F. come Foa

Nella famiglia Foa, dopo Anna era nato Beppe, e dopo di lui Vittorio. I due maschi, in obbedienza all’uso, avevano preso il nome dei nonni: Beppe quello del nonno rabbino Giuseppe, Vittorio quello del nonno Della Torre. Si diceva che Vittorio fosse di salute cagionevole. Non so bene cosa si intendesse all’epoca con questo termine ormai desueto. In famiglia, dal momento che il nonno aveva perso per la tubercolosi la madre e due fratelli, ogni minima indisposizione era temuta come una grave minaccia.

Ricordo che da bambina, a Diano Marina, la nonna mi misurava sempre la febbre e, nonostante le mie proteste, mi teneva spesso a casa lontana dal mare perché mi scopriva febbricitante. Immagino che una generazione prima, quando ancora non esistevano gli antibiotici, i tre bambini debbano essere stati sottoposti a una stretta sorveglianza. Vittorio, che si ammalava spesso, fu subito tolto da scuola e studiò con sua madre, che del resto era maestra. Fu un bambino precoce, tenuto in grande considerazione dai suoi genitori. Il nonno con me lodava sempre la sua memoria, a suo dire quasi fotografica, sebbene Vittorio negasse di possedere tale virtù.

Quando cominciò ad andare a scuola, era sempre il primo della classe. Da bambino, a nove anni, scrisse una storia della rivoluzione comunista in Russia, poi perduta. Era, racconta, un’esaltazione della rivoluzione di febbraio, della rivoluzione della libertà. I comunisti erano i «cattivi». Alle superiori però si annoiava, tanto è vero che dopo la seconda liceo dette subito l’esame di maturità, facendo due anni in uno. Era molto considerato ma non era viziato. Il nonno, che credeva nel valore formativo del lavoro, lo mandò a quattordici anni a lavorare a Parigi nella banca di un suo cugino. Poi venne la laurea in legge, ottenuta a ventidue anni, relatore Luigi Einaudi. Non frequentava le lezioni e si laureò senza sforzo, ma anche senza mettervi troppo interesse. Di quegli anni non parlava quasi mai.

Subito dopo, fece il servizio militare, entrò alla scuola allievi ufficiali e poi, con il grado di sottotenente, nel battaglione del principe di Piemonte.

I Savoia avevano accolto nel battaglione alcuni «diversi»: figli di famiglie borghesi o piccolo borghesi, due o tre ebrei. Così mio padre giocava a tennis con le principesse, e gli successe anche di essere invitato a cena a Corte. Circolava nella corte del principe ereditario – raccontava – una sorta di antifascismo snobistico, che derideva il fascismo come rozzo e volgare. Ben presto, però, tutto questo mostrò la corda. Quegli stessi Savoia che facevano sedere alla loro tavola un ufficiale ebreo avrebbero firmato solo qualche anno dopo le leggi razziali e il principe di Piemonte non batté ciglio quando, dopo la condanna del tribunale speciale, un suo ufficiale, appunto mio padre, fu degradato. Dei Savoia, ma non era una Savoia, Vittorio salvava solo Maria José, che raccontava di avere incontrato durante la Resistenza. I contatti dell’ultima regina d’Italia con la Resistenza sono noti, ma ricordo che Vittorio era un po’ scettico e ricordava che Maria José, durante le riunioni con il CLN, si preoccupava dei suoi figli: «I miei bambini, i miei bambini!».

Nelle sue memorie Vittorio cerca nella propria infanzia e adolescenza l’origine prima della sua posizione politica e del suo impegno antifascista. A undici anni, nel 1921, fu molto colpito dalla devastazione della Camera del lavoro di Torino ad opera degli squadristi fascisti, davanti a cui si fermò sbigottito con sua sorella Anna. Nel 1924, nel bel mezzo del sequestro – e poi assassinio – di Matteotti, quando tornò da Parigi, suo padre gli andò incontro in treno a Modane e gli raccontò quello che stava succedendo. «Qui le cose vanno male», gli disse.

