Castelsardo

Sulla costa Nord della Sardegna, vicino Sassari, a metà del Golfo dell’Asinara, affacciata dall’alto sul mare, si erge Castelsardo, cinta da grandi mura massicce, costruite per difendere più che la città l’intera regione. Nessun attaccante riuscì mai a conquistarla. Nel Medioevo si chiamava Castel Genovese dalla famiglia genovese dei Doria, poi, nel Cinquecento, divenne Castel Aragonese e infine, nel Settecento, Castelsardo, prendendo così il nome delle successive dominazioni genovese, spagnola, piemontese.

L’ho vista per la prima volta a venticinque anni, quando vi andai con la nonna Giua, dopo la morte del nonno e di sua sorella Eufemia, per prendere possesso della casa. La nonna raccontava dei muli, delle strade polverose, dello yogurt portato nei canestri dai pastori, di sua suocera che mandava la cena ai detenuti alloggiati temporaneamente nel castello prima di essere rinchiusi nel carcere dell’Asinara. La casa era scavata nelle mura accanto al castello; modesta ma intrigante. Ci ho passato le estati per oltre dieci anni, visitando nuraghi e chiese romaniche con i Marinucci, la famiglia di mio marito.

Lì, il 26 aprile 1889, nacque mio nonno Michele Giua. Sua madre, Paolina Bitti, era separata dal marito Lorenzo, che era maestro elementare a Sassari, e viveva a Castelsardo con i due figli Michele ed Eufemia, la maggiore. Nel paese, appartenevano ad un’élite che non so se definire borghese. Si racconta di una faida secolare fra la famiglia dei Bitti e quella rivale dei Corso. Successivamente, nelle sue visite a Castelsardo da ragazzina, mia madre avrebbe infranto il tabù andando a ballare con i rampolli dei Corso. Nonno Michele, nonno Chele come lo chiamavamo noi bambini da piccoli, con cui pure ho passato molto tempo da bambina, della Sardegna non parlava mai, invece. C’è quasi da pensare che l’avesse cancellata. Eppure, leggendo le memorie dei suoi anni di prigione, il legame con la Sardegna emerge con forza.

Detenuto a Civitavecchia, ad esempio, il rumore del mare che arriva nella cella gli ricorda quello delle onde e del vento della sua Castelsardo, gli scogli dove, bambino, si inebriava di salsedine, l’acqua del mare in tempesta. Doveva averla ben rimossa, però, quella sua Sardegna che rammentava nella solitudine del carcere, se negli anni del dopoguerra non vi ha mai più rimesso piede e se ha sempre scelto, per tutta la vita, di passare le vacanze in montagna. Non ho mai visto il nonno su una spiaggia.

Aveva lasciato la Sardegna giovanissimo, finite le scuole superiori, nel 1907, per studiare chimica a Roma. Non so quasi nulla di quegli anni da studente a Roma. Me lo immagino al tempo stesso timido ed entusiasta, innamorato dei suoi studi e della politica, ma ritirato e schivo. Al Partito socialista si era iscritto giovanissimo nel 1906, e all’epoca dei suoi studi universitari era segretario della sezione universitaria socialista romana. All’università, cominciò a frequentare una sua collega di studi, Clara Lollini, che sarebbe poi diventata sua moglie. Forse non era poi tanto schivo, dal momento che all’epoca le studentesse universitarie, soprattutto nelle materie scientifiche, erano davvero rare e lui era subito riuscito a conquistarne una. Frequentava la sua casa, dove il padre della ragazza, Vittorio, gli si affezionò subito moltissimo.

A legarli era soprattutto la politica. Come Vittorio, Michele era socialista, anche se rispetto a Vittorio era più acceso, vicino ai socialisti rivoluzionari, ad Arturo Labriola, a Enrico Leone. Solo quando, dopo la sua morte, ereditai i suoi libri di Sorel, compresi quanto fosse stato complesso il suo percorso politico, mentre lo avevo sempre considerato un riformista moderato. Dopo la laurea, aveva passato un semestre di studio a Berlino; poi aveva iniziato la carriera universitaria. Nel frattempo si era sposato con la nonna e nel 1914 era nato il loro primo figlio, Renzo.

