Oggi in Spagna...

Quando avevo sette anni decisi di uccidere il generale Franco. Per farlo avrei dovuto però aspettare di avere dodici anni: allora, pensavo, sarei stata grande abbastanza per andare da sola in Spagna. Immaginavo che Franco sarebbe uscito in una macchina scoperta in mezzo alla folla e che io ne avrei approfittato per ammazzarlo. L’immagine che mi facevo dell’attentato mi veniva forse da un’illustrazione dell’Enciclopedia dei ragazzi, una vecchia edizione dell’inizio del secolo che avevamo in casa, in cui era raffigurato – credo – l’attentato di Gaetano Bresci ad Umberto I. Mi vedevo estrarre una pistola, in mezzo alla folla, e sparargli. Lo avrei ucciso, senz’ombra di dubbio. Non immaginavo che per colpire un bersaglio ci volesse un grande addestramento. Il vero problema sarebbe stato cosa sarebbe successo dopo: se nessuno, tra la gente, mi avesse visto sparare, pensavo, avrei avuto la possibilità di cavarmela, anche perché forse nessuno avrebbe sospettato di una bambina. Altrimenti, avrei affrontato a testa alta il plotone di esecuzione. Non mi domandai mai dove avrei preso la pistola e cominciai a contare gli anni su quel progetto: mancavano cinque anni, quattro anni, tre anni...

Non ne parlai con nessuno, nemmeno in famiglia. Non ricordo come smisi di pensarci, forse quando avvicinandomi ai dodici anni cominciai a interessarmi ai ragazzi e alle scarpe col tacco invece che ad uccidere i tiranni. Ripensandoci, credo che il mio progetto di tirannicidio nascesse soprattutto dal desiderio di sentirmi approvata da mia madre. Suo fratello Renzo, infatti, era morto in Spagna a ventiquattro anni combattendo contro Franco durante la guerra civile. Renzo era l’eroe della famiglia; in casa se ne parlava molto. Soprattutto mia nonna mi raccontava di lui. Era andata in Spagna, alla fine degli anni Quaranta, a cercarne il corpo senza tuttavia trovarlo. Era andata da sola, perché al nonno, che allora era senatore socialista, Franco non aveva concesso il visto. Mi commuoveva già da bambina questo pellegrinaggio coraggioso e solitario della nonna. Nella casa dei nonni a Torino, in corso Peschiera, c’era una cornice con una fotografia di Cesare Pavese, che sotto vetro aveva un rametto di ulivo raccolto da mia nonna in Estremadura, sul luogo dove Renzo era caduto. Di Renzo, Pavese era stato amico – Renzo era il più giovane del gruppo di ex studenti che gravitava intorno ad Augusto Monti – e la sua morte lo aveva molto colpito. Non so perché mia nonna avesse scelto proprio la foto di Pavese, e non quella, ad esempio, di Mario Levi, che di mio zio era stato un amico fraterno. Forse lo aveva fatto dopo il suicidio di Pavese, considerandoli accomunati dalla morte.

La tomba di zio Renzo, dove accompagnavo a volte la nonna quando andavo a Torino, era in realtà un cenotafio, accanto a quella dell’altro mio zio, Franco, morto di malattia nel 1941, tre anni dopo Renzo. Con la nonna cambiavamo i fiori, pulivamo la lastra di marmo, e l’idea che il corpo di Renzo non ci fosse mi colpiva sempre. Una tomba senza il suo morto. Quella tomba vuota mi spinse forse a pensare che zio Renzo non fosse davvero morto, che fosse stato solo ferito e avesse perduto la memoria. Un giorno, l’avrebbe ritrovata e avrebbe suonato inaspettato alla porta di casa. Non mi ponevo il problema di come avrebbe fatto a trovarci, immaginavo solo il momento in cui si sarebbe fatto riconoscere, in cui avrebbe detto: «Sono Renzo». Soltanto molti anni dopo scoprii che anche i miei fratelli Renzo e Bettina avevano le stesse fantasie, non ce lo siamo mai detto allora. In realtà, nella nostra famiglia su alcune cose, cose strane, c’era molto pudore.