La mia impressione è quella di una pacata ma intensa attenzione famigliare alla politica, di uno sguardo etico verso il mondo che mio padre aveva assimilato fin da bambino. Così mio nonno, lungi dall’essere un rivoluzionario, ma invece grande ammiratore di Giolitti, vide subito nel fascismo un fattore eversivo del mondo liberale in cui era cresciuto e un pericolo per il Paese.

I miei nonni partecipavano di quel sentimento di italianità che era stato costruito nel Risorgimento, di cui la maggior parte degli ebrei italiani condivideva i valori. E ora quei valori, irrobustitisi nei cinquant’anni liberali, venivano travolti dalla dittatura. A quel fascismo, in molti casi fin dall’inizio, la maggior parte degli ebrei italiani aderì come gli altri italiani, interpretando, più o meno in buona fede, il fascismo come il compimento del processo risorgimentale, la dittatura come il perfezionamento dello Stato liberale. Il passaggio dai miti universalistici del Risorgimento a quelli nazionalistici del fascismo fu evidentemente facilitato dalla guerra. E solo pochi di quegli ebrei, nel mondo in cui erano nati e in cui vivevano, riuscirono a mantenere saldo il timone senza lasciarsi attrarre dalle sirene del duce. Mi domando se il non essere stati interventisti può aver aiutato questo rifiuto del fascismo, anche se è vero che la maggior parte degli ebrei che divennero antifascisti attivi invece venivano da un passato interventista, non neutralista.

Ma se si poteva essere non fascisti, più difficile era diventare antifascisti. Forse, uno degli elementi che concorsero a indirizzare mio padre nella direzione della cospirazione fu la noia di quel mondo italiano fascista e omologato dei primissimi anni Trenta, una sorta di grigiore spirituale in cui tutti poco a poco rinunciavano a pensare con la propria testa. In quel contesto, la sensazione più forte che provava era la solitudine, come racconta più volte nei suoi libri. Quanto a quegli ebrei che avevano aderito con tanto entusiasmo al fascismo, verso di loro non aveva grandi indulgenze; prevaleva il disprezzo. Continuò a disprezzarli anche nel 1938, quando il regime li rigettò in seguito alle leggi razziste, e anche più tardi, quando da vecchio rifletteva sul suo passato e sulla storia italiana.

Gli anni fra il 1932 e l’arresto non furono comunque per lui anni di ascesi e di riflessione solitaria. Faceva vita mondana, giocava a tennis, era pieno di amici, andava in montagna, aveva molto successo con le ragazze. Quando fu arrestato era quasi fidanzato con una giovane ebrea francese, Colette. Era molto carina, di una ricca famiglia borghese, lontanissima dalla politica. Non poteva scrivergli né riceverne lettere: in carcere erano consentiti solo i rapporti epistolari con i famigliari. Dopo qualche tempo, Colette scrisse una lettera a Mussolini per chiedergli di graziarlo.

«Otto giorni fa – scriveva Vittorio ai suoi nel marzo 1937 – venni informato che una mia giovane amica lontana aveva fatto nel mio interesse un’istanza di grazia. Si chiedeva se io volessi aderirvi. Risposi – per iscritto – rifiutando. È bene che quella ragazza sappia ciò. Tuttavia se, come è probabile, essa si è indotta segretamente, e a insaputa dei suoi, a questa mossa sconsiderata, è opportuno che di ciò non parliate con nessuno. Malgrado tutto, le è dovuto questo riguardo». In vecchiaia, Colette scrisse un libro in cui raccontava questa vicenda e questo amore infelice che, dice, aveva condizionato tutta la sua vita. E dalle sue parole si capisce che aveva passato anni a pensare a lui senza mai capire nulla dei suoi pensieri, della sua vita, dei suoi interessi.

