La leggenda dello zio Natale

Anche nella famiglia di mio padre c’era una figura mitica che alimentava le storie famigliari. Era lo zio Natale, il fratello del mio bisnonno Vittorio Della Torre, e di molti altri tra cui Adele, la bisnonna di Primo Levi. Non so se anche in casa Levi-Della Torre Natale fosse una figura mitica – Levi non ne parla in Argon – ma certo lo era in casa Foa, dove di lui raccontava ai figli nonna Lelia, tramandando le leggende famigliari. Era alto, biondo e bellissimo. Non ho nessuna foto di lui da giovane, ne ho invece una che lo ritrae da vecchio: ha una gran barba bianca, e assomiglia in maniera impressionante a Tolstoj. Il suo vero nome era Nathan, ma si faceva chiamare Natale. Aveva studiato arte a Brera, entrando a far parte dei gruppi socialisti rivoluzionari. Si era poi avvicinato all’ideologia comunista ed anarchica di Carlo Cafiero e aveva cominciato a fondare giornali, scrivendoli e stampandoli praticamente da solo, passando di arresto in arresto. Era considerato un pericoloso sovversivo internazionale, e forse lo era anche. Nel 1881, si recò a Lugano a trovare Cafiero e furono tutti e due arrestati. Natale fu consegnato alle autorità italiane. Mancavano ancora quattordici anni all’espulsione degli anarchici che avrebbe poi ispirato la splendida canzone di Pietro Gori, Addio Lugano bella. Ammonito, Della Torre fondò subito un nuovo settimanale, «La miseria». Mio padre ricordava di avere visto una copia della sua prima e ultima uscita, il cui sottotitolo recitava: Non con la pazienza ma con l’impazienza i popoli diventano liberi. Ovviamente, il giornale venne a sua volta subito chiuso e sequestrato.

Alla fine degli anni Ottanta, spinto dalle sue sempre più gravi vicissitudini giudiziarie, fuggì in Francia vestito da operaio. «Quel vestito non lo lascerà più e fu la sua rottura con le sue origini borghesi», scriveva mio padre. Si trasferì a Nizza, dove lavorò da operaio. La leggenda famigliare raccontava di come fin da giovanissimo rifiutasse gli agi della sua famiglia, regalasse quello che possedeva ai poveri, e avesse sposato la ragazza ebrea più povera di Vercelli, una Ernestina Foa, malata oltretutto di tubercolosi, che morì dopo avergli dato due figli. Il primogenito, Michel, cittadino francese, era un poeta; un suo volume di versi fu pubblicato da Calmann-Lévy, e morì a ventitré anni nella Grande Guerra. Il secondogenito, Giuseppe, era cittadino italiano e morì in tarda età. Attraverso i suoi figli, Natale sottolineava di avere due patrie, lui internazionalista ed esule. Si trasferì a Parigi, riprese la sua arte della litografia, studiata a Brera, vivendo del suo mestiere, poveramente. In vecchiaia, per la sua gran barba bianca, era soprannominato Père Noël. Morì nella più completa miseria nel 1936 a Parigi.

La spinta anarchica rivoluzionaria si univa ad uno spirito vicino al francescanesimo per fare di questo ebreo piemontese un essere davvero fuori dal comune. La sua figura politica di anarchico e rivoluzionario andrebbe probabilmente riconsiderata dagli storici dei movimenti anarchici e socialisti di fine secolo, anche se sono poche le fonti su cui basarsi, inesistenti addirittura per la seconda parte della sua vita. Ma fuori dal comune è soprattutto la sua umanità, il rifiuto della ricchezza o anche solo di un modesto benessere, la rigorosa moralità. La strana mescolanza fra la sua alta professione etica e la sua esaltazione della violenza rivoluzionaria ha attratto l’attenzione di mia nonna, che pure rivoluzionaria non era, e di mio padre che negli anni dell’adolescenza, quando ascoltava questi racconti sul suo prozio, stava costruendo un pensiero politico quanto mai distante da quello dello zio Natale, ma altrettanto attento alle istanze di uguaglianza. Quando in prigione, nel 1936, seppe della morte dello zio Natale, mio padre si domandò se questo suo zio avesse saputo che un suo nipote era in prigione in Italia per antifascismo. Sperò di sì, e se ne sentì fiero.

All’epoca dello zio Natale e della sua giovinezza rivoluzionaria, la divisione che poi sarà così forte fra socialismo ed anarchia, fra istanze riformiste e violenza rivoluzionaria, non sembra essere ancora così netta. Come vedremo, anche il bisnonno Lollini, nonno di mia madre, uno dei fondatori del Partito socialista, difendeva da avvocato, e in maniera militante e non «tecnica», anarchici e attentatori. Viene da chiedersi quando si sia determinata una scissione così marcata da separare nettamente i due mondi. È possibile che a determinare questa separazione sia stato anche il rifiuto delle motivazioni etiche, della spinta verso la realizzazione della giustizia e della libertà che, al di là degli strumenti usati, muoveva questi rivoluzionari? E in questo caso, è la nascita del Partito comunista a rendere irreparabile la frattura, o prima ancora il prevalere di un socialismo scientifico, marxiano, che poco si occupava di morale e molto di lotta di classe e rapporti di produzione? Sono pensieri che mi vengono leggendo due righe dell’autobiografia di mio padre scritte proprio su zio Natale: «In qualche misura la leggenda (che fu realtà) di zio Natale ebbe su di me un’influenza analoga a quella che ebbero i comunisti che ho incontrato nelle prigioni e nella Resistenza; nessuna influenza reale nel campo delle idee, molta influenza nel campo dell’educazione morale, dello spirito di sacrificio, della militanza».