Lisetta

L’aggettivo che sale alla mente per raccontare mia madre adolescente viene da una lettera di suo fratello Renzo da Parigi: la leggiadra Lisetta. La maggior parte delle sue immagini di quegli anni, però, mi arrivano da Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, dove Lisetta è molto presente. Infatti della sua infanzia mia madre, almeno con me, ha parlato poco. Deve essere stata una ragazzina precoce e intelligente, che amava vedere gli amici e andare al cinema. Qualche immagine mi viene dalle lettere di suo fratello Renzo da Parigi, lettere che rivelano, nei confronti della sorellina, un rispetto e un’attenzione degni di nota. «Insomma, le scriveva nel dicembre del 1935, a dodici anni o giù di lì una visione del mondo composta di elementi come gli sci, la superiorità ragionata verso la scuola, i romanzi d’avventura, lo studio della storia (e di che ‘storia’!) e di vari propositi bellicosi e nobili sentimenti è già un bel fatto...».

Mia madre parlava di più invece dei suoi rapporti con i genitori: si sentiva soffocata dal loro moralismo e dalla puritana sobrietà in cui viveva la sua famiglia, anche prima dell’arresto di suo padre Michele. All’epoca, Lisetta aveva dodici anni. Gli era molto legata ma, lo confessava, lo considerava sorpassato, un uomo d’altri tempi. Il faro della famiglia era Renzo, solare e scanzonato. E la sorella, più piccola di lui di dieci anni, lo adorava. L’altro fratello non ha lasciato traccia nella memoria famigliare, era un ragazzo malato, faticava a seguire la scuola e, forse per reazione alla famiglia, era o si diceva fascista. Dalle lettere dal carcere del nonno a sua moglie, gli accenni a lui e ai suoi problemi sono tenerissimi e delicati. Non so quanto lo amasse la nonna, che adorava Renzo, e che di questo suo secondo figlio non mi ha mai parlato molto. Povero Franco! Anche i pomeriggi passati con lei a ripulire dalle erbacce la sua tomba a Torino la nonna non li impiegava a raccontarmi di lui: parlava solo di Renzo, che era là in una tomba vuota.

Lisetta aveva la stessa insofferenza di suo fratello Renzo nei confronti delle regole e della scuola. A scuola andava benissimo, ma ci si annoiava. Lei lo attribuiva alla retorica pomposa del fascismo, ma credo che la scuola le sarebbe stata stretta anche in un sistema diverso. Quando ero bambina e poi adolescente, i miei resoconti sulla scuola e sulle interrogazioni non suscitavano in lei nessun interesse, tanto che mi fu imposto di parlarne solo il martedì.

Una volta, racconta nelle sue memorie, scrisse un tema di argomento patriottico così iperbolico ed esagerato da non poter non essere considerato una presa in giro. Ma la scuola fascista, che poco capiva l’ironia, le dette invece un premio, che lei non andò a ritirare. Leggeva molto, e avidamente, Salgari insieme a Benedetto Croce e all’Antologia di Spoon River, purché non si trattasse degli odiati libri che le facevano leggere a scuola, come i Promessi Sposi. Leggere Croce era un po’ un’affermazione di credo antifascista, ma lei Croce lo conosceva anche, era amica di sua figlia Lidia e aveva passato un’estate a Pollone, nel biellese, dove Croce trascorreva le vacanze, «un luogo di villeggiatura amato dai liberali», scrive.

Lisetta aveva studiato anche lei al D’Azeglio, ma erano passati molti anni da quando gli antifascisti torinesi, e con loro suo fratello, vi facevano scuola d’antifascismo. All’epoca in cui Lisetta andava al liceo, l’antifascismo si era trasferito dalle aule del D’Azeglio ad una cerchia esterna di persone legate da rapporti di amicizia e di comunanza politica e dal fatto di avere più o meno tutte un membro della famiglia in prigione o al confino. Erano le case di Giuseppe e Lidia Levi, i genitori di Natalia di cui Lisetta era molto amica, o la casa sempre aperta agli amici di Ada Gobetti, la vedova di Gobetti. Sarebbe bastato, scrive, mettere un poliziotto sotto casa di Ada per sapere chi erano gli antifascisti torinesi. E naturalmente la polizia politica non mancava di farlo.

Ho conosciuto bene Ada, che era stata molto amica, forse più che un’amica un sostegno morale, di mio padre e di mia madre e che aveva fatto la Resistenza con loro, guadagnandosi la medaglia d’argento al valor militare. Ricordo delle sue foto con le armi in pugno. Subito dopo la Liberazione, divenne vicesindaco di Torino. In quella veste, riuscì a convincere i miei genitori a sposarsi e a legalizzare la mia situazione anagrafica. Ero infatti stata denunciata come Annalisa Rizzini, e rischiavo di essere mandata in brefotrofio se non fossi stata riconosciuta da loro con il mio vero nome. Ma loro erano giovani e un po’ sciagurati e continuavano a rimandare. Alla fine fui regolarizzata, un attimo prima che la burocrazia riprendesse i pieni poteri. Ma dovettero prima disconoscermi e poi riconoscermi e nel passaggio sono segnata come «figlia di N.N.», cosa che mi diverte molto.

Ada era una forza della natura, allegra, entusiasta, piena di iniziative. Mentre scrivo, vandali o fascisti (o ambedue) hanno appena distrutto la targa del viale interno a Villa Pamphili, a Roma, a lei dedicato. Mi sono sentita come se avessero fatto male a lei. Era un mondo, quello torinese, di cui nel dopoguerra, trascorrendo da bambina un mese all’anno a Torino dai nonni Giua, feci in tempo a conoscere qualche sopravvissuto, come il professor Levi e sua moglie Lidia, Carlo Mussa, Paola Carrara e Marussa Ginzburg, la sorella di Leone, che ricordo nella casa che divideva con sua madre a corso Peschiera, vicinissimo alla casa dei miei nonni.

Mia madre, anche qui sul modello di Renzo, disdegnava alcuni aspetti di questo suo mondo, come l’idea che fare l’università fosse una precondizione alla vita. Per questo, quando già eravamo nati io e mio fratello, nell’immediato dopoguerra, accettò molto a malincuore di riprendere gli studi interrotti con la Resistenza, ci lasciò alle cure dei nonni Giua, ma poi rinunciò. Non ci ha mai spinti a fare l’università dopo il liceo, anche se non ci ha nemmeno ostacolati, naturalmente. Ma la sua diffidenza nei confronti del mondo accademico era innata. Quando entrai a lavorare all’università, trattava anche me con velata ironia: ero una professoressa.

Era naturalmente antifascista, per tradizione famigliare. Lei racconta di non aver fatto nessuna scelta, di avere assorbito semplicemente l’antifascismo famigliare. Ma c’era, credo, qualcosa di più. C’era una parte di lei che era refrattaria a tutte le dittature e perfino a tutte le forme del potere. In fondo in fondo, anche se fu per molti anni comunista, era un’anarchica, sia politicamente che caratterialmente. La morte di suo fratello Renzo pesò su di lei come un macigno. Non lo diceva mai a chiare lettere, aveva un pudore torinese per le manifestazioni di sentimenti privati e una riservatezza che le derivava forse dalle sue radici sarde. Ma a noi figli questo era chiaro fin da bambini.