L’89 di Renzo
Renzo, mio fratello. Di lui Ferdinando Adornato, che fu suo direttore a «Liberal», scrisse che aveva avuto in sorte il dono dell’inattualità. Un dono prezioso, in cui aveva come precorso i tempi. Fin da piccolo creava giornali ovunque si trovasse, ed era come se fosse nato dentro il PCI. Nel 1989, era vicedirettore dell’«Unità». Quando la sera del 9 novembre cominciò ad arrivare al giornale la notizia, ancora incerta, della caduta del Muro, Renzo, insieme al capo-redattore Piero Sansonetti, senza consultare il partito, con cui erano ai ferri corti, aprirono il giornale con un titolo a tutta pagina Si è aperto il muro di Berlino. Il sottotitolo recitava: Clamorosa svolta nella RDT. La città è in festa. Il giorno dopo, mentre fervevano le battaglie interne al partito fra i novatori e i comunisti, il titolo fu ancora più netto: Il giorno più bello per l’Europa, seguito da un editoriale di Renzo in cui diceva che tutto il continente cambiava con quella caduta. Nel suo libro postumo, Ho visto morire il comunismo, Renzo scrive di essere stato, come tutti, stupefatto da quella caduta così veloce e così definitiva. Come tutti, credeva in una riforma anche radicale del comunismo, come quella proposta da Gorbačëv, ma non nel suo crollo definitivo.
Alla fine del 1987, come vicedirettore dell’«Unità», Renzo era andato a Praga e aveva intervistato Alexander Dubček in piazza San Venceslao, in maniera semiclandestina. L’intervista non era priva di rischi per Dubček, ma neanche per Renzo. Il leader della Primavera di Praga era un uomo perseguitato ed emarginato. Aveva vissuto dal 1970 in poi lavorando come manovale, sottoposto a tutte le restrizioni e i controlli del potere comunista cecoslovacco. La sua intervista fu ripresa in tutto il mondo, segnando il suo rientro sulla scena politica. Dubček ottenne il permesso, nel gennaio 1988, di andare a Bologna dove ricevette la laurea ad honorem, e a Roma dove incontrò Occhetto, Craxi e Giovanni Paolo II.

Nel 1990 Renzo fu nominato direttore, e si dice che Pajetta avesse protestato: «Va bene un non comunista all’‘Unità’, ma addirittura un anticomunista?». Sotto la sua direzione, il giornale divenne vivace e anticonformista, e aumentò molto le sue tirature. Ma «l’Unità» non era un giornale come gli altri, era soprattutto una merce di scambio fra le correnti del PCI, e fu così che Renzo fu sostituito da Veltroni, e nel modo peggiore, venendo a saperlo dall’ANSA. Cominciarono le sue peregrinazioni, al «Giornale», poi a «Liberal», attaccato dai suoi ex compagni di partito come un traditore e rifiutando di considerarsi un transfuga, anzi continuando a definirsi «uomo di sinistra». Scrisse, fece il giornalista, ebbe una vita piena. Morì nel 2009, pochi mesi dopo nostro padre, di un brutto cancro contro cui aveva combattuto con coraggio. Alla fine di luglio del 2008, quando erano tutti e due molto malati e Vittorio si spostava in una sedia a rotelle, riuscirono ad incontrarsi. Vittorio era deciso a fare di tutto per vedere suo figlio, in quel mese di luglio che trascorrevamo in montagna, ma in Abruzzo perché anche andare a Morgex era troppo per lui, e propose a mia sorella: «Prendiamo un treno e andiamo a trovare Renzo!».
Tornò apposta a Roma dalla montagna e lo portammo da Renzo, con fatica perché era debolissimo. Sarebbe morto due mesi dopo. Erano tutti e due molto commossi e li lasciammo soli a parlarsi. Non molto tempo dopo mio fratello ha scritto una bellissima postfazione alla riedizione del suo libro di dieci anni prima Noi europei, un dialogo fra lui e Vittorio. È intitolata Un padre che chiamavo Vittorio: è l’ultimo scritto di Renzo, uscito due mesi prima che morisse, e ripercorre il rapporto intenso di dialogo politico e intellettuale avuto nella sua vita con suo padre. Due volte, racconta Renzo, i ruoli fra lui e suo padre si invertirono, e suo padre apparve più moderato di lui: la prima nel 1985 quando il PCI, con «l’Unità» al primo posto, si impegnò per il referendum popolare contro il taglio della scala mobile, cosa che Vittorio giudicava un errore, e la seconda nel 1991, quando Vittorio votò in Senato a favore della prima guerra del Golfo: «Mi chiese – ricorda a proposito del referendum – perché ‘l’Unità’ stesse facendo una campagna così propagandistica, lontana dai problemi reali del mondo del lavoro. Debbo anche a lui e a quelle sue osservazioni la possibilità che ebbi di leggere la crisi del PCI che esplose quell’anno». E ricorda come in un’intervista nostro padre avesse detto di lui: «Ho un figlio, Renzo, giornalista, che è sempre stato molto indipendente. Sono molto felice che pensi con la sua testa e non con la mia». Poco dopo la sua morte, uscì il libro che non aveva fatto in tempo a finire, Ho visto morire il comunismo, a cui teneva molto. Raccoglieva scritti e riflessioni del passato che stava riprendendo e aggiornando. Lo ha curato con intelligenza e amore la mia amica Lucetta Scaraffia, che gli era stata molto vicina, soprattutto negli ultimi mesi.
Su una questione in particolare i miei genitori furono sempre dello stesso parere: il pacifismo. Per mio padre, il pacifismo era Monaco, l’abbandono a Hitler da parte delle potenze europee, il tirarsi fuori quando c’erano Paesi aggrediti, devastati. Nel 1991, era allora senatore indipendente per il PCI, votò infatti in Senato a favore dell’intervento italiano nella prima guerra del Golfo, fra lo stupore e la riprovazione del suo schieramento politico. Sono sempre stata fiera di questa sua posizione. Non era l’unico, a sinistra, a pensarla così, anche Bobbio aveva preso posizione a favore della «guerra giusta» sulla prima pagina dell’«Unità», ma gli umori prevalenti nel popolo della sinistra erano pacifisti a oltranza. Più o meno le stesse erano le argomentazioni di mia madre, il richiamo a Monaco, all’abbandono della Spagna a Franco e a Hitler. «È difficile parlare di pace finché ci sono le fosse comuni», diceva. Per lei l’aiuto umanitario era in molti casi una necessità, e salutò con sollievo l’intervento armato della NATO in Bosnia nel 1995: «La bandiera multicolore può coprire il mantenimento dello status quo», scriveva. Sono d’accordo con loro. Se vedi per strada un debole aggredito, non sei moralmente obbligato a salvarlo? E l’indifferenza non è forse il peggiore dei mali?
Il problema si è ripresentato a proposito della Siria. L’Europa, e anche l’America di Obama, hanno finito per lasciare via libera a un dittatore sanguinario pur di evitare di smuovere lo status quo. La stessa paura che ci ha spinto a guardare con sospetto le «primavere arabe». Meglio i dittatori, si diceva, con cui si possono fare accordi. Mi tornava alla mente la lezione di mia madre sull’Ostpolitik, che aveva abbandonato al suo destino i dissidenti dell’Est per stringere alleanze con i dittatori. Ma forse è vero che, da Monaco in poi, questa è stata la scelta della vecchia Europa. Se non fosse stato Hitler ad attaccare, forse gli avremmo lasciato inghiottire l’Europa intera un pezzo dietro l’altro, senza nemmeno fargli guerra.