Un bellissimo ragazzo americano
Ho frequentato meno mio zio Beppe, il fratello di Vittorio. Beppe era un bellissimo ragazzo, chiaro di carnagione e di capelli, molto apprezzato dalle donne. Era anche il prediletto della madre Lelia. Aveva studiato ingegneria al Politecnico di Torino e si era poi specializzato in ingegneria aeronautica a Roma con il progetto di un nuovo aereo a volo continuo. Fu assunto per costruire il nuovo aereo alla Piaggio, ma per farlo, dati i legami militari dell’azienda, dovette iscriversi al Partito fascista. Era la condizione per poter lavorare e Beppe era molto più appassionato al suo lavoro che alla politica. Ma la politica lo aveva raggiunto lo stesso, mettendolo in seri guai. Nel 1935, all’arresto di Vittorio, la polizia politica, che lo sospettava (a ragione) di aver dato al fratello delle informazioni riservate, arrestò anche lui. Fu assolto in tribunale ma si fece tre mesi di galera e la sua situazione lavorativa divenne difficile.
Licenziato dalla Piaggio, fu assunto alla Caproni, ma poi ripreso alla Piaggio a lavorare al suo progetto. L’aereo da lui ideato, per un volo diretto Roma-