3.
Terzo giorno prima delle Calende di Settembre.
La lettiga del senatore, giunta a Porta Septimiana piega a nord, lungo il corso del Tevere, lasciandosi alle spalle le arcate del grande viadotto, le cui colonne possenti ricamavano giochi di luce sui prati riarsi dall’estate.
Il patrizio osservava pigramente gli orti e i giardini che rendevano quella zona suburbana di Trastevere tanto simile all’aperta campagna da far sembrare quasi irreale la città che sulla destra invadeva l’orizzonte.
Avevano appena sorpassato i magazzini vinari, quando licenziò i portatori, per godersi in solitudine la lunga passeggiata verso il Campo Vaticano.
Ben lieti della sosta inattesa, gli schiavi sparirono verso il Gianicolo in cerca di una bettola ospitale.
Il patrizio proseguì senza fretta, godendosi la vista del fiume quasi in secca che luccicava tra il biancore dei sassi.
Sulla riva, la villa che era stata di Clodia si ergeva ancora, grandiosa dopo i restauri, a più“ di un secolo di distanza dal tempo in cui aveva ospitato fra i suoi marmi l’amante infedele di Catullo.
Quale poeta, pensa ironico Aurelio, non aveva promesso da allora alla sua donna, in cambio dell’amore, la stessa fama imperitura che il giovane veronese aveva saputo dare alla sua – Lesbia? – Forse proprio là, accanto a quella fontana, l’appassionato adolescente l’aveva aspettata col cuore in tumulto al primo appuntamento segreto.
Perso nei suoi pensieri, il patrizio non si era accorto del cammino percorso.
Adesso il paesaggio era cambiato: sulla sinistra del fiume gli acquitrini, prosciugati dalla stagione arida, davano un che di spettrale ai campi, grinzosi di fango disseccato.
Il tanfo delle concerie sostituiva a poco a poco quello delle paludi e la strada cominciava a salire verso il colle.
Gli ebrei poveri abitavano qui, in una delle zone più“ malsane della capitale, tra i fornaciai, i conciatori, gli schiavi fuggiaschi e i criminali latitanti: si erano ritirati in quell’angolo negletto dell’Urbe, sperando di poter celebrare in pace i loro riti, che i latini consideravano misteriosi e barbarici.
La casa di Mordechai era una delle più“ belle dell’isolato e si distingueva nettamente fra i tuguri.
Qua e là, edifici di nuova costruzione testimoniavano una recente prosperità: il quartiere ebraico, che si era affiancato a quello dell’Appia, presso la Porta Capena, negli ultimi tempi si era notevolmente sviluppato, tanto da rendere necessari nuovi luoghi di studio e di preghiera.
Erano nati così, da un giorno all’altro, la sinagoga degli Augustali, i bagni, le yeshivot talmudiche e il borgo era andato via via modificandosi secondo le fortune della comunità, che dipendevano, in definitiva, dagli umori di chi deteneva il potere.
Infatti, dopo le spiccate simpatie di Cesare e di Augusto, che ammirava tanto Hillel da farne diffondere le massime dai banditori i giudei avevano pagato con la deportazione in massa l’aperta ostilità“ di Tiberio ed erano stati umiliati dallo sciocco dileggio di Caligola, sempre pronto a irridere la loro fede.
Quell’anno, invece, la diaspora godeva di un momento propizio grazie all’amicizia che legava il re di Giudea, Erode Agrippa, al vecchio Claudio, peraltro alieno da atteggiamenti filosemiti.
Gli abitanti del quartiere approfittavano di quella insperata e aleatoria fortuna per dedicarsi a mille attività, sempre fedeli, anche fra gli stranieri, alle loro peculiari usanze, incomprensibili ai gentili, che li rendevano diversi da ogni altro popolo soggetto all’impero di Roma.
Ma quel giorno la piccola Israele del Campo Vaticano era in lutto: la morte di Dinah aveva gettato una cappa di melanconia sui vicoli brulicanti di vita: il corpo della ragazza era stato sepolto in tutta fretta nella vicina necropoli, ma la sua presenza aleggiava ancora sulle viuzze e nei cortili che avevano sentito risuonare la sua fresca risata.