I fili di questa ricostruzione sono intricati. In parte, seguo quelli tracciati dallo stesso Vittorio nella sua autobiografia, ma cerco anche di vederlo con il mio sguardo di oggi. Tutta la sua vita sembra confluire nell’arresto del 1935 e nel carcere: gli studi, la precocità intellettuale, la laurea in legge, e poi la cospirazione. Nella cospirazione attiva entrò all’inizio del 1933 su sollecitazione di Leone Ginzburg. Aveva allora ventidue anni. Sarebbero cominciati due anni che nelle sue memorie definisce di eccezionale felicità. L’amicizia con Ginzburg ha avuto una parte capitale nella vita di Vittorio. Lo aveva conosciuto al D’Azeglio, poi lo aveva ritrovato nelle frequentazioni del mondo antifascista torinese: Paola e Carla Malvano, Giorgina Lattes, Barbara Allason. In casa sua Vittorio aveva conosciuto anche Benedetto Croce. Nelle sue memorie Vittorio definisce Ginzburg come «autorevole» e dice che nemmeno Croce si sottraeva al suo fascino. Fu per Vittorio molto più che un amico, in numerose occasioni lo definì un maestro. Aveva nei suoi confronti una sorta di timore reverenziale, che ha poi in parte proiettato su Carlo, il primogenito di Leone. Per Vittorio era un figlio, e a sua volta lui era per Carlo una figura paterna. Eppure, nonostante ciò, ho visto Vittorio diventare molto nervoso quando dava qualcosa di suo da leggere a Carlo e ne aspettava il giudizio.

Nel marzo 1934, l’arresto di Sion Segre e la fuga di Mario Levi crearono un clima di grande preoccupazione fra gli antifascisti torinesi sfuggiti all’arresto. Mia zia Anna, che era quasi fidanzata con Mario Levi, raccontava di aver bruciato tutte le sue lettere. Mio zio Renzo, che di Mario Levi era amico fraterno, si mise ad attendere di essere anche lui arrestato; poi, stanco di aspettare, lo raggiunse clandestinamente a Parigi. La maggior parte degli arrestati erano ebrei, fatto che scatenò un’inaspettata propaganda antisemita nella stampa di regime, virulenta, ma di breve durata, la prima in assoluto a verificarsi in Italia. Un’altra delle conseguenze dell’episodio di Ponte Tresa fu che causò l’incontro, a casa dei Levi, tra Vittorio e Dino Segre, detto Pitigrilli, che entrò così nel gruppo di Giustizia e Libertà: era, come si è detto, la spia dell’OVRA che entro un anno avrebbe fatto arrestare l’intero gruppo.

Carlo Levi quella volta se la cavò con un’ammonizione e nel maggio 1934 era di nuovo libero, per diventare, arrestato Ginzburg, la figura più autorevole del gruppo antifascista torinese. Ne facevano parte in molti: Massimo Mila, il futuro musicologo, mio nonno Giua, Alberto Levi, fratello di Mario Levi e di Natalia, Vindice Cavallera e tanti altri: il fior fiore del liberalsocialismo torinese, insomma. Una cospirazione alla luce del sole, l’ha definita Benedetto Croce, volta a scrivere, a suscitare energie di resistenza alla dittatura, a far pensare. Non c’erano preparazioni di attentati, minacce alla vita di Mussolini, attività di propaganda nelle fabbriche – che in genere era terreno dei comunisti – nonostante la polizia fascista, che sorvegliava tutti da vicino, fosse comunque sempre sul chi vive. Per molto tempo, si diceva mio padre, mi sono domandato se il fascismo non ci considerasse ben più pericolosi di quanto non fossimo.

La polizia seguiva tutti con attenzione, le condanne, in particolare la sua e quella di Giua, furono durissime. Tutto questo per qualche articolo su giornali clandestini? «Forse la politica come educazione è più pericolosa della politica come propaganda», si è risposto nelle sue memorie. «Forse è anche per questo che nessuno di noi si è rammaricato per l’alto prezzo pagato per un’attività apparentemente così modesta».