Per qualche anno insegnò a Sassari, poi a Torino come incaricato di chimica organica. Credo che avesse fatto un breve periodo di servizio militare; poi era stato riformato a causa di problemi agli occhi. Era un convinto pacifista, come i Lollini. Dal punto di vista professionale, era uno studioso molto brillante. Anche di questo mi sono resa conto solo molto più tardi, quando ho potuto parlare con alcuni dei suoi allievi e l’ho visto nel suo ruolo di chimico. Uno scienziato insomma di livello alto, conosciuto sul piano internazionale e considerato il maggiore esperto italiano di esplosivi. Nel 1926, nel clima di fascistizzazione della scuola, la sua carriera universitaria fu bloccata dalle sue posizioni politiche. Cominciò pertanto a tenere corsi presso la Scuola di applicazione di artiglieria e genio di Torino. Nel 1933 rinunciò del tutto all’insegnamento per non essere costretto a giurare e aprì un laboratorio di ricerca privato.

Da bambina andavo a volte a trovarlo con la nonna nel suo laboratorio all’Università di Torino, al Valentino. Era un uomo quasi timido: non sembrava un accademico di potere, e forse non lo era. Era stato riammesso all’università dopo esserne stato estromesso e poi essere stato a lungo in prigione per antifascismo, ma è noto che l’università non riaccolse con tutti gli onori quelli come lui, oppositori politici o ebrei, che andavano a disturbare chi aveva preso il loro posto. Socialista, Michele Giua fu infatti antifascista con naturalezza e intransigenza. Nel 1927, entrò a far parte del gruppo clandestino antifascista della Giovane Italia, nel 1929 aderì a Giustizia e Libertà. L’aria che si respirava in famiglia era antifascista, senza compromessi. I suoi suoceri, Vittorio ed Elisa, avevano visto l’avvento del fascismo prima di morire, l’una nel 1923 l’altro nel 1924, e Vittorio Lollini era stato aggredito e bastonato dai fascisti nel suo collegio elettorale a Sora. Antifascista era anche la nonna Clara – che, come già detto, venne anche lei arrestata per qualche settimana insieme al nonno nel 1935 –, antifascista suo figlio Renzo, emigrato a Parigi nel 1934 per sfuggire all’arresto. Dopo la fuga di Renzo, ebbe una parte attiva nel gruppo torinese di GL, occupandosi della comunicazione clandestina attraverso gli inchiostri simpatici. L’arresto del nonno avvenne il 15 maggio del 1935. Insieme a lui furono arrestati tutti i membri del gruppo torinese di GL, mio padre Vittorio Foa, Monti, Mila, Cavallera e molti altri.

A denunciarli era stato uno scrittore di romanzi di largo consumo molto in voga negli anni Trenta, ebreo da parte di padre, Dino Segre. Pitigrilli era il suo nom de plume. Nel 1934 Pitigrilli era entrato a far parte del loro gruppo, sostenendo che, dati i frequenti viaggi in Francia e Svizzera e la notorietà di cui godeva, era adattissimo a trasportare stampa clandestina in Italia. In realtà era una spia fascista, pagato mensilmente dall’OVRA. Si comportava proprio come una spia, insinuandosi dappertutto e facendo mille domande, tanto che gli antifascisti lo chiamavano per scherzo «l’agente provocatore». Tutti nel gruppo furono entusiasti del nuovo acquisto tranne appunto mio nonno, che lo vedeva di mal occhio a causa dei suoi libri e della sua vita apertamente «immorale». I più giovani risero molto di questa fissa del vecchio Giua e la attribuirono al suo moralismo. Forse, ma era l’unico che ci avesse visto giusto e fu anche il primo a riflettere dopo l’arresto, nel chiuso della cella, e a capire e a far sapere agli altri che la spia che li aveva fatti arrestare era proprio Pitigrilli.