La casa del commerciante era chiusa, le imposte sbarrate e Aurelio sostò un attimo sotto il balcone di legno, indeciso.
Fece per bussare, poi cambiò idea e andò“ in cerca di Eleazar.
Nonostante le affermazioni del vecchio, stentava a credere che Dinah avesse potuto ingannare l’uomo al quale era stata destinata fin da bambina.
Trovò il giovane nella sua misera stanzetta, sul retro di un edificio fatiscente.
La barba nerissima, lo sguardo cupo e il panno rituale strettamente avvolto sui capelli, gli conferivano un’aria di autorità che trascendeva la sua età e la sua posizione sociale.
- Ave, Lazare! – lo salutò il patrizio usando il nome romano.
L’ebreo lo guardò diffidente, quasi ostile: – Mi chiamo Eleazar benYchuda- rettificò asciutto.
- Vorrei farti alcune domande su Dinah- continuò paziente il senatore, ignorando il tono astioso del giovane.
- Non c’è nulla da dire- tagliò corto l’altro, poco disposto al colloquio- io non dò spiegazioni, non a un goy, almeno.
Voi avete il vostro mondo, noi il nostro.
Aurelio, che si era giurato di trattenersi per non indisporre lo spinoso interlocutore, non seppe resistere e scattò aspramente: – Non hai rispetto per l’uomo che ti avrebbe voluto come genero? E“ per lui che sono qui! Eleazar assentì a malincuore e i due uscirono insieme dal borgo per parlare lontano da orecchie indiscrete.
Camminando fianco a fianco senza parlare giunsero in un angolo tranquillo degli Orti di Agrippina, proprio sopra il Circo di Caligola che, bianco sotto il sole, dall’alto sembrava un mostro addormentato.
- Cosa vuoi sapere? – domandò il ragazzo, aggressivo. – Il bambino non era mio.
Dinah ha fornicato con un goy, con uno come te.
Si comincia bene, pensò Aurelio cercando di mantenersi calmo.
Il risentimento di Eleazar era così intenso, e il suo tono così offensivo, che in un’altra occasione il patrizio, dall’alto del suo rango, l’avrebbe ripreso altezzosamente.
Ma, comprendendo i sentimenti del giovane colpito così a fondo nel suo orgoglio, finse di nuovo di non aver rilevato l’acrimonia con la quale aveva pronunciato le ultime parole.
- Non sarebbe stato poi così grave se tu e Dinah…
- Cosa credi, pagano? – scattò Eleazar. – Che siamo come voi, pronti ad accoppiarci col primo venuto, noto o ignoto, libero o schiavo, maschio o femmina?
- Adesso basta! – lo fermò Aurelio, gelido. – Rispondi alle mie domande e non permetterti di criticare i miei costumi come io non ho mai, dico mai, criticato i tuoi! Il giovane tacque, ma dai suoi occhi sprizzavano faville di furore.
Inerme davanti al romano, pensava alle umiliazioni della sua gente, alle ingiustizie, alle sopraffazioni.
Vedeva una vergine ebrea tra le braccia di un romano.
Pensava a Dinah e agli anni di duro lavoro per meritarsela in sposa, agli sforzi terribili per moderare la sua passione, per non cedere alla tentazione di possederla prima che il baldacchino nuziale li avesse accolti come marito e moglie agli occhi di Dio.
L’umiliazione gli bruciava dentro come un ferro rovente.
- Eleazar, – lo apostrofò Aurelio – non far ricadere la tua disgrazia su tutta Roma! Il colpevole è uno solo, ed è lui che sto cercando.
Ma il ragazzo aveva ormai perso il controllo: – Quante volte, romano, hai sedotto una vergine, hai comprato l’amore di un’affamata? Ti sei mai chiesto quali sentimenti, quali angosce viveva in quel momento la donna con la quale ti stavi divertendo? Dimmi, quante schiave ebree hai nella tua casa? Voi pensate che tutto vi sia lecito.