Fra il 1934 e il 1935, comunque, tutti percepivano di essere sul punto di essere a loro volta arrestati. Risale alla primavera del 1935 il ritratto che Carlo Levi ha fatto a mio padre. Vittorio era tesissimo, sentiva che la rete si stava chiudendo, lo si vede anche dal ritratto, dove appare molto più vecchio dei suoi ventiquattro anni. E forse fu per fargli coraggio che Levi gli propose di ritrarlo. Il 15 maggio, all’alba, gli arresti. Con mio padre veniva arrestato suo padre, poi rilasciato dopo alcuni giorni, e suo fratello Beppe, completamente estraneo e poi assolto dal tribunale speciale. La polizia si recò di nuovo in casa del professor Levi. Questa volta arrestò non lui ma suo figlio Alberto, amico fraterno di mio padre. Il professor Levi era convinto che Vittorio e Alberto, che passeggiavano sempre nei viali e si telefonavano di continuo, fossero dei perditempo, attenti solo alle ragazze. Fu quindi molto stupito nel venire a sapere che erano anche loro dei cospiratori. Lo racconta, con lievità ed ironia, Natalia in Lessico famigliare. Tutte quelle telefonate, dove non si parlava di ragazze ma si cospirava, erano registrate dalla polizia. Ne ho visto le trascrizioni, depositate all’Archivio di Stato.

Questa volta, a differenza che nell’anno precedente, la stampa di regime non diede vita a una campagna antisemita. Però mia zia racconta nelle sue memorie come gli ebrei torinesi, un piccolo mondo in cui tutti erano parenti o amici fra loro, fecero il vuoto intorno a lei e a sua madre rimaste libere. Già nel 1934, proprio come reazione agli arresti dei primi antifascisti e all’attacco antisemita dei giornali, Ettore Ovazza aveva fondato a Torino la rivista fascista «La nostra bandiera» per dimostrare la fedeltà al regime degli ebrei italiani. Erano gli anni del consenso maggiore al fascismo, in cui gli unici antifascisti erano ormai solo i cospiratori e i loro famigliari più stretti. Vittorio racconta che la sensazione più forte che si aveva, in quegli anni, era di solitudine.

E così, la famiglia Foa restò sola dopo l’arresto di Vittorio e dei suoi. Solo un cugino a loro molto legato si fece vivo, e, oltre a lui, l’agente provocatore che aveva denunciato gli arrestati, Pitigrilli. I Foa non sapevano ancora che si trattava di una spia e lo accolsero con riconoscenza. Cercava evidentemente di ottenere ulteriori informazioni. Nessun altro era andato a trovarli, tra gli amici e i parenti: la nonna e la zia Anna erano state lasciate sole.

Quel cugino tanto vicino ai Foa, che aveva sfidato la paura del regime per esser loro accanto, si chiamava Eugenio Fubini, era il figlio di un grande matematico, Guido Fubini, che, fra l’altro, aveva cercato invano di instillare qualche nozione di matematica nella testa refrattaria ai numeri di mia zia bambina. Eugenio era un fisico, il più giovane degli allievi di Enrico Fermi a Roma. Dopo le leggi del 1938, che avevano distrutto completamente l’Istituto di via Panisperna, Eugenio, come suo padre Guido, emigrò negli Stati Uniti. Grande esperto di radar, nel 1943 affiancò da civile un contingente militare statunitense che dalla Corsica cercava di neutralizzare i radar nazisti: «Eugenio – scrive il figlio David in un libro del 2009 sulla vita di suo padre – divenne l’unico individuo a conoscere la posizione precisa di ogni radar tedesco collocato nel teatro meridionale». Nel 1944 lo troviamo in Normandia a neutralizzare i radar tedeschi per facilitare lo sbarco degli Alleati. Più tardi, sotto Kennedy, sarebbe diventato un alto funzionario nel campo della ricerca nel Dipartimento della Difesa americano.