Lo zio Renzo era un appassionato di montagna, ed era anche un bravo sciatore. Come avrebbe potuto non piacergli la montagna? Da bambino, i suoi genitori ce lo portavano ogni estate, insieme ai suoi fratellini più piccoli, Franco e Lisetta. Era un rito a cui non si scappava. Andavano in Valtournenche, in un piccolo paese sopra la valle centrale, Torgnon, dove dovevano salire da Châtillon a dorso di mulo. Lo stesso posto dove poi i nonni fecero costruire la loro casa delle vacanze. Il nonno, come ogni sardo che si rispetti, era abituato ad andare a dorso di mulo o a cavallo. Renzo camminava molto, quando fu più grande scalava le montagne con gli amici, ma prima avevano sempre fatto lunghissime escursioni tutti insieme; mia madre Lisetta, che aveva nove anni meno di lui, era allora piccolissima. Essere bravo in montagna gli fu molto utile quando, più tardi, ricercato dalla polizia, fuggì da Torino attraversando con gli sci il confine con la Francia.

Renzo frequentava a Torino il liceo D’Azeglio e aveva come professore di italiano Augusto Monti, il mitico professore di tutti gli antifascisti. Non che il suo antifascismo venisse solo dalle aule della scuola, ché da sempre a casa si respirava un’aria antifascista. Ma certo l’ambiente del D’Azeglio non poté che rafforzare la sua insofferenza verso il regime. Il suo primo contatto con l’antifascismo attivo risale al 1931, quando aveva sedici anni. Fu Luigi Scala, un membro del gruppo di Giustizia e Libertà, che ne parlò ad Aldo Garosci, raccontandogli di due studenti del liceo «che progettavano grandi azioni contro il governo, che avevano trovato anche il modo di mettersi in contatto con operai, che leggevano con avidità la nostra stampa. Uno era Giua».

Massimo Mila, che aveva quattro anni più di lui e che fu suo grande amico a Torino fino a che Renzo non emigrò a Parigi, racconta questi anni con molti particolari in un suo ricordo di Renzo scritto nel 1947: Destino spagnolo. Mila aveva già lasciato il liceo mentre Renzo lo frequentava ancora; non era stato dunque suo compagno di classe, e così si domanda che studente fosse Renzo. Non è una domanda peregrina, dato il ritratto che va tracciando dell’amico, tutto orientato verso un destino «guerriero». Pensa infatti che a Renzo della scuola non importasse molto, ma ricorda anche come fosse riuscito nell’anno della maturità, il 1932, dopo aver passato quattro mesi in carcere, a superare brillantemente l’esame studiando solo due mesi: «mettersi di puntiglio e farsi promuovere a gonfie vele, questo era tutto nel suo stile». Era un lettore appassionato, scriveva versi e aveva le sue brave sbandate letterarie, passava dai sonetti in stile foscoliano all’ubriacatura dannunziana fino ad uno stile che Mila definisce disincantato, volutamente sciatto e prosaico. Il disincanto, con un’aggiunta di ironia, sarà la cifra essenziale anche delle sue lettere dall’esilio parigino e dalla Spagna. Le sue passioni erano forti ma non divenivano mai retorica, che aborriva al massimo grado: la retorica e i sentimentalismi erano le sue bestie nere.

Era un bel ragazzo dagli occhi neri, forte e muscoloso, scanzonato, dissacrante e sorridente. Era anche un bravo sportivo, faceva boxe, sciava, giocava a ping pong e a biliardo, nuotava. C’è un suo ritratto che lo raffigura a Torino appena ventenne, con lo sguardo vivissimo e una grande vitalità. Guardandolo, non ho mai capito come potesse essere morto, come una semplice pallottola avesse potuto ucciderlo. Del resto, racconta Mila, aveva lui stesso l’idea di essere immortale: «Una persona che gli dèi amano come me non può finir male», scriveva da Parigi a sua madre, dimenticando, – aggiunge Mila, – «che muor giovane chi è caro agli dèi».