Non avete leggi: i vostri dèi non ve lo impongono, e poi, chi di voi crede più“ agli dèi? Ma noi, noi abbiamo un patto con l’Eterno e niente è più“ importante che esserne degni! Aurelio ebbe un moto di collera: – Ecco ciò che realmente t’importa! Non che Dinah sia morta fra atroci sofferenze! Se fosse stata maciullata da un carro, sul ciglio della strada, o se un male incurabile l’avesse portata via, ti saresti strappato i capelli, ti saresti cosparso il capo di cenere e lacerato le vesti, ma ti saresti dato pace! E dopo un po’”un sensale ti avrebbe proposto un’altra moglie, un’altra buona sposa ebrea.
Ma Dinah è morta per un aborto, gravida di uno sconosciuto, da adultera.
In fondo al tuo cuore tu pensi che la sua fine sia giusta, che sia la naturale punizione per i suoi peccati!
Eleazar era quasi terreo.
- E non è forse così? – replicò freddamente.
- Non per me, che sono un pagano senza dio! Io vedo nella sua fine solo il frutto del fanatismo e dell’ignoranza.
Per me era una giovane bella, desiderabile, e viva.
Ha amato qualcuno che non eri tu, qualcuno che le era vietato.
E vorrei che fosse ancora qui, anche se mille volte adultera.
Eleazar si prese la testa fra le mani con un lungo singhiozzo.
- Anch’io, ed è questo che non mi perdono! Mi dico che l’Eterno l’ha giustamente colpita, eppure vorrei che fosse viva, anche tra le braccia di un altro! Nello sguardo di Aurelio guizzò un lampo di solidarietà.
Il giovane lo colse e ricompose all’istante la sua maschera dura d’orgoglio.
Aurelio sospirò: nessun argomento al mondo avrebbe abbattuto un muro costruito in decenni di esasperata diffidenza.
Riprese a interrogarlo, dubitando molto di ottenere qualcosa.
- Di che cosa ti parlava Dinah quando eravate soli?
- Non eravamo quasi mai soli, non sarebbe stato opportuno, col matrimonio così vicino! C’era quasi sempre Mordechai con noi, oppure Shula.
- La nutrice? Che cosa sai di lei? – Non è troppo in cervello: era un peso, più“ che un aiuto, nella casa di mio suocero.
Da quando Dinah è morta non è più“ uscita dalla sua stanza, ma anche prima.
Da parecchio tempo non era più“ in sé, e per giunta beve molto.
Era Dinah a dirigere la casa, da quando aveva dieci anni: sarebbe stata una buona moglie.
- Certo che lo sarebbe stata! – convenne Aurelio, ricordando la svelta ragazzina alla quale già da tempo si rivolgeva col titolo greco di Kyria, signora, riservato alla padrona di casa.
Quali tempeste interiori, quali desideri inconfessabili avevano agitato l’animo di quella donnina cresciuta anzitempo? Come, perché, aveva cercato di sfuggire all’uomo che le era stato imposto, alla fitta trama che altri avevano tessuto per lei?
- Mai voi due non avete mai…. – il patrizio esitava cercando nella memoria il termine eufemistico con cui gli ebrei indicavano il contatto sessuale. – Non l’hai mai conosciuta? – terminò infine.
- No, mai, te l’ho detto.
Però…
- Però? – incalzò Aurelio.
- Lei non si sarebbe rifiutata- concluse Eleazar con sforzo. – Ero il suo promesso sposo, e mi chiedeva di affrettare le nozze.
Ma io dovevo prima sistemarmi, non volevo che si dicesse che la sposavo per i soldi di suo padre.
Che errore è stato! Noi ci uniamo sempre giovanissimi. – Il rimorso gli si leggeva in faccia. – Sono stato io che non ho voluto.
La rimproverai aspramente e per un bel pezzo ci tenemmo il broncio.
Dovevo immaginare che niente può conservarsi puro in questa città.
- Quando succedeva questo? – Un anno fa.
Da allora ho moltiplicato gli sforzi per anticipare il matrimonio, ma Dinah era diventata evasiva.
Adesso era lei a non avere più“ fretta: i preparativi ormai si trascinavano da tempo.
