Una femminista del primo Novecento

Abitavano, i miei bisnonni con le loro quattro figlie, in via Monserrato a Roma. Ci sono andata varie volte con la nonna Clara, la seconda delle loro figlie, che si fermava sempre all’esterno a guardare il grande portone e il cortile interno. La nonna mi raccontava della casa ma io, non so perché, non riuscivo ad immaginarmela. Forse perché i bisnonni non li ho mai conosciuti. Sono morti presto, negli anni dell’avvento del fascismo, e le mie prozie, le sorelle della nonna, le conoscevo poco. Le ho conosciute meglio in anni recenti, dai due romanzi che mia cugina Silvia Mori, nipote di Olga, la sorella maggiore di mia nonna, ha scritto su di loro utilizzando le carte di famiglia.
La bisnonna Elisa era un’attiva femminista, impegnata non solo nella lotta per il suffragio femminile ma anche nel sostegno alle donne lavoratrici. Non so se sia stata lei ad influenzare suo fratello Gregorio o sia stato invece lui a stimolare in lei l’attenzione per la questione della donna. Fra i progetti di cui Agnini, all’inizio della sua carriera, si era occupato, infatti, c’erano anche le condizioni di vita delle mondine. Era riuscito a strappare notevoli miglioramenti per le lavoratrici, quali la separazione dei sessi nei dormitori, l’aumento del salario e la riduzione dell’orario di lavoro.
Fin da ragazza, Elisa aveva condiviso pienamente la fede socialista di suo fratello. Socialista, e amico suo e di Gregorio, era anche colui che divenne suo marito, Vittorio Lollini, un avvocato modenese. Come sua madre Bettina prima di lei, Elisa faceva un matrimonio d’amore e non di convenienza, il che non era così comune ai suoi tempi. Nel 1885 i due giovani si sposarono e andarono a vivere a Roma, dove Vittorio avrebbe potuto avere più opportunità nella sua professione di avvocato. Si stabilirono nel pieno centro della capitale, nella Galleria Sciarra appena costruita, con le sue pitture liberty e la sua cupola in ferro e vetro. Più tardi si sarebbero trasferiti in via Monserrato. Vittorio fu subito accolto a far parte degli ambienti politici della sinistra romana, socialisti, radicali e repubblicani. Aveva stretto amicizia, oltre che con i suoi compagni socialisti, anche con Ernesto Nathan e Felice Albani, repubblicano. In pochi anni la coppia ebbe quattro figlie. Non erano ricchi e non avevano grandi aiuti in casa, ma Elisa non era certo una moglie tradizionale, dedita solo alla cura della casa e della prole. Pur essendo una madre attenta, seguiva con passione la politica e soprattutto aveva con Vittorio un rapporto fatto di condivisione culturale e politica oltre che di affetto. Un rapporto all’epoca abbastanza anomalo, che, forse inconsapevolmente, fu preso a modello nel matrimonio di sua figlia Clara con mio nonno Michele.
In Lollini l’esercizio della professione di avvocato penalista si legava strettamente all’attività politica. In particolare durante il periodo crispino, molti furono i processi politici, alcuni anche di grande notorietà, in cui egli assunse la difesa degli accusati: quello contro i braccianti di Finale Emilia nel 1887, quello contro gli anarchici Amilcare Cipriani e Pietro Calcagno, imputati di associazione a delinquere nel 1891-1892, dopo gli incidenti che avevano segnato il comizio del 1° maggio a Santa Croce in Gerusalemme, quello del 1894 contro il giovane anarchico Paolo Lega che, in via Gregoriana a Roma, aveva sparato a Crispi senza colpirlo e che fu condannato a vent’anni, quello del 1899 contro Camillo Prampolini, che aveva infranto le urne in Parlamento.
Quando le figlie erano ormai un po’ più grandi, Elisa si era impegnata attivamente nella questione femminile ed era stata fra le donne che avevano dato vita, nel 1896, all’Associazione per la donna, la prima fondata a Roma. Il centro del movimento femminista era infatti Milano, dove operavano Annamaria Mozzoni e Anna Kuliscioff. Le fondatrici del gruppo romano erano cinque: Virginia Nathan, la moglie di Ernesto, Alina Albani, Giacinta Martini, Eva De Vincentiis e appunto Elisa Agnini. Erano soprannominate «le dame del quintetto». A loro si aggregarono poi altre donne, fra cui Maria Montessori, e Liliah Nathan, la figlia di Virginia. Quando Vittorio fu eletto deputato, nel 1900, nel collegio elettorale lombardo di Gonzaga, Elisa cercò di spingerlo a far sua la battaglia sul voto alle donne, senza tuttavia riuscirci, nonostante il marito fosse personalmente un sostenitore del suffragio femminile.
La questione del voto alle donne suscitava infatti molte resistenze anche all’interno del Partito socialista, come ne avrebbe suscitate ancora a sinistra nel secondo dopoguerra. Le donne erano troppo suggestionate dai preti, si diceva. La stessa Anna Kuliscioff, fortemente impegnata nella battaglia per il suffragio, si trovò a dover combattere contro l’opinione di Turati, il suo compagno.