Nel gennaio del 1932, Renzo fu arrestato per antifascismo con Mario Andreis e Luigi Scala. Frequentava la terza liceo, non aveva ancora diciotto anni, e fu rinchiuso nel carcere minorile, con i ladruncoli. Ma nel marzo, compiuti i diciotto anni, venne trasferito nel carcere giudiziario di Torino e poi, in attesa del processo, a Roma, a Regina Coeli. A Roma gli concessero di fumare, un suo compagno nel carcere ricordava come Renzo gli avesse insegnato a non scuotere la cenere delle sigarette per farle durare più a lungo. Fu la sua iniziazione all’età adulta. Nell’aprile, il tribunale speciale lo assolse per insufficienza di prove, un’assoluzione di cui andava molto fiero perché altri, nello stesso processo, erano invece stati assolti «per non aver commesso il fatto».

Si iscrisse a Lettere, all’università, e fu subito introdotto nella «banda», quel gruppo di studenti che erano stati allievi di Monti e che continuarono a frequentarlo, anche dopo aver finito il liceo, in incontri settimanali, discussioni letterarie e filosofiche, gite in montagna, bevute fino a sera nelle osterie, risate e prese in giro dissacranti. Fra loro, Ginzburg, Pavese, Bobbio, Einaudi, Mila e mio padre, Vittorio Foa, anche lui molto amico di Renzo. Molto più tardi, dieci anni dopo, durante la Resistenza, ne avrebbe sposato la sorella Lisetta, nostra madre. Ma l’aveva incontrata bambina, durante una gita in montagna, e ricordava di averle versato dell’acqua a tavola.

Per il gruppo riunito intorno a Monti era quello il momento esaltante della scoperta della letteratura americana, che Pavese veniva traducendo, e che tutti nel gruppo condividevano, leggendo avidamente Dos Passos e l’Antologia di Spoon River. Renzo, che nel gruppo era il più giovane, veniva canzonato un po’ da tutti, ricorda Mila. Doveva aver assorbito in casa un poco del puritanesimo famigliare, perché aveva innocenti relazioni sentimentali con signorine di provata virtù, mentre «le sole donne di cui il gruppo, in quanto tale, sopportasse la presenza, erano di collaudata disonestà». Inoltre, iniziò ben presto ad interessarsi a una cultura lontanissima dalla modernità della letteratura americana, quella della Spagna. In casa si conservava il suo Don Chisciotte in lingua spagnola. Meditava di laurearsi sull’arciprete de Hita, un famoso poeta spagnolo del Trecento, studiava con passione filologia romanza e cominciava a interessarsi alle vicende politiche della Spagna, dove nel 1931 era nata la Repubblica. Era già allora un ammiratore di Francisco Largo Caballero, sindacalista e politico, che, dal 1936, con lo scoppio della guerra civile, fu a capo del governo repubblicano.

Nel 1934, i primi arresti degli antifascisti torinesi distrussero il gruppo. Monti fu arrestato con Leone Ginzburg, Carlo Levi e Barbara Allason, che del gruppo, in quanto donna, non faceva parte, ma che teneva un salotto letterario frequentato da tutti loro, considerato dalla polizia un covo di antifascisti. Mario Levi, uno dei suoi più cari amici, era stato fermato casualmente dalla dogana a Ponte Tresa. Ma invece di oggetti di contrabbando la polizia aveva trovato giornali clandestini. Sion Segre, che era con lui, venne arrestato mentre Mario Levi si salvò a nuoto. Era figlio del professor Giuseppe Levi, il famoso biologo maestro di Rita Levi Montalcini, anche lui arrestato per un breve periodo in quell’occasione. Sua sorella Natalia sarebbe divenuta, sposando Leone, Natalia Ginzburg.

Dopo quegli avvenimenti, i Giua cercarono di evitare che anche Renzo fosse arrestato, e lo spedirono di corsa in montagna, a Balme, una zona che conosceva molto bene. Doveva aspettare là e se fosse arrivato un segnale di pericolo, rifugiarsi in Francia attraversando clandestinamente con gli sci la frontiera. Renzo non attese il segnale e si rifugiò a Parigi, attraversando il Colle dell’Autaret. Qui, si unì al gruppo degli esuli italiani diretti da Carlo Rosselli: Garosci, Lussu, Caffi, Tarchiani, e tra i più giovani Mario Levi e Nicola Chiaromonte, arrivato a Parigi nel 1935. Era ormai un fuoruscito, se fosse rientrato sarebbe subito finito anch’egli in prigione. Invero, nei primi tempi della sua fuga i genitori tentarono di persuaderlo a tornare. Forse la polizia politica non si era accorta di nulla. Mila fu mandato a convincerlo, senza riuscirci.