Da piccoli, noi eravamo tanto settari che lo consideravamo il cugino «cattivo», quello che lavorava nel governo americano. Tanto in fretta si era persa la memoria, nel clima della Guerra Fredda, del fatto che a salvarci da Hitler erano stati proprio gli americani! A Diano Marina io e i miei fratelli vedevamo tutti gli anni sua madre, Annetta Fubini. Abitava sopra i miei nonni, al secondo piano. Era una donna magra e sempre molto elegante, che passava alcuni mesi in Italia e gli altri negli Stati Uniti. Tutte le sere, giocavamo a canasta coi nonni a casa sua. Per una bambina come me era una gran noia, tanto che da allora ho sviluppato un’avversione decisa per tutti i giochi di carte.

Dopo il processo davanti al tribunale speciale, iniziava per Vittorio il carcere: oltre otto anni passati in un carcere assai duro, per lui gli anni della giovinezza, tanto che ha intitolato la raccolta delle sue lettere dal carcere Lettere della giovinezza. Anni in cui, fra l’altro, si ammalò, ebbe il morbo di Basedow, una malattia dal sapore letterario, quella di Ada in La coscienza di Zeno, con disturbi che gli resero molto difficile la detenzione, ereditata poi da Bettina e da mio figlio Andrea. Furono anni di educazione di sé, una vera e propria Bildung, di letture sterminate in celle in cui si studiava e si apprendeva. Ne restò, in famiglia, l’idea che per farsi davvero una cultura fosse indispensabile andare in prigione.

Da adolescente, quando già facevo politica ed ogni tanto venivo fermata a qualche manifestazione, questi fermi di poche ore mi sembravano drammaticamente insufficienti e disperavo di poter mai diventare sapiente. In prigione, però, per Vittorio avere i libri era difficile, bisognava fare richieste e le richieste erano valutate personalmente dal capo della polizia politica Arturo Bocchini. Le richieste passavano dal direttore del carcere all’ufficio di Bocchini e di lì veniva la risposta, positiva o negativa che fosse. La censura era durissima, anche se seguiva criteri tutti suoi. A volte, erano rifiutati libri del tutto innocui e consentiti testi molto più «pericolosi». Anche le lettere, per tutti gli anni di Regina Coeli le uniche forme di scrittura concesse, erano naturalmente sottoposte a censura. Gli indelebili freghi neri dell’inchiostro della censura non sono stati cancellati neppure dall’Istituto del restauro, a cui ci siamo rivolti quando Vittorio ha pubblicato le lettere. Per fortuna i censori erano stupidi: censuravano ogni riferimento ai secondini, ma non per esempio le riflessioni sulle leggi razziste del 1938. Non andavano oltre il loro naso.

Anche sottoposti alle infinite restrizioni del carcere di quegli anni – la censura, la possibilità di corrispondere solo con i più stretti famigliari e anche in quel caso solo una volta la settimana, la proibizione di scrivere e prendere appunti tranne che in occasione di questa corrispondenza, le punizioni frequenti, la più temuta delle quali era l’isolamento, la sorveglianza stretta dei secondini, i colloqui coi famigliari rari e controllati –, anche così, scrive mio padre, la comunicazione era intensissima, in primo luogo con i compagni di detenzione. A Regina Coeli, dove fu detenuto dal 1935 al 1940, e dove era ridotto in una piccola cella, ebbe come compagni, fra il marzo 1936, dopo la sua condanna, e il 1939, data in cui entrambi vennero inviati al confino, Riccardo Bauer ed Ernesto Rossi. Antifascisti, dirigenti di Giustizia e Libertà, erano stati arrestati nel 1930 e condannati entrambi a vent’anni di galera. Rossi, che nel carcere disegnò cento vignette, ha ritratto il loro incontro con mio padre, nella cella, in una vignetta in cui Vittorio si avvicina con un gran sorriso e la mano tesa a salutarli, e loro due restano sulle loro, temendo si trattasse di una spia. Vestono tutti e tre la divisa carceraria a strisce: «La mattina in cui mi fecero entrare in un cubicolo abitato da questi due personaggi, Rossi e Bauer, li identificai a prima vista. E mi chiesi: a che cosa devo una simile fortuna? Avevano una quindicina di anni più di me. Erano i massimi esponenti di Giustizia e Libertà rimasti in Italia. Vecchi lupi di galera, li circondava una leggenda. Rossi, in particolare, era come un fuoco d’artifizio. Il suo senso dell’umorismo componeva con l’austerità di Bauer una miscela preziosa. Sdrammatizzante».