Dopo la guerra, Pitigrilli fu inserito nell’elenco delle spie dell’OVRA pubblicato dalla «Gazzetta Ufficiale». A conferma definitiva furono scoperti i rapporti che consegnava alla polizia politica. Pitigrilli si dette da fare per essere riabilitato, ma mio nonno con mio padre, Garosci e Lussu riuscirono a bloccare quella manovra. Finì in Argentina, ormai convertito al cattolicesimo, si diceva a fare da ghostwriter a Evita Peron. Nei suoi ultimi anni tornò in Italia, quasi dimenticato.

Il processo tenutosi davanti al tribunale speciale condannò Giua a quindici anni. Il pubblico ministero aveva chiesto per lui ventidue anni, la pena più dura. La stessa pena, quindici anni, fu inflitta a mio padre, mentre tutti gli altri arrestati ebbero pene minori. Mi sono spesso domandata perché proprio loro due. Per mio padre passi: in quel momento aveva effettivamente un ruolo importante nell’organizzazione. Ma Giua? Era un professore, si avvicinava alla cinquantina, poteva davvero apparire così pericoloso per i fascisti? Può essere che, dal momento che era il maggior esperto in Italia di esplosivi, avessero paura che rivelasse qualcosa delle sue ricerche alla Montecatini sul T4, un esplosivo molto usato poi nella guerra? O forse Mussolini credeva che il suo antico compagno di partito si stesse preparando a farlo saltare per aria? Certo, se si leggono i rapporti di Pitigrilli alla polizia politica, vediamo che la questione degli esplosivi è tirata fuori sovente, anche se più come insinuazione che come dato di fatto. Più seri erano forse i propositi di uccidere Mussolini che nutriva in esilio mio zio Renzo, dopo l’arresto del padre, e che lo stesso Pitigrilli, attivo anche a Parigi, riferiva zelantemente all’OVRA. Ma sulla faccenda degli attentati e degli esplosivi i rapporti di Pitigrilli danno soprattutto l’impressione di voler gonfiare la minaccia rappresentata dagli antifascisti. In fondo, Pitigrilli era un romanziere e romanzava anche quando faceva la spia.

Per mio nonno, la prigione non fu certo un’avventura e nemmeno la pagina di un romanzo. Per un uomo di mezza età – ché allora alla sua età non si era più giovani – malato di glaucoma, con l’assillo di aver lasciato una famiglia senza sostentamento, due figli ancora piccoli, Franco e mia madre, che nel 1935 aveva dodici anni, la prigione deve essere stata ben dolorosa. Fu nelle carceri di Castelfranco Emilia, di Civitavecchia, di San Gimignano. Mentre era in prigione ricevette la notizia che suo figlio Renzo era morto combattendo nelle Brigate internazionali in Spagna nel febbraio del 1938 e poi che suo figlio Franco, malaticcio e con qualche handicap, ma teneramente amato, era a sua volta morto di malattia nel 1941. «Il raccoglimento interiore e lo studio», come narra nei suoi ricordi, lo salvarono. Studiò molto e soprattutto a Castelfranco, dove gli era stato dato il permesso di scrivere, redasse un manuale di chimica per i licei che pubblicò sotto il nome di sua moglie. Quando mio padre era già molto vecchio, gli chiesi che immagine avesse allora del nonno Giua. Lo considerava, disse, un uomo di un’integrità assoluta: «Lui era l’immagine stessa dell’onestà, tanto assoluta da apparire una forma di innocenza».

Dopo essere uscito dal carcere avrebbe voluto riprendere la sua attività politica, ma era molto provato fisicamente e si rifugiò con la nonna a Torre Pellice, dove scrisse un piccolo libro di ricordi dal carcere. Di questi mesi non mi ha detto mai nulla. Come sempre, era la voce della nonna a raccontarci anche per lui, a ricordare a noi nipoti quei mesi a Torre Pellice. Mia madre, l’unica figlia loro rimasta, era staffetta partigiana, e andava spesso a visitarli. Sfuggirono più volte per un pelo alla cattura; in un caso dovettero la salvezza alla conoscenza del tedesco della nonna, che si mise a parlare con i soldati che volevano bruciare la casa. Il nonno si era nascosto sul retro, ma senza la nonna che riuscì a fermarli sarebbe finita molto male. Nei giorni frenetici della Liberazione, a Torino, rischiarono invece di essere uccisi da un gruppo di partigiani dell’ultima ora, chissà chi erano e per chi li avevano scambiati.