A Parigi, Renzo si iscrive alla Sorbona e svolge un intenso lavoro politico con Giustizia e Libertà. Da Torino, i suoi cercano di aiutarlo finanziariamente, ma nel 1935 viene arrestato anche suo padre, il professor Giua – Michelone come lo chiamavano i più giovani –, sospettato di essere uno dei membri più pericolosi del gruppo di antifascisti arrestati in quel maggio 1935, fra cui c’era pure mio padre Vittorio, anch’egli considerato uno dei capi del gruppo di Giustizia e Libertà a Torino.

Insieme col nonno, venne arrestata anche la nonna. Anche il professor Levi, del resto, era stato imprigionato per un breve periodo quando suo figlio Mario era sfuggito alla cattura a Ponte Tresa, e in Lessico famigliare Natalia Ginzburg racconta di come questo evento lo avesse reso felice. E al momento dell’arresto di Vittorio vennero arrestati anche nonno Ettore Foa e zio Beppe, fratello di mio padre. Negli altri casi, le donne non furono arrestate. La nonna Giua, invece, sì, anche se solo per un mese: condivideva indubbiamente, agli occhi della polizia politica, le idee e l’attività del marito.

Restavano da soli i due ragazzi, Franco, malaticcio, e Lisetta, che aveva allora dodici anni. Di loro si occuparono gli amici scampati all’arresto. Abituati ad una vita parca e austera, per i due fu un periodo di folle divertimento, tra cinema, gelati, e uscite serali. Lisetta raccontava che quando, durante una delle sue visite al carcere, la suora guardiana le comunicò la bella notizia che nel pomeriggio la madre sarebbe stata rimandata a casa, esclamò, spaventata e incredula: «Come, già oggi?», pensando a come far rapidamente scomparire dalla casa le tracce di quei giorni di libertà.

Per Renzo, la condanna del padre fu un duro colpo, anche perché credeva che fosse stato arrestato e condannato al suo posto, semplicemente perché non erano riusciti a prendere lui. Lo sentiva come in ostaggio, e meditava di consegnarsi al regime fascista. Sono questi i mesi in cui pensò a un attentato clamoroso: a dar retta ai rapporti delle spie dell’OVRA a Parigi, addirittura all’uccisione del principe di Piemonte o, più verosimilmente, di Mussolini.

Anche la vita quotidiana diventava più difficile: la famiglia aveva poche risorse, nonna Clara traduceva e si dava da fare con ogni genere di lavoro editoriale per mantenere la famiglia. Continuava per quanto poteva a mandare soldi a Renzo, che a Parigi viveva in una stanza piccolissima di rue Saint-Jacques, nel Quartiere Latino, arrabattandosi con lezioni e mille lavoretti. Per un periodo, nel 1935, fu a Ginevra e in Canton Ticino. Continuava a frequentare l’università, i suoi premevano perché si laureasse, lui ironizzava nelle sue lettere agli amici: «I miei bravi genitori sono tali che, se l’Angelo suonasse la tromba del Giudizio, mi obbligherebbero prima di far fagotto per la valle di Giosafatte a mettermi in regola con le tasse dell’Università».

Del suo periodo parigino resta un bellissimo ricordo di Ursula Hirschmann, a cui Renzo dette fra il 1935 e il 1936 lezioni di italiano. Nel ricordo della Hirschmann, Renzo è allegro, scanzonato, irriverente e straordinariamente vitale. Parlavano, naturalmente, molto di politica. Lei era allora una giovane ebrea profuga dalla Germania nazista, di formazione marxista anche se dal marxismo cominciava ad allontanarsi. Renzo si beffava dei discorsi ideologici dei gruppi antifascisti, rideva e ironizzava su tutto. Una volta, le aveva raccontato di un professore italiano che, durante una cerimonia pubblica, aveva preso posizione contro il fascismo ed era stato licenziato e mandato al confino. Ursula Hirschmann aveva deprecato il gesto come inutile, tale da bruciare un antifascista solo per motivi di coscienza. Renzo aveva riso: «Vale più uno che si alza e parla che tutta la vostra sapiente rete di illegali che non aprono bocca ma si mormorano le notizie l’uno nell’orecchio dell’altro. Alla lunga, a forza di stare zitti, diventeranno dei bravi nazisti anche loro».