Più facile fu per Elisa influenzare il marito sulla questione dei diritti delle lavoratrici. Fu probabilmente in gran parte opera sua la proposta di legge sul riconoscimento di paternità che Lollini presentò invano più volte alla Camera, l’ultima nel 1922, quando il gran numero di figli illegittimi degli anni successivi alla guerra la rendeva urgente. Era all’epoca una proposta rivoluzionaria, che apriva la strada alla parificazione giuridica fra figli legittimi ed illegittimi, fatta per tutelare le ragazze madri, in molti casi operaie o domestiche messe incinte dal padrone e poi spesso licenziate. La legge esistente, introdotta dal Codice napoleonico, vietava la ricerca della paternità. Mentre in Francia la legge era stata profondamente modificata nel 1912, in Italia la ricerca della paternità era ancora vietata. Scriveva Elisa, nel 1917, sul giornale socialista «Uguaglianza»: «Molti progetti sono stati presentati al Parlamento, ma nessuno, sia pure sotto veste borghese, andò in porto. Ora ve ne sono due: il progetto Meda ed il progetto Lollini. Il primo s’arresta alla soglia della famiglia, non ammette cioè la ricerca della paternità per il figlio adulterino. Il secondo, che si fonda sul principio della responsabilità, la quale deve essere l’anima della nuova morale sociale, non esclude nessun caso, estendendo la ricerca anche ai figli adulteri e ai figli incestuosi. Solo chi è socialista ed è perciò libero dai pregiudizi borghesi, vede la profondità dei mali sociali e può fare opera di vera e profonda rigenerazione».
All’epoca, il gruppo femminista romano si era già scisso, come nel resto del movimento femminista in Europa, sulla questione della guerra. Elisa, socialista, si impegnò strenuamente per il neutralismo e restò pacifista tutta la vita. La sua battaglia cominciò già con la guerra di Libia e continuò con la Grande Guerra, con il gruppo ormai diviso tra interventiste (la Albani e le Nathan) e neutraliste. Negli anni della guerra, Elisa fondò un Comitato per l’assistenza legale alle famiglie dei richiamati, che si batté per ottenere, per gli orfani di guerra illegittimi, sussidi e pensioni come per i figli legittimi. La legge fu approvata nel 1918, ed Elisa poteva scrivere che: «Per ciò che riguarda la concessione delle pensioni di Guerra alle famiglie irregolari possiamo dichiararci completamente soddisfatti [...] essa è stata estesa anche alla madre non coniugata del militare riconosciuto da essa come figlio naturale [...]. Avremo quindi la soddisfazione d’aver portata la nostra pietra al nuovo edificio sociale basato sull’uguaglianza dei diritti dei due sessi».
Tutte e quattro le ragazze Lollini si laurearono: Olga, la maggiore, in legge, Clara in chimica, e le due più giovani, Livia e Clelia in medicina. Nessuna di loro si impegnò nell’attività femminista della madre, ma vissero comunque una vita anticonformista, tranne Olga, a cui la legge precludeva d’altronde l’esercizio dell’avvocatura. Olga si sposò nel 1912, Clara nel 1913, tutte e due con rito civile in Campidoglio; a celebrare il loro matrimonio fu il sindaco Nathan. Mia nonna non esercitò la professione di chimico, ma non fu certo una casalinga. Livia, laureatasi in medicina, si trasferì a lavorare a Milano. Si sposerà tardi, andando a vivere a Napoli. C’è un riferimento a lei nella corrispondenza della cognata di Gramsci, Tatiana Schucht, che era stata sua compagna di università.
La più indipendente fu la più piccola, Clelia, che a differenza delle sorelle non si sposò mai. Medico, dopo Caporetto si arruolò come volontaria con il grado di sottotenente e fu destinata all’ospedale militare di Venezia. Si ammalò di tubercolosi, passò molto tempo in sanatorio, guarì e si trasferì a Tripoli a fare il medico in un ospedale per le malattie polmonari. Era anche stata tra le fondatrici dell’Associazione italiana donne medico. La vidi qualche volta quando passava a trovare i nipoti a Roma. Era irruente, forse anche un po’ prepotente, e confesso che non avevo mai capito che personaggio interessante fosse stato fino a che mia cugina Silvia non ha scritto di lei ricostruendone la vita.
Sotto il fascismo, bisogna aggiungere, tutta la famiglia fu messa sotto sorveglianza – anche se non molto stretta – a causa dell’antifascismo di Clara e di Michele e dell’arresto del nonno. Nelle carte di polizia che si riferiscono alla dottoressa Clelia Lollini si dice che «si giaceva con gli ufficiali». Confesso che l’idea di questa prozia che «si giaceva con gli ufficiali» – forse nel periodo in cui era a Venezia – mi diverte molto.
Comunque fosse, il rapporto delle quattro sorelle con il femminismo era assai diverso da quello di Elisa, la loro madre. Non ho mai sentito mia nonna dirsi «femminista». Forse provavano anche loro quello che provava mia madre, che quando le chiedevano se era impegnata con il femminismo, rispondeva: «Figuriamoci! Femminista era mia nonna, come potrei esserlo io?».