Iniziavano anni di studio e discussioni, di vera e propria formazione. Prima di entrare in carcere, mio padre aveva studiato soprattutto economia politica. Ora studia la filosofia, sotto la guida di Bauer, e la matematica sotto quella di Rossi. Si volge ai libri di Croce, che legge avidamente. Sia lui che Bauer potevano definirsi crociani, al contrario di Rossi, tutto dedito alle scienze economiche e alla matematica. Non potevano avere carta e penna, scrivevano sul vetro, con il sapone. La chiamavano «matematica in vitro», racconta nelle sue memorie. Osservavano rigorosamente gli orari dello studio. Erano molto attenti a non autocommiserarsi, e quindi si chiamavano ironicamente «martire»: «Martire Bauer, passami il sale». Il bersaglio era evidentemente il Silvio Pellico di Le mie prigioni.

La venerazione per Croce non impedisce ai tre prigionieri di spedirgli per via clandestina un messaggio di riprovazione quando questi dona, nel 1936, la sua fede d’oro alla patria. Un messaggio che però non arrivò a destinazione.

Questa stretta comunanza si sciolse nel 1939: la maggior parte dei suoi compagni di carcere, Mila, Cavallera, Perelli, finirono di scontare la pena, Rossi e Bauer furono inviati al confino. Vittorio restava solo. Nel 1940 sarebbe stato trasferito nel carcere dalle ampie camerate di Civitavecchia, proprio nel momento in cui in Italia le leggi razziste toglievano i diritti agli ebrei e costringevano gran parte della sua famiglia all’esilio e mentre l’Europa precipitava nella guerra. Non perdeva il suo innato ottimismo, e nelle lettere degli ultimi anni, tra il 1939 e il 1943, prima da Civitavecchia poi da Castelfranco Emilia, ricorre ora una delle sue espressioni preferite, «nostalgia del futuro». È la preparazione, che si vena di malinconia, verso ciò che bisogna fare, verso il futuro che aspetta. Nel suo caso, la liberazione dal carcere, la Resistenza, la vita, la politica.

L’altra espressione da lui molto amata è una frase di Vico: «Paiono traversie ma sono opportunità», che denota il suo ottimismo nelle questioni di grande respiro: saper agire per cogliere le possibilità esistenti anche nelle circostanze più sfavorevoli. La mossa del cavallo, insomma. Invece nella vita quotidiana era ansiosissimo e sempre pronto a pensare al peggio se qualcuno dei suoi cari tardava a rientrare o stava male. Una volta che aspettavamo a Formia la visita di Natalia Ginzburg, che veniva in macchina da Sperlonga accompagnata da una mia amica, si agitò moltissimo perché tardavano e giunse a telefonare alla polizia per chiedere se c’erano stati incidenti stradali che l’avessero coinvolta. Erano anni ancora senza telefonini.