C’era in Renzo, evidentemente, una vena anarchica che gli faceva venire a noia i discorsi ideologici e ufficiali, oltre che un’altrettanto forte vena di insofferenza e di impazienza. E se quest’ultima poteva essere attribuita alla sua età acerba, la prima gli veniva forse da suo padre, che da giovane era stato fortemente attratto dall’anarco-sindacalismo di Sorel. «Ognuno di noi – scrive Ursula Hirschmann – è diventato antifascista per ragioni diverse, ma quasi tutti avevamo in comune il sapere che cosa lasciavamo dietro di noi, il sentire qualche volta il peso della decisione presa e insieme l’impegno morale austero che ci ordinava di continuare sulla via intrapresa. Renzo invece era antifascista non per ragionamento né per esigenza di purezza morale. Lo era per vitalità, per non poter essere diversamente, per una sorta di gioco nobile. Tutto in lui è stato gratuito: la sua vita, la sua azione, la sua morte».

C’è una foto di Renzo a Parigi che tanti anni dopo una mia amica trovò per caso da un bouquinistes, insieme a foto e cartoline di altri tempi. Appare in piedi ai giardini del Luxembourg e c’è sotto la sua firma, Renzo Giua. La regalai subito a mia madre e a tutte e due sembrò una coincidenza magica, che proprio una mia amica avesse trovato questa foto, e l’avesse comprata per regalarcela.

Nel dicembre del 1935 Renzo esce da Giustizia e Libertà, insieme al gruppo dei «novatori dissidenti», come li chiamò Garosci, un gruppo che gravitava intorno a quella straordinaria e dimenticata figura di socialista libertario che fu Andrea Caffi: sostanzialmente Giua, Mario Levi e Nicola Chiaromonte. Alle origini del conflitto con Rosselli, un dissidio politico sulle prospettive del lavoro di Giustizia e Libertà, sui rapporti con le masse, sulla volontà di Rosselli di trasformare la sua organizzazione in partito. Ma il 21 luglio 1936, scoppiava la guerra di Spagna. Renzo partì subito e il 24 era già a Barcellona, insieme a un gruppo di fuorusciti anarchici italiani, fra cui Francesco Barbieri, che sarà assassinato nelle giornate di Barcellona del 1937 dai comunisti insieme con Camillo Berneri.

«Sono venuto qui a passare qualche giorno di vacanza. Qui pare che ci sia una gran guerra e mi son procurato una seggiola di ring per assistervi», scriveva nell’agosto alla madre. Era innamorato della Spagna e della sua cultura, voleva combattere contro il fascismo: partecipare a quello scontro era per lui lo sbocco naturale di quegli anni di esilio. Gli si offriva la possibilità di lottare con le armi in mano, non soltanto di scrivere e di contrabbandare giornali e volantini come aveva fatto fino ad allora. C’è una sua foto, mandata alla madre, che lo ritrae su un treno che trasportava le truppe. Ha l’aria felice, come di chi sente che sta facendo finalmente quello che ha sempre voluto. E mio padre raccontava che quando, in carcere, seppe dello scoppio della guerra civile in Spagna, disse subito a Massimo Mila, suo compagno di galera: «Questa è la guerra di Renzo», pur non sapendo ancora che Renzo era già là.

Nella confusione dei primi giorni di guerra, Renzo entrò in un distaccamento volante della Colonna Durruti, composto da 150 volontari di ogni paese e comandato da un francese. Era una formazione composta in prevalenza da anarchici. La colonna si ridusse a 30 uomini, anche il comandante cadde. Battevano l’Aragona, in quell’estate torrida del 1936, combattendo contro i nuclei della Guardia Civil.