Ancor prima della fine della guerra i CLN avevano nominato dei comitati di epurazione. Il nonno fu messo a capo di quello della provincia di Torino. L’attività dei comitati durò fino alla fine del ’45 quando furono sciolti per decisione degli Alleati. Fra l’altro, fu il comitato da lui presieduto ad occuparsi dell’epurazione alla FIAT (Agnelli, Valletta, Camerana). Non sono riuscita a capire, dai documenti che ho visto, quale sia stato il suo ruolo, quale il modo in cui esercitò questa funzione. Un’interrogazione parlamentare, fatta da lui nel ’46 alla Consulta, rivela la sua preoccupazione che Carlo Vallauri, accademico d’Italia che era stato molto vicino a Gentile, sfuggisse all’epurazione decisa dal comitato.

È assai probabile che sia stato rigoroso e severo, con la vena di idealismo che gli era propria. In famiglia si raccontava, ma non sono riuscita a trovarne traccia nella documentazione, che avesse ad un certo punto invitato i partigiani in armi a scendere su Torino e che fosse stato bloccato dal suo partito, il PSIUP (il nome di allora del Partito socialista: Partito socialista italiano di unità proletaria). Ma quando? In maggio, quando si realizza il disarmo delle brigate partigiane o in dicembre, quando sono sciolti i comitati di epurazione? In ogni caso, subito dopo la Liberazione riprese l’attività politica, ammesso che l’avesse davvero interrotta a Torre Pellice. Fu deputato alla Consulta, eletto alla Costituente e per dieci anni senatore del Partito socialista. Si ritirò dalla politica nel 1964, e l’anno dopo andò in pensione anche all’università. Era potuto restare fino a settantacinque anni, grazie ad una legge che concedeva ai perseguitati politici e razziali di protrarre la permanenza in servizio. Subito dopo, però, si ammalò di un brutto cancro che lo fece molto soffrire. Morì nel 1966.

Aveva una casa in montagna dove noi ragazzi passavamo due mesi ogni estate. Chiuso nella sua stanza, il tavolo che guardava la valle e le montagne, scriveva un trattato di chimica, grazie al quale abbiamo potuto godere anche noi discendenti di un certo benessere. E sentiva la radio: amava in particolare la lirica. Noi ragazzi lo consideravamo, con una punta di commiserazione, un moderato riformista, esattamente come nostro padre e i suoi amici lo ritenevano, tanti anni prima, un moralista. Come sempre, aveva ragione lui. In un suo libro, In cattiva compagnia, mio fratello Renzo lo ricorda come un maestro di dubbio, come qualcuno in grado di insegnare che la vita non era bianca o nera e di instillare dubbi nelle certezze. Era a proposito di Saragat, e di un suo conflitto con Nenni: «Ha ragione Saragat», disse a Renzo, e poi gli spiegò pazientemente perché. Eppure, era stato un soreliano, era intransigente. Ma aveva intelligenza politica.

Anche quella di Torgnon è una casa che ho molto amato, come la ha amata mio figlio, che vi ha imparato a camminare e vi ha passato le estati fino all’adolescenza. C’era un terrazzo che guardava sulla valle, subito sotto la stanza in cui il nonno scriveva. La casa era modesta, una di quelle case fatte dai geo­metri che si sono moltiplicate nella Valle alla fine degli anni Cinquanta. Mia madre era molto critica perché i pavimenti erano di marmo e non di legno e diceva che era una casa di città, per di più senza riscaldamento perché ci si andava solo in estate. Ma a noi ragazzi piaceva moltissimo. In montagna, mangiavamo le cose che ci preparava la nonna. Era una cucina in bianco, invece della salsa di pomodoro ci metteva la conserva in piccole dosi e noi ragazzi la prendevamo in giro. Ci faceva la crema, in grandi tazze che ci dava a colazione. E nei suoi anni in Sardegna aveva imparato a fare in casa lo yogurt. Era buonissimo, un sapore mai più ritrovato. Ora ricordiamo quella sua cucina con rimpianto. La nonna era per noi una presenza più forte di quella del nonno, sempre chiuso nella sua stanza a scrivere.