Dal maggio 1935 all’agosto 1943 sono più di otto anni: otto lunghi anni in una cella, fra le mura di carceri oppressivi. Vittorio li ha impegnati a studiare, certo, e non descrive mai un attimo di noia nelle lettere indirizzate ai suoi genitori che racchiudono tutto il suo sentire di carcerato. Ma riflette anche molto sul tempo. Ha imparato là, infatti, quello che di solito si impara solo invecchiando, che la velocità del tempo è sempre diversa, che il tempo può essere veloce e lentissimo e a volte ambedue le cose insieme. Ne scriveva già nel 1949, in un bel numero de «Il Ponte» dedicato all’esperienza carceraria. I giorni in carcere passano con molta lentezza, diceva, mentre i mesi e gli anni passano velocissimi. Inoltre, l’attesa della fine della pena variava in funzione della pena già trascorsa. Era tanto più lunga quanto più lunga era la pena già scontata e più breve il tempo da trascorrere in carcere: «Sono sdraiato nella branda, i muscoli rilassati, il respiro rattenuto, immobile. So che fra qualche minuto dovrà accadere un evento piacevolmente atteso, mi porteranno la minestra calda, o i giornali illustrati. Solo pochi minuti avanzano, sento già il rumore degli sportelli aperti e chiusi nel braccio. Ma mi pare impossibile che tale momento possa arrivare. Penso con spavento all’infinità di atti che devo compiere per perfezionare l’evento atteso [...] lo spazio di un anno non mi sembra abbastanza lungo per la quantità di atti da compiere». È il paradosso eleatico, secondo cui Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga, la freccia colpire il bersaglio. Quando eravamo piccoli, Vittorio ce lo spiegava, e noi proprio non riuscivamo a capire, ci mettevamo a camminare per dimostrare che invece era possibile, senza sapere che era la stessa risposta che già era stata data agli eleatici dai loro critici nell’antica Grecia.

Degli arrestati di Giustizia e Libertà nel maggio 1935, solo mio padre e mio nonno non furono liberati o mandati al confino prima della caduta di Mussolini. Mi sono spesso domandata se ci sia stato da parte del regime un fraintendimento del ruolo politico di mio nonno. Esatta era invece la valutazione che la polizia politica dava di Vittorio come del capo, in questa fase, della cospirazione antifascista torinese. Essa si basava molto sui rapporti di Pitigrilli ma anche su altri documenti, in particolare sulle deposizioni di alcuni arrestati. Penso in particolare ad una deposizione fatta in carcere da Leo Levi, poi illustre musicologo, uno dei leader del movimento sionista in Italia, finito recentemente in odore di antifascismo, che nel suo interrogatorio, nel giugno 1935, riferiva particolareggiatamente degli ambienti antifascisti torinesi dando a mio padre un ruolo di rilievo: «Di una sua concreta attività cospirativa non ho mai saputo. Tuttavia – data la formazione politica del Foà [sic!], l’ambiente con cui viveva a quotidiano contatto (Allason, Muggia, Malvano, ecc.), e la sua vivace intelligenza – è più che lecito pensare che egli avesse una funzione direttiva in seno al gruppo di antifascisti di cui era attorniato». Leo Levi fu successivamente liberato in seguito ad una domanda di grazia a Mussolini.

La questione della richiesta di grazia era un po’ come quella dell’iscrizione al Partito fascista per poter lavorare. Con la differenza che era di maggior peso. Meno grave era infatti accettare di prendere la tessera del Fascio, dal momento che essa era necessaria per lavorare. Mio padre dette la sua approvazione al fratello Beppe che si trovava nella necessità di prenderla se voleva continuare a lavorare alla Piaggio e a progettare i suoi aerei. È quello che ti interessa, che ti importa fare, gli disse.

Per chi era in prigione, la richiesta di grazia a Mussolini consentiva in alcuni casi una riduzione della pena o la commutazione della pena dal carcere al confino, ma era molto mal considerata: voleva dire la sconfitta, il darla vinta al fascismo. Molti l’hanno fatto, ma molti invece hanno preferito soffrire le pressioni delle famiglie, a volte ridotte alla fame dal loro arresto. Mio padre non dovette nemmeno subire queste pressioni perché i suoi genitori gli furono solidali, e quindi gli fu più facile rifiutare, senza tentennamenti, di chiedere la grazia. Certo, le richieste di grazia, i memoriali al duce che gli testimoniano la fedeltà di quegli oppositori momentaneamente traviati, e che a volte sembrano vere e proprie denunce dei compagni arrestati, sono terribili, soprattutto a leggerli ora. Era diventato di moda, anni fa, tirare fuori questi scheletri dagli armadi di persone note per essere un baluardo della democrazia.