Risale forse a questo momento una lettera a Mario Levi in cui racconta di una guerra feroce, in cui non si facevano prigionieri. Fu ferito, nel settembre, da una scheggia alla coscia. Mentre il governo repubblicano militarizzava le formazioni irregolari come quella di Durruti, Renzo ancora convalescente fu mandato alla scuola di guerra di Albacete e ne uscì arruolato nella 12a Brigata Garibaldi, con il grado di tenente. Nel maggio 1937 fu assegnato al Battaglione Garibaldi della XII Brigata internazionale. Il 16 luglio è nuovamente ferito, ma torna al fronte. Nominato capitano, combatté in Estremadura nell’operazione detta «del Campiglio» e là morì, ferito all’addome, nella notte tra il 16 e il 17 febbraio 1938. Aveva ventitré anni.

Oltre alle scarse notizie contenute nelle poche lettere inviate alla madre e agli amici, della guerra di Renzo abbiamo notizia dalle memorie di un anarchico italiano, di Pisa, che nel 1936 aveva cambiato il suo nome in quello di Antoine Gimenez. Questi aveva conosciuto Renzo, che chiama Lorenzo, durante una licenza a Barcellona, nel 1936: «Non tardammo a simpatizzare. Al nostro ritorno dal fronte, diventammo quasi inseparabili e per lunghi mesi condividemmo tutto quello che avevamo». È, questa dell’inglobamento della Colonna Durruti nelle Brigate internazionali, prevalentemente comuniste, una storia narrata anni fa anche nel film di Ken Loach Terra e libertà. L’ho visto con grande emozione e mi sono domandata con quale animo Renzo fosse entrato a far parte di ciò che poteva essere definito un esercito regolare, lui che per dirla con Massimo Mila era un «guerriero» e non un militare, e quali siano state le sue reazioni politiche al marxismo dominante nella Brigata Garibaldi. Certo, Renzo era ben lontano dall’essere comunista, e nelle memorie di Gimenez appare molto vicino agli anarchici. Riferendosi al periodo successivo all’assassinio di Durruti, nel novembre 1936, Gimenez racconta che «con gli amici Scolari, Giua, Otto, Mario e Ritter formavamo un piccolo nucleo refrattario alla militarizzazione e alla disciplina che ne derivava».

Il nonno Michele era convinto che suo figlio fosse stato ucciso da un «fuoco amico» e non dai franchisti. Me ne parlò una settimana prima di morire di cancro, nel 1966, sul suo letto di morte. Non mi dette spiegazioni delle ragioni di questa sua convinzione. Alludeva forse al fatto che l’ultima missione di Renzo sul fronte dell’Estremadura, andare ad ispezionare le linee dopo che altri due capitani prima di lui erano stati uccisi, poteva essere considerata una missione impossibile? O parlava in base a sospetti specifici, forse in seguito a colloqui avuti con qualcuno di quelli che avevano combattuto vicino a Renzo in Spagna pensando a quei mesi del 1937 che videro la nascita dentro le Brigate internazionali dei commissari politici diretti da Stalin e non pochi assassinii di non comunisti? O era il frutto del suo stato, che ingigantiva sospetti che però doveva essersi portato a lungo nel cuore? Non l’ho mai saputo e ne ho parlato in famiglia solo molto tempo dopo, non ricordo nemmeno quando. All’epoca, non avevo ancora letto Omaggio alla Catalogna di Orwell. Lo lessi anni dopo e fu per me molto toccante.

La guerra di Spagna fu certamente «il punto alto» della breve vita di Renzo, il compimento di quel «destino spagnolo» che Mila ha usato come titolo per il suo ricordo dell’amico perduto. Difficile capire se quella vita lo esaltasse, se la lotta placasse in lui tutti i dolori e i rimorsi, della dittatura, del padre in prigione. Il suo tono disincantato e ironico copre di un velo fitto questi sentimenti. Delle sue ferite parla con sufficienza, del periodo in ospedale ricorda le infermiere «tanto graziose che il sangue scorre dolcemente nelle vene». A volte sembra che racconti un’avventura, non una guerra terribile che lo avrebbe divorato.