La relazione tra loro mi ricorda molto quella fra i genitori di Clara, Vittorio Lollini e Elisa Agnini, quasi i due, sposandosi avessero voluto perpetuare il modello di un legame al tempo stesso del cuore e dell’intelletto, della politica e della famiglia. Pur se laureata in chimica, Clara, come ho già detto, non aveva mai esercitato la professione, aiutando invece il nonno nei suoi scritti. Del resto, lui usava dire che lei faceva gli esperimenti come cucinava, buttando giù gli ingredienti di chimica ad occhio.

Non c’era in famiglia nessuna educazione religiosa. Non ho mai chiesto a nonna Clara se fosse stata battezzata da piccola: è anche possibile di no, data l’impostazione politica della sua famiglia. Ma certamente non lo furono i suoi figli, né mia madre né Renzo né Franco. Clara aveva uno sguardo un po’ schivo e un carattere di ferro. Dopo l’arresto del nonno ha mantenuto se stessa e i figli facendo traduzioni, prendendo ogni lavoro possibile. E in quel periodo ha visto morire due dei suoi figli, Renzo, il più amato, e Franco, il più bisognoso. Mia madre mordeva un po’ il freno, voleva essere libera. Era andata a scalare il Cervino poco dopo la morte di Franco, una scalata non priva di qualche rischio, e la nonna dopo tanti anni ancora se ne lamentava con me. La loro vita era molto regolata: la passeggiata in montagna era un obbligo quotidiano; la sera si andava a letto presto. Il dover essere era fortissimo. Costante era il ricordo di Renzo, che era per nostra madre un mito e tale era divenuto per noi. L’eroismo costituiva una modalità ovvia dell’essere. Ed eroismo non era solo andare a morire in Spagna o fare il partigiano, ma comprendeva anche regole quotidiane di comportamento: non lamentarsi di ogni piccolo dolore, camminare senza fare storie, non piangere, tenere alta la testa, vivere una dimensione politica e non solo privata.

Sia Clara che mia madre Lisa, pur senza esplicitarle, osservavano queste regole, anche se Lisa era assai più trasgressiva e non condivideva il moralismo che faceva da contorno al rigore dei nonni. Solo una volta, nei miei discorsi con la nonna, che furono tanti nei lunghi anni in cui le vissi vicina, ebbi un’immagine diversa che mi turbò moltissimo e mi fece sentire quasi tradita. Eravamo, ricordo, nell’ingresso della sua casa di Roma, alle soglie di Monteverde e fu l’unica volta in cui diede una versione diversa della sua vita: suo marito aveva preferito la politica e l’aveva lasciata sola a tirar su la famiglia; Renzo era andato a farsi ammazzare. Ne restai sconvolta: mi aveva ingannato in tutti quegli anni? Risolsi il problema di un eroismo che mi andava in frantumi sotto gli occhi attribuendolo alla fragilità data dall’età. E forse era davvero solo questo, forse la versione giusta era l’altra, quella che avevo sentito raccontare fino ad allora. Nelle sue lettere dalla Spagna, Renzo le chiedeva di essere come una madre di Sparta. E lo era stata davvero.

Ero legatissima a lei e lei lo era a me. Mi ha allevata nei primissimi anni, è stata sempre presente nella mia vita, ha conosciuto mio figlio Andrea, è morta quasi a cento anni, in una casa di cura per anziani. Da alcuni anni non era più lucida e non mi riconosceva. E questo fu per me più duro della sua morte.