Vittorio era di solito indulgente su questi casi. Carlo Ginzburg, altro figlio di un intransigente come suo padre Leo­ne, che all’epoca era anche lui indulgente con gli altri, dice che proprio l’essere così intransigenti consentiva loro una certa indulgenza nei confronti degli altri che lo erano di meno. Ricordo che uno di questi scopritori di scheletri venne una volta a riferire a Vittorio le sue ricerche. Lui gli chiese se avesse scoperto qualche scheletro anche nel suo armadio. «Nessuno», fu la risposta. «Ah, meno male», disse Vittorio, non senza ironia.

Vittorio era, come ho detto, in carcere quando nel 1938 le leggi razziste emarginavano gli ebrei italiani, li cacciavano dalle scuole e dai posti di lavoro. «Non sapevano cosa farsene di me, ero l’unico ebreo», raccontava. L’unica persecuzione che lui subì fu quella di essere messo in isolamento per un mese. Da vecchio, disse ad una giornalista israeliana che lo intervistava di essere stato uno dei pochi ebrei italiani a sfuggire alle conseguenze delle leggi del ’38. Un privilegiato, insomma. Dal chiuso della sua cella, però, fu anche uno dei pochi a gettare uno sguardo più che lucido sul futuro: «In un romanzo di Franz Werfel [I quaranta giorni del Mussa Dagh] – scriveva nel luglio 1939 – ho trovato una descrizione abbastanza fedele di quello che sarebbe il trattamento degli ebrei in Mitteleuropa e forse anche nelle sue dipendenze, se dovesse scoppiare una guerra contro l’Occidente. È la descrizione della deportazione e dei massacri degli armeni da parte dei turchi nell’estate del 1915».

Per il momento, lo angosciava la sorte della sua famiglia. Era contento che i suoi fratelli fossero riusciti ad emigrare negli Stati Uniti e cercava invano di spingere i suoi genitori a seguirli. Ma i miei nonni non vollero lasciarlo. Non sarebbero mai partiti lasciandolo in cella.

Più tardi, mio padre si è chiesto quale sarebbe stata la sua vita senza quella giovinezza passata in carcere. Ha pensato di scrivere un romanzo su quella sua vita alternativa, e ha anche incominciato a farlo, ma ha rinunciato dopo poche decine di pagine. D’altronde, questa sua vita non vissuta poteva solo essere una fiction. Ne parla in Il Cavallo e la Torre, e credo che questo suo tentativo di immaginarsi una strada diversa appartenesse agli anni Ottanta, anni per lui di grande ripensamento. Nel romanzo, il suo Io si sdoppia in due persone: Emilio, che vive nella seconda metà degli anni Trenta una vita agiata e tranquilla in una Torino che Vittorio dalle mura della prigione riusciva solo ad immaginare, ed Elio, il suo alter ego in prigione o forse lontano detenuto come Dreyfus all’Isola del Diavolo. Emilio è pieno di sensi di colpa per non aver scelto la lotta, per non essere andato in Spagna a combattere il franchismo, per Elio incarcerato. Nel dilemma fra eroismo e antieroismo, si racconta Vittorio, Emilio dovrebbe rappresentare l’antieroe, ma il tentativo gli riesce impossibile perché alla fine anche lui sceglierà, convinto di aver trovato la terza via, la strada della verità, cioè quella dell’impegno e della lotta: «Non riuscirai a sfuggire alle tue vecchie rotaie», si dice allora mio padre, e abbandona il romanzo. Ma quando era nato in lui il senso di colpa? Nel chiuso del carcere o dopo, nel ripensamento della vecchiaia? In carcere, racconta nelle sue memorie, aveva sognato più volte di essere stato rimesso in libertà e di incontrare Leone Ginzburg e Carlo Levi: «parlavano fra loro e mi salutavano appena, appena salutatomi se ne andavano ognuno per conto suo, lasciandomi lì solo e umiliato». E spiegava, dopo cinquant’anni quei sogni: «Mi sentivo in colpa perché ero inattivo: è vero che la mia inattività era costretta (ero in carcere) ma non facevo nulla per fuggire».