- Quando l’hai vista l’ultima volta? – A Shabbat.
Era seria, pensierosa, e ricordo che me ne stupii, perché Mordechai parlava allegramente della festa, di come sarebbe stata la cerimonia.
Forse, meditò Aurelio, forse in quel momento Dinah stava decidendo di rinunciare a un amore impossibile e di accettare il suo destino di brava moglie ebrea.
Ma c’era un ostacolo; il seme estraneo che stava germogliando in lei.
Un ostacolo che a Roma era facile eliminare senza che nessuno ne sapesse nulla.
Poi, per tutta la vita sarebbe stata la sposa fedele di Eleazar, avrebbe concepito e allevato i suoi figli, alla sera avrebbe acceso il focolare per lui.
- Non hai idea di chi sia l’altro uomo? – domandò conoscendo in anticipo la risposta.
- E credi che, se lo sapessi, me ne starei qui senza fare nulla? – replicò Eleazar duramente.
Dopo di che non dissero più“ una parola.
Tornarono sui loro passi fianco a fianco, in silenzio, come se non si conoscessero.
La camera della balia puzzava di chiuso e la vecchia, coi radi capelli bianchi sparsi sulle spalle, lo guardava con occhi vuoti e stupiti.
- Dicono che è morta, ma non è vero.
Io lo so: se n’è andata.
Aurelio osservava la nutrice dondolarsi ritmicamente sullo sgabello, lo sguardo folle, le dita che tormentavano ossessivamente le ciocche luride.
- Davvero? – il patrizio finse di crederle. – E dov’è andata?
- Dal suo bello, dal suo innamorato! Ha dovuto far finta di morire, sai, perché…. – la vecchia si guardò intorno, circospetta, poi piantò le unghie adunche nella manica di Aurelio e attirò il viso del giovane vicino alla sua bocca sdentata, che puzzava di idromele Il raffinato senatore le rivolse un sorriso complice trattenendo il respiro.
- Perchè? – domandò a voce bassissima.
- Non poteva fare altrimenti, povera figliola! Non glielo avrebbero mai permesso! Era un goy, e un signore, come te. – Di colpo s’insospettì e guardò a lungo Aurelio, accigliata.
Poi fece una smorfia di disgusto: – Non sarai mica tu? – No, no, lui è molto più“ giovane, non ricordi? – la rassicurò il romano, rinunciando a ogni speranza di sapere da lei chi fosse lo sconosciuto amante di Dinah. – Pensi che siano felici insieme?
- Ma certo, sono così innamorati! – cantilenò la vecchia con una vocetta infantile.
- Ma lui è un goy!
- Che importa? Un’ebrea è sempre un’ebrea! – E dei loro figli, che ne sarà“? – I figli di madre ebrea sono ebrei! – sentenziò Shula con voce malferma. – Il padre non è importante! Vieni, brindiamo! – lo invitò, e trasse da sotto il letto un orcio di idromele cui si attaccò senza ritegno, passandolo poi ad Aurelio, dopo averlo strofinato sommariamente con la manica lercia.
Con un notevole sforzo di volontà, il patrizio accostò la bocca all’orlo e finse di bere.
- E“ un bel ragazzo, vero? – buttò là cercando di estorcere qualche informazione in più” dalla donna prima che si abbandonasse completamente ai fumi dell’alcool.
- Bellissimo, diceva Dinah, allegro e pieno di vita. non come quel musone di Eleazar che pensa solo a lavorare e studiare!
- E giù un altro sorso di idromele. – L’ho vestita io, sai, quando è partita! Le ho messo il mantello elegante, quello della sua mamma!
Aurelio rabbrividì. comprendendo che la nutrice stava descrivendo gli abiti con cui Dinah era stata sepolta.
La vecchia ne parlava come se fosse scappata di casa.
Perdonami, abba. ricordò Aurelio.
Un addio strano per una giovane che va ad abortire di nascosto.
Molto più“ adatto a un suicidio, invece, o a una fuga.
- Eh, sì, sarà“ felice, la mia bambina! – farneticava Shula- La mia Dinah, la mia bella Dinah.
