L’uomo che aspettò vent’anni

Quando in macchina si arriva nella città di Finale Emilia, l’ultima della provincia modenese, appare una di quelle scritte stradali che segnalano l’entrata in città. Sulla scritta si legge «Finale Emilia. Città natale di Gregorio Agnini».
Gregorio Agnini era il fratello della mia bisnonna, il prozio di mia madre. Fu uno dei fondatori del Partito socialista, deputato per oltre trent’anni, fondatore delle leghe dei braccianti in Emilia. A Finale Emilia c’è un monumento dedicatogli nel 1958, in pieno centro, nei giardini di piazza Roma. È raffigurato in piedi, in giacchetta, mentre sembra tenere un comizio. Agnini veniva da una famiglia benestante. Sua madre Bettina Kostner, di origine austriaca, faceva parte della nobiltà di provincia; suo padre Tommaso era un possidente che si occupava della gestione delle sue terre e dirigeva una distilleria, occupazione in cui giovanissimo si impegnò lo stesso Gregorio. Ma la sua passione era la politica. A partire dal 1887 diresse i primi scioperi bracciantili, fu più volte arrestato, nel 1891 fu eletto alla Camera, poi, nel 1892, partecipò al Congresso di Genova che dette vita al Partito socialista. Aveva un forte carisma e grandi capacità oratorie. Non volle trasferirsi a Roma e, pur continuando ad esercitare il suo mandato parlamentare, restò legato alla provincia modenese, dove continuò a battersi a sostegno delle cooperative bracciantili, in favore della bonifica, della costruzione di linee ferroviarie, dell’abolizione del dazio sul grano. Nel 1899 fu tra i deputati socialisti che fecero ostruzionismo alle leggi Pelloux e tra i protagonisti del rovesciamento delle urne. È questa l’atmosfera che Elisa Agnini, la mia bisnonna, respirò nei suoi anni giovanili, vivendo a contatto con il fratello a cui era legatissima.
Gregorio si sposò solo in vecchiaia, era ostile al matrimonio ma era molto amato dalle donne. Quando andai a Finale per un convegno – era con me mia sorella Bettina – e raccontammo di essere le pronipoti di Gregorio Agnini, venimmo a sapere, con nostro grande divertimento, che erano in molti a sostenere di essere suoi discendenti «illegittimi». Era un bell’uomo, bruno, con una barba corta, più lunga nelle foto da vecchio. Fu pacifista, partecipò all’Aventino, e fu estromesso dal Parlamento nel 1926, con tutti gli altri deputati socialisti. Nel 1920 era stato aggredito e malmenato dai fascisti, ma durante il Ventennio fu lasciato in pace, sebbene fosse sempre sorvegliato dalla polizia politica. Aveva già oltre settant’anni e visse appartato, studiando storia e archeologia. Mia madre, che era nata nel 1923, fece così in tempo a conoscerlo e, qualche volta, quando veniva a Roma, lo zio Gregorio la accompagnava a visitare la città e le illustrava i monumenti.
Dopo la guerra, a ottantanove anni, si ritrovò ad essere il più vecchio degli ex parlamentari e, in quanto decano, presiedette la Consulta, l’organo, com’è noto, non elettivo che fece le veci del Parlamento fino alle elezioni del 1946 per l’Assemblea nazionale costituente. In quanto presidente, Agnini pronunciò il discorso inaugurale, il 25 settembre 1945. Il segretario della Consulta era un giovanissimo Andreotti, presidente del Consiglio era Ferruccio Parri. Il suo discorso, che attaccava con forza la monarchia come connivente con il fascismo, suscitò il 6 ottobre la protesta ufficiale dell’Unione monarchica. Agnini terminava il suo discorso con un forte richiamo alla Repubblica romana, di taglio violentemente anticlericale, nel silenzio esterrefatto dei membri cattolici della Consulta. I tempi erano cambiati durante quei vent’anni di regime, ma Agnini non se ne era accorto e tornò a casa molto soddisfatto. Si mise a letto e morì pochi giorni dopo, di gioia e di commozione.