Ma che questa avventura non fosse così semplice lo rivelano, sotto l’atteggiamento scanzonato, molti passi delle sue lettere. E ancora – come Renzo aveva raccontato ad Aldo Garosci, a Barcellona dove si erano incontrati – un episodio che in seguito Aldo riferì a mio padre, che ne fu parecchio intrigato, tanto da raccontarlo in un suo libro: «Renzo aveva appena occupato, coi miliziani della Colonna Durruti, un villaggio, e vide che si stava saccheggiando una chiesa. Entrò in chiesa e ordinò di smettere. Ma in quel momento urtò col piede un libro aperto sul pavimento. Lo raccolse e lesse la prima frase che gli cadde sotto gli occhi. La frase diceva: porgi l’altra guancia. Renzo gridò allora ai miliziani: ‘Distruggete tutto, distruggete tutto’». Avrei dovuto parlarne con Garosci quando ancora si poteva, ora sono tutti morti.

Ho pensato più volte di ricostruire la guerra di Spagna di mio zio, di andare in Estremadura a ripercorrere le sue tracce. Non l’ho mai fatto, alla fine. Quando è uscita sui giornali la possibilità di fare ricerche nelle fosse comuni, dove Renzo era sepolto, per riconoscere il DNA, noi fratelli ci siamo consultati e abbiamo subito deciso di non farne niente. Perché Renzo non era davvero morto, e per questo continuavamo a cercarne le tracce. Come ancora scriveva Ursula Hirschmann: «si era innalzato nel cielo, cavalcando una nuvola di un rosa un po’ troppo vistoso, ridendo ormai per sempre, il cuore dilaniato da una bomba falangista». E spero che fosse davvero una bomba falangista, perché così lui avrebbe voluto.

Attraverso la memoria di Renzo, tramandata amorosamente in famiglia, alimentata dai ricordi scritti degli amici, l’idea che egli dovesse essere l’esempio da seguire si è sedimentata in noi figli e nipoti e l’idea che l’eroismo fosse una dimensione normale della vita è diventata centrale nella nostra famiglia. Ovviamente, la parola «eroismo» non veniva mai usata, anzi era un termine connotato negativamente, retorico, che evocava tutto ciò che ci era estraneo. Ma il concetto lo avevamo dentro, talmente interiorizzato da non aver bisogno di un nome. Anche perché di quel tipo di eroismo non ci fu più bisogno dopo la Resistenza: la vita era diventata comoda, c’era la democrazia, almeno qui da noi in Italia. Non c’erano guerre da combattere, brigate internazionali in cui entrare. Ma ne era rimasto abbastanza da ispirare a una bambina di sette anni l’idea, a lungo accarezzata, del tirannicidio. Mi domando come mio fratello Renzo, che di zio Renzo portava anche il nome e aveva quindi un’eredità doppia, si sia misurato con tutto questo. Per lui deve essere stato ancora più difficile. Nemmeno a lui posso più chiederlo, anche se dubito che avrebbe risposto.

Su questo mito eroico mi sono a lungo interrogata negli ultimi decenni, quando è diventato chiaro che almeno io non avrei compiuto nella vita nessun gesto eroico, che l’eroismo sarebbe rimasto un mito accarezzato ma non praticato. Un mito non condiviso nemmeno da tutta la famiglia, perché in mio padre era del tutto assente. C’era sì in lui, forte, la memoria del suo amico Renzo, ma non l’ideologia del guerriero. E allora, era un sentire condiviso dalla sinistra, o almeno da una parte di essa? Era la matrice anarchica, l’idea dell’attentato solitario ed esemplare, il modello di Byron e di Santorre di Santarosa? Quanto c’era di letterario, e quanto di volontarismo, di esaltazione dell’azione? Non lo so, ma mi sembra che apra strade in cui i confini si confondono all’interno della sinistra stessa. O era solo un fatto casuale, una memoria famigliare che, per motivi privati, si faceva politica? O è, ancor più semplicemente, una malattia della giovinezza, che guarisce con il passare degli anni, diffusa un po’ dappertutto, come un virus? Eppure, se guardo ai miei antenati da parte di padre, quelli ebrei, mi sembrano assai meno toccati da questo virus.