- E il figlio, quando nascerà?
- Quale figlio?
- Il bambino, quello che Dinah aspetta dal suo innammorato!
- Nessun bambino, nessun bambino! Chi ti ha detto queste brutte cose? – si arrabbiò la vecchia, cominciando ad agitarsi.
- E“ partita: non c’è nessun bambino! Ah, stupido goy, ma quale bambino!
- Certo, certo, mi sono sbagliato! – cercò di rimediare lui.
Ma Shula, che nella sua pazzia aveva conservato intatta l’antica furbizia, fece chiaramente capire che il colloquio era finito, scacciando il patrizio con gesti convulsi.
- Miserabile pagano! – sbraitava, ormai completamente ubriaca. – Credi forse che la mia Dinah sia una delle puttane di Oppia? E“ una ragazza per bene, lei! Via di qua! La mia piccola ormai è lontana, con il suo Ruben!
Ruben! Mentre raggiungeva l’uscita sfuggendo di mira al cuscino che la vecchia gli aveva tirato dietro, il senatore stentava a credere alle sue orecchie.
Ruben: un nome tipicamente ebraico! Eppure tutti pensavano che il seduttore di Dinah fosse un romano, e la nutrice stessa glielo aveva confermato più“ volte nel suo discorso delirante.
Aurelio si era appena chiuso la porta alle spalle, quando il battente si spalancò di nuovo e la testa della vecchia ne emerse di scatto.
- L’hanno ammazzata, vero? – domandò con una specie di ghigno.
Il patrizio si sentì gelare, ma non fece in tempo ad aprir bocca che la porta si richiuse con un tonfo.
Nella sua stanza Shula si mise a canterellare in falsetto.
Aurelio scosse il capo e si decise a scendere.
Al piano di sotto Mordechai lo attendeva, affranto.
- Non ascoltarla: è una povera pazza.
Da anni ormai non ragiona più“ e solo la carità di mia figlia mi ha indotto a tenerla in casa.
Non so cosa ti abbia detto, ma non dare nessun peso alle sue parole: è convinta che Dinah sia ancora viva.
- Ho sentito – mormorò Aurelio, decidendo di tenersi per sé l’ultima, sconcertante affermazione della vecchia.
- Hai scoperto qualcosa? – gli domandò Mordechai senza fiducia.
- No, è troppo presto: devi avere molta pazienza.
- Ce l’ho, ce l’ho! Non mi resta altro ormai! E anche al mio popolo.
Ma uno di questi giorni l’imperatore si stancherà del suo amico Erode Agrippa e deciderà di deportarci tutti.
Oppure ci accuseranno di fomentare disordini.
Altrimenti ci imporranno nuove tasse.
- Voi siete uniti. Sopravviverete.
- Chissà? E se l’Eterno ci avesse ripudiato per i nostri peccati? – disse il vecchio a bassa voce, come parlando a se stesso. – Ci sono contrasti nella comunità: alcuni di noi hanno aderito alla setta di Yoshua ben Yoseph, quello che voi avete fatto crocefiggere e che i greci chiamano addirittura Cristo, l’Unto, come se si trattasse del nostro Messia! I seguaci di quel Cristo stanno rinnegando la fede dei padri: parecchi di loro non fanno nemmeno più“ circoncidere i figli! Ebrei non circoncisi, ragazze ebree che muoiono d’aborto: tutto cambia.
Io non ho più“ posto in questo mondo nuovo, e neppure lo voglio! Aurelio guardò l’amico e tacque.
- Continuerò a cercare, – disse brevemente e con un rapido Vale! uscì nella stradina affollata con mille ipotesi che gli sfrecciavano in mente.
Mentre stava per svoltare nella piazzetta, un piccolo corteo di studiosi, guidati dal rabbino, sbucò dall’angolo.
In mezzo a loro, splendidamente semitico nel viso, nei modi e nel linguaggio, un ospite importante dissertava con autorità su un passo controverso del Talmud.
Aurelio sorrise compiaciuto: Castore stava decisamente superando se stesso.