di unirmi a un vecchio quale Papinio Postumio, con i piedi già sulla barca di Caronte. Invece Lucceio era già impegnato; i genitori l’avevano promesso fin dalla nascita a una lontana cugina. Costei portava in dote un bel podere…
- Eppure – interloquì Aurelio – una volta moglie di Papinio, nessuno ti avrebbe impedito di incontrare di nascosto il tuo amante, in barba ai vostri rispettivi coniugi. Per il resto, si trattava solo di portar pazienza: confidavi di ritrovarti vedova in breve tempo, con qualche soldo da parte e un matrimonio prestigioso alle spalle; dopodiché Lucceio avrebbe chiesto un rapido divorzio e…
Priscilla lo interruppe furente: – E con questo? Ebbene sì, confesso di aver pensato che Papinio non sarebbe campato in eterno, ma intanto gli avrei dato qualche anno di serenità! Le cose stavano andando per il meglio, quando…
- Il Fato ha deciso altrimenti.
- Non il Fato, nobile senatore: Annia, il suo consorte e tutta la loro maledetta genìa! E adesso io mi trovo in pancia un bimbo destinato a chiamarsi Vipsanio Prisco Spurio! gridò lei, esasperata. Spurio era l’appellativo che, nel caso di figli illegittimi, veniva aggiunto al nome del nonno materno e trasmesso a tutti i discendenti.
- Non è una tragedia, in fondo – minimizzò Aurelio. L’Urbe annovera un gran numero di bravi cittadini che portano questo nome senza alcuna vergogna. E per quanto riguarda gli altri… pensi veramente che siano stati concepiti tutti nel talamo coniugale?
- Ma mio figlio ha sangue patrizio! – protestò la ragazza.
- Bella roba! – sbottò il senatore. – Se conoscessi meglio Papinio il giovane, ti augureresti che il bambino fosse figlio di Lucceio!
- Sai bene che non è possibile; ho scambiato con lui soltanto qualche timida conversazione – si schermì Priscilla.
- Quanto timida? – chiese scettico Aurelio.
- Tu non mi credi! – ribattè lei, offesissima.
- Quello a cui credo è irrilevante – puntualizzò il senatore.
- Conta invece ciò che verrà detto in tribunale, se sarai tanto pazza da citare gli eredi del tuo nobile promesso.
La ragazza fece per replicare, ma proprio in quel momento uno schiavo annunciò l’arrivo di Castore e Publio Aurelio mise fine al colloquio, avviandosi di nuovo lungo il pergolato.
- Ascolta, senatore! – lo rincorse Priscilla. – Ti giuro che non mi sono mai comportata da ragazza leggera; e adesso sono disposta a tutto, pur di vedere quei mostri sul banco degli imputati!
- A tutto? – ripetè Aurelio, avvicinandosi con palese interesse.
Priscilla chiuse gli occhi quando le fece scivolare la mano dal collo sottile al busto eretto, fino al ventre ancora piatto, che custodiva gelosamente il suo segreto. Le dita risalirono leggere verso il viso contratto, soffermandosi un istante sul cuore che batteva all’impazzata: troppa emozione per una donna disposta a concedersi al primo venuto, si sorprese a pensare il senatore. E se Priscilla, in fin dei conti, avesse detto il vero?
- Padrone! – lo chiamò Castore da lontano. – Ho notizie importanti!
- Vengo subito – rispose il patrizio e tornò sui suoi passi, lasciando Priscilla immobile, con gli occhi ancora serrati.
Un’ora più tardi, nell’oechus della casa sul Viminale, Publio Aurelio giaceva sul triclinio, consumando un leggero spuntino a base di mitili grigliati, polpa di granchio in salsa e ricci di mare arrostiti nella loro stessa schiuma. Poiché non si trattava di un vero e proprio pranzo, ma semplicemente di un modesto ientaculum, a servirlo erano soltanto tre schiavi, due ancelle e il pocillatore, che gli mesceva in continuazione il Setino caldo dal cratere che troneggiava sull’apposita mensa.
- Avevi ragione, circa quel segno sul tavolo – riferì il segretario, alla cui audacia Hermes aveva evidentemente arriso.
- C’era stata appoggiata un’anfora, di vino all’assenzio, per la precisione: Papinio Postumio lo prendeva a volte come digestivo.
- L’assenzio ha un sapore molto forte – considerò Aurelio. – L’ideale per coprire il gusto amaro di un veleno.
- Mi piacerebbe poterti confortare con una risposta affermativa, domine; purtroppo, invece, mi tocca deluderti: il domestico che è accorso per primo nel tablino è sicuro di aver visto, accanto al corpo riverso del padrone, il recipiente col sigillo ancora intatto; inoltre, il nappo posato al fianco della candela sembrava del tutto asciutto, come se nessuno vi avesse bevuto. Ma, a proposito di bere… – e Castore fece segno al coppiere di riempirgli il calice fino all’orlo.
- Come sei riuscito a guadagnarti la fiducia del personale di servizio senza farti scoprire da Annia? – volle sapere il senatore, compiaciuto per le infinite risorse del suo liberto.
- Ho preso il posto di uno dei libitìnariì mandati a rilevare il calco del viso del defunto, domine, immaginando che i membri della famiglia non avrebbero presenziato a quella macabra operazione. Mi è costato venti sesterzi…
Aurelio mugugnò, ben sapendo che Castore non poteva averne scuciti più di cinque. – Hai scoperto almeno che fine ha fatto l’anfora? – chiese.
- Sembra che Papinio il giovane sia corso a prelevarla in fretta e furia, non appena il padre ha esalato l’ultimo respiro.
Secondo le ancelle presenti in quel momento, pareva meravigliatissimo di trovarla ancora chiusa, tanto che se l’è rigirata tra le mani con espressione incredula. Poi l’ha mostrata alla moglie, mormorando qualcosa sottovoce, ed è corso a versarne il contenuto nella latrina.
- La latrina di servizio? – fece Aurelio, stupito.
- Sì, domine, quella che usano gli schiavi. I padroni non ci mettono mai piede, preferendo farsi portare il pitale o l’apposita seggetta.
- Dunque l’anfora era intatta, tuttavia Papinio si è affrettato a distruggerla prima ancora di cercare il rotolo compromettente… Questo particolare potrebbe rivelarsi molto significativo, Castore, e poi mi leva un peso dal cuore. Priscilla è una ragazza simpatica; l’idea di chiederne la condanna a morte non mi sorrideva affatto.
- Merito un premio, no? – domandò il greco, speranzoso.
- Eccoti il tuo mezzo aureo, più i venti sesterzi spesi per il libitinario, sui quali ti sei già preso una congrua percentuale concesse il senatore, mettendo mano alla borsa.
- Manca ancora il denario che ho devoluto alle ancelle precisò l’alessandrino.
- Un denario d’argento per una piccola confidenza? dubitò il patrizio.
- Bè, a dire il vero, le ragazze si mostravano talmente desiderose di conoscermi che non ho avuto cuore di deluderle ammise il liberto.
- Castore, i tuoi festini privati non sono a mio carico! – si impuntò il padrone.
- Come credi, domine – mormorò il segretario, chinando la testa rassegnato. – Avrei un’altra cosuccia da farti vedere, ma non so se sia il caso…
- Portamela immediatamente!
- Qui, domine, mentre stai mangiando? – domandò il liberto con aria scandalizzata.
- Certo, che aspetti? – si impazientì il senatore, ignorando la mano di Castore, protesa a ricevere un supplemento di mancia.
- Se proprio me lo ordini… – ubbidì l’alessandrino, mentre guatava Publio Aurelio con gli occhi ridotti a due strettissime fessure.
Poco dopo faceva ritorno reggendo una cassetta di legno, che teneva con le mani allungate in avanti, in modo che restasse il più lontano possibile dal viso. Senza una parola, si spinse al centro della sala e ne vuotò il contenuto davanti al triclinio imbandito del padrone.
Sulle ghirlande di foglie di vite del ricco pavimento musivo piovve una montagna di sudici stracci, spugne bisunte, polvere, fuliggine, cenere, bucce di mela, ossa di pollo, avanzi di cibo putrefatto, segatura e cocci di bottiglia, mentre un fetore nauseante inondava la stanza.
Castore scosse la scatola fino in fondo e un residuo bastoncello di legno imputridito rotolò fino al mosaico che decorava il centro del triclinio, andando a collocarsi sul ventre nudo di una ninfa, in posizione a dir poco indecente.
- Numi dell’Olimpo, Castore, che cos’è questa roba? scolorò Aurelio, mentre il segretario si godeva la sua piccola vendetta per il mancato obolo.
- Spazzatura, padrone: nulla rivela i segreti di una grande domus meglio dell’attenta analisi dei rifiuti. Per fortuna, in tutta la confusione che è seguita alla morte di Papinio, gli schiavi hanno dimenticato di portarli via!
- Vediamo… – fece il senatore, lasciando seduta stante il suo posto a tavola per correre a rimestare nel cumulo di immondizia. – Avanti, aiutami! – comandò al segretario, che attendeva a debita distanza.
- Devo venire lì in mezzo? – chiese Castore sgomento, mentre si chinava a sua volta, trattenendo il fiato. – Ma come fai tu, col tuo odorato tanto sensibile, a sopportare una simile puzza? – domandò stupito.
- Non sento niente, sono raffreddato – mentì il patrizio, sforzandosi di occultare il disgusto per non concedere soddisfazione al dispettoso liberto.
Dopo un controllo capillare, Aurelio si alzò trionfante, reggendo tra le dita un frammento di terracotta.
- Ci sono dei cocci… magari dei residui della famosa anfora.
Mi hanno detto che è tornato in città Ipparco di Cesarea, un medico esperto di queste cose; gli farò visita domani stesso.
Ora, Castore, preparami il bagno, e mescola nell’acqua olio profumato in abbondanza. Ah, quasi dimenticavo… tieni, te li sei meritati! – disse il senatore, e gettò altri dieci, sudatissimi sesterzi al liberto che gemeva, tenendosi lo stomaco con entrambe le mani.
Castore scosse la testa, soppesando la moneta.
Naturalmente aveva subito notato i frammenti del vaso nel mucchio di lordura, ma come resistere all’idea di punire quello schizzinoso di Publio Aurelio Stazio rovesciandogli davanti un fiume di immondizia? Non avrebbe mai immaginato che riuscisse a fingere tanta indifferenza…
- I sintomi che mi descrivi, nobile Stazio, sono quelli di un comune attacco di cuore – commentò Ipparco, medico, farmacista, chirurgo, dentista e uomo sommamente curioso.
- Per quanto riguarda invece l’anfora rotta? – insistette Aurelio.
- Non è facile scoprire che cosa abbia contenuto – rispose il luminare, immergendo l’indice nella feccia del vino che si era depositata in fondo al coccio. Poi annusò a lungo il dito, come un cane che insegua tra le stoppie l’afrore della pecora smarrita; infine vi passò sopra la lingua, degustando attentamente.
- Ehi, stà attento, non vorrai far la fine del vecchio Papinio! – lo mise in guardia il senatore, stupito da tanta imprudente disinvoltura.
- Un buon medico deve saper riconoscere tutti gli odori e i sapori – affermò Ipparco con orgoglio professionale. – I libri non bastano; nel nostro mestiere ci vuole uno stomaco di ferro. Se ti raccontassi che cosa ho assaggiato nella mia lunga carriera…
- Un’altra volta, magari! – lo bloccò subito Aurelio, già duramente provato dalla minuziosa ricerca nella spazzatura.
All’improvviso, Ipparco di Cesarea corrugò la fronte, si alzò di scatto e corse a sputare in una bacinella di metallo.
- Che c’è? – si preoccupò il patrizio.
- Un retrogusto strano, insolito nel vino, per quanto speziato… giurerei che si tratta di un veleno, però non sono in grado di dirti quale…
- Allora Papinio è stato ucciso!
- Non credo proprio, nobile Stazio. Difficilmente una morte per veleno può essere scambiata per mal di cuore.
Inoltre, vedi bene che il tappo è ancora sigillato. Per vuotare l’anfora, è stato necessario spaccarla alla base del collo, come dimostra anche la frattura netta tra questi due cocci – gli fece notare il medico, porgendogli i frammenti del vaso.
- Forse l’assassino è riuscito ad iniettare il tossico nel liquido senza rompere il sigillo – ipotizzò Aurelio.
- No – escluse Ipparco. – Sarebbe possibile solo con un tappo di sughero, mentre questo è di creta incerata.
Il senatore annuì soddisfatto: quell’uomo sapeva il fatto suo; in futuro la sua collaborazione avrebbe potuto rivelarsi preziosa.
- Ti dice niente il fatto che il cadavere presentasse un paio di minuscole ustioni sulle mani? – chiese ancora.
- Bè, immagino che il tuo defunto collega se le sia procurate poco prima di morire.
- Eppure il braciere era spento!
- Forse soltanto in superficie – replicò il luminare. – Ci si brucia facilmente, rimestando i tizzoni ancora accesi sotto la cenere.
- Cinerem, la cenere! – esclamò il senatore. – Era cenere, e non polvere, quella che sporcava le tende! Ed ecco come si giustifica la nota sulla poesia di Catullo! Grazie Ipparco, mi hai schiarito le idee! – si congratulò Aurelio, pagando senza fiatare una salatissima parcella.
Papinio Postumio era stato tutt’altro che incauto nel lasciare il suo ultimo messaggio, pensava il senatore tornando alla lettiga; era sul verso di Catullo che voleva attrarre l’attenzione, non sul numero, che serviva soltanto a portare fuori strada gli esosi parenti. Il trentaquattresimo rotolo doveva aver contenuto un atto legale destinato fin dal primo momento a essere scoperto con facilità, in modo che figlio e nuora se ne impadronissero e, credendosi ormai al sicuro, consegnassero il libro a qualcuno in grado di trovare il nascondiglio del documento più importante. E poiché il vecchio aveva scelto proprio lui come depositario del segreto, dimostrando un’insospettabile fiducia nella sua abilità, Publio Aurelio non intendeva deluderlo.
Poco dopo, recuperato Castore nella domus sul Viminale, i nubiani correvano a spron battuto verso il Foro Olitorio.
- Ancora qui, senatore? – lo accolse freddamente Annia.
- Tuo suocero mi era molto caro e non so darmi pace per la sua scomparsa – si giustificò Publio Aurelio, sperando in cuor suo che il braciere non fosse più stato acceso dal giorno della morte di Papinio Postumio. Castore, penetrato dal retro grazie alle ancelle ospitali, aveva l’incarico di ispezionarlo, mentre lui cercava di trattenere il più a lungo possibile la matrona.
- Davvero? – dubitò Cicuta. – Non mi risulta che Papinio Postumio nutrisse un soverchio affetto nei tuoi confronti, e neppure, sia detto senza offesa, che ti tenesse in gran stima. Parlava di te come di un libertino dissennato, uso a farsi beffa del sacro costume degli avi.
- Già, il mos maiorum – sorrise Aurelio. – So quanto il mio defunto collega teneva alla sua osservanza… infatti ha imitato l’esempio di Catone nel concepire un figlio all’età di settantacinque anni suonati!
- Un figlio? Non so di che cosa tu stia parlando – lo rimbeccò Annia, con un lampo feroce negli occhi.
- Credo invece che tu ne sia perfettamente informata, come pure il tuo integerrimo sposo, fulgido esempio di pietà e devozione filiale. Proprio per questo avete rubato la copia del contratto di matrimonio contenuta nel trentaquattresimo rotolo della biblioteca. Pur di impedire le nozze, eravate disposti persino ad uccidere.
- Hai smarrito il lume dell’intelletto, Publio Aurelio Stazio? Quali ragioni avremmo avuto per commettere un parricidio? Quand’anche mio suocero avesse messo incinta una schiava, o qualche donnetta della Suburra, la cosa non ci riguarderebbe minimamente: mio marito è il solo, legittimo erede di tutto il patrimonio…
- Solo della metà, domina! – esclamò una voce alle sue spalle.
Castore era emerso in quel momento dal tablino, sporco di cenere dalla testa ai piedi. Nella destra stringeva un sottile cilindro intarsiato, da cui trasse il pezzo di papiro che mostrò di lontano al padrone: – Il nuovo testamento era proprio sotto le ceneri del braciere, come pensavi tu, domine: Papinio adotta il nascituro, gli assegna la metà dei suoi beni e ti nomina procuratore del ventre!
Il viso di Annia si trasformò in una maschera di rabbia.
- Dammelo! – urlò, avventandosi contro il liberto, ma quello, da esperto giocatore di trigono, passò il foglio al padrone, lanciandolo a parabola con un tiro perfetto, sopra la testa della matrona.
- Non ti servirà a niente, Publio Aurelio; dirò che sei stato tu a nascondere il rotolo, per poi fingere di trovarlo in casa mia! – ringhiò la nuora, cercando di sottrargli il documento.
- C’è la firma, Annia – le fece notare il patrizio, gettando di nuovo il foglio a Castore.
- Penseranno che tu l’abbia falsificata col sigillo rubato a Papinio! – sibilò la matrona, verde di collera.
- E come avrei potuto? Quel vanesio del tuo consorte se l’è infilato al dito subito dopo la morte del padre, senza più levarselo di dosso! – le ricordò il senatore.
- Nessuno ti crederà! – guaì la moglie di Papinio il giovane.
- Sì, se esporrò in tribunale il fondo di una certa anfora che quello stupido di tuo marito ha buttato tra i rifiuti, senza curarsi di lavarne i pezzi, dopo averla vuotata nella latrina dietro tuo consiglio – disse Aurelio, tranquillo.
- Non l’ha lavata? – impallidì la donna, allibita, e vacillò leggermente, come se le girasse la testa.
- No, mia cara signora – incalzò il senatore, implacabile.
- Un gran nome, un mucchio di soldi e una lunga lista di celebri antenati non garantiscono affatto la sottigliezza dell’intelletto. Papinio il giovane è privo di scrupoli al par tuo, ma, per grazia dei Numi, non altrettanto accorto.
- Quell’imbecille non l’ha lavata… – ripeté Annia, quasi parlando a se stessa.
- Proprio così – infierì Aurelio. – Su tua istigazione, aveva avvelenato il vino del padre, ma il vecchio è morto per cause naturali, prima ancora di bere, risparmiandogli la fatica di ammazzarlo. Papinio ha provato un tale sollievo da non pensare nemmeno lontanamente di poter essere ancora sospettato… Ora – aggiunse il patrizio dopo una pausa ad effetto – la scelta è solo vostra: potete tentare di riscuotere l’intera eredità, rispondendo all’accusa di tentato parricidio, oppure avvallare il nuovo testamento per mettere tutto a tacere.
Ti consiglio di decidere di persona, Annia: quel babbeo di tuo marito affronterebbe a cuor leggero un processo, finendo dritto sul patibolo!
- Così un oscuro bastardo diventerà erede di una stirpe consolare – fece la matrona, soffocando un’imprecazione tra i denti.
- Stai dando dell’imbecille anche a tuo suocero, vero? Per fortuna ci sei tu a reggere la sorte di questa famiglia, Annia.
Mi raccomando, tuttavia, usa un po’“più di prudenza nel maneggiare il veleno: Papinio, astuto com’è, potrebbe inavvertitamente servirtelo a tavola! – la schernì il senatore mentre si avviava all’uscita, seguito dal fedele segretario.
Nelle fauces i due incontrarono il padrone di casa che tornava dal Foro, ammantato dall’aria grave e solenne che si addice al lutto.
Publio Aurelio gli battè la mano sulla spalla con fare amichevole: – Congratulazioni – disse. – Stai per diventare fratello!
- Sei certo che non sia stato ucciso? – chiese Pomponia, dubbiosa.
- Sì – rispose Aurelio. – Ipparco sa quel che dice.
- Eppure ci avrei scommesso! – scosse la testa Priscilla.
- Anch’io – disse il senatore – e ti confesso che sospettavo soprattutto di te, ragazza mia. Ero convinto che l’avessi messo a tacere perché non scoprisse alcune cosette imbarazzanti…
- Priscilla non farebbe mai nulla di simile! – la difese Pomponia. – Quella sera Papinio Postumio deve aver esagerato: quando, dopo un felice ma estenuante incontro pomeridiano, ha dovuto affrontare la reazione furiosa della famiglia, lo sforzo gli è stato fatale.
- Vuoi dire che è morto perché… insomma, che in parte ne sono responsabile io? – scolorò Priscilla.
- Non cadere preda del rimorso – interloquì Aurelio. I guai, il vecchio Papinio è andato a cercarseli da solo, frequentando il letto di una ragazza che avrebbe potuto essere sua nipote.
- Poverino! – si commosse Pomponia. – Quando si è sentito male, non ha voluto chiedere aiuto, anche se forse quel gesto poteva salvargli la vita!
- È vero – confermò il senatore. – Ha preferito invece nascondere il contratto di matrimonio tra i papiri della biblioteca, per convincere i suoi eredi che quello era l’unico documento da distruggere. Poi si è trascinato fino al braciere, che stava spegnendosi, e ha spinto l’astuccio di metallo col nuovo testamento fin sotto le ceneri, pulendosi alla meglio le mani nella tenda. Infine ha scritto quell’annotazione sul verso di Catullo, proprio sulla parola cinerem, nella speranza che io capissi che il messaggio era celato nel verso, e non nel numero.
Soltanto allora ha agitato il tintinnabolo per chiamare i servi.
- Non sapevo che mi fosse così affezionato… – mormorò Priscilla e Aurelio non la smentì, pur essendo convinto che il vecchio l’avesse usata soltanto per procacciarsi un nuovo erede, da affiancare a quello di cui conosceva fin troppo bene l’inettitudine.
- È morto per garantire il futuro di suo figlio! – esclamò Pomponia, scoppiando in un pianto dirotto.
- Se poi è veramente suo – dubitò il senatore.
- Te lo giuro! – affermò la ragazza in tono vibrante, mentre si nascondeva le mani dietro la schiena.
- Vergognati di questi discorsi da maschio cinico e diffidente, Aurelio! – lo redarguì Pomponia con fiero corruccio.
- La cara Priscilla è già stata abbastanza provata dalla sorte anche senza le tue maligne insinuazioni!
- Va bene, va bene, ritiro tutto – si rassegnò il patrizio. Di chi fosse il bambino non era affar suo, e comunque la spartizione del patrimonio gli sembrava un castigo anche troppo lieve per il tentato parricidio, un reato certamente orrendo, e altrettanto certamente indimostrabile: infatti, non c’era mai stata alcuna prova che l’anfora rotta contenesse veleno e l’accusa si basava soltanto sull’olfatto prodigioso e la straordinaria esperienza del medico Ipparco. Ma Annia, ben consapevole di possedere una coscienza alquanto sporca, aveva supposto l’esistenza di indizi ben più probanti, persuadendo il marito a condividere l’eredità…
- Suppongo che le nuove condizioni economiche di Priscilla spingeranno la famiglia di Lucceio a rompere il precedente fidanzamento – ipotizzò Publio Aurelio.
- Sì, infatti: Servilio sta appunto stilando il contratto dì nozze tra i due ragazzi. Anzi, vado a vedere a che punto è! annunciò la matrona esultante e corse dal marito, lasciando il senatore solo con Priscilla.
- Complimenti; non potevi trovare un tutore più adatto per il nascituro – sorrise Aurelio, sarcastico.
- Smettila con questi discorsi! – si adombrò lei.
- Temi forse che il testamento venga invalidato? Stai tranquilla, non è più possibile: i tuoi progetti sono andati a buon fine, ancor meglio di quanto tu avessi sperato…
- Che cocosa intendi dire? – balbettò la ragazza.
- Eri giovane e povera, senza alcuna prospettiva futura, e a un tratto ti si è presentata l’occasione della tua vita. Ti bastava fare un figlio per entrare in una grande famiglia, ben più importante di quella del giovane di cui eri innamorata.
Concepire da un uomo attempato non è cosa facile, ma per fortuna avevi a disposizione del materiale più adatto… naturalmente Lucceio doveva sparire per un po’, in modo che non sorgessero sospetti. Infatti si recò a Lanuvium, fìngendo di piegarsi al volere della famiglia. Ma poi, più scrupoloso di te, non se l’è sentita di portare fino in fondo l’inganno e ha mandato all’aria il tuo piano, scrivendo la verità a Papinio.
Priscilla si sentì venir meno e dovette afferrarsi a una colonna per non cadere.
- Non è vero – provò a ribattere con un filo di voce.
- Vuoi che ti citi le parole esatte con cui Lucceio confessa di essere il padre del bambino?
Priscilla cominciò a singhiozzare forte.
- Lo sapevo, lo sapevo che prima o poi quella disgraziatissima lettera sarebbe saltata fuori! Lucceio mi ha detto soltanto due giorni fa di averla spedita, ma intanto io ero già venuta da te! E adesso che succederà?
- Il messaggio è in mano mia – disse Aurelio.
- Intendi renderlo pubblico? – tremò la ragazza.
- Veramente devo ancora decidere – tergiversò il senatore e aggiunse con aria burbera: – Immagino che tu, tutta presa dall’emozione delle nozze imminenti, abbia completamente dimenticato le promesse che ti sei lasciata sfuggire nel chiedermi aiuto…
- Numi, in effetti non ci pensavo più! – spalancò gli occhi Priscilla, cercando di sottrarsi allo sguardo ironico del senatore.
- Allora?
La ragazza parve riflettere un istante, quindi raddrizzò la testa, nascose ben bene le mani e disse con voce suadente: – Ascolta, nobile Stazio, facciamo un patto: restituiscimi quel foglio, concedimi il tempo di sposarmi e mettere al mondo il bambino, poi ti giuro che…
- Non se ne parla nemmeno – la interruppe Aurelio, consegnandole la lettera con un largo sorriso. – Sono ancora troppo giovane; torna quando avrò superato la settantina e sarò in procinto di dettare le mie ultime volontà!
Priscilla scoppiò in una risata, senza peraltro smettere di piangere.
- Ehi, che cosa hai fatto a questa povera bambina? Non starai molestandola, vero? – lo sgridò Pomponia, piombando improvvisamente nella stanza.
- Confesso di averle chiesto un appuntamento – dichiarò il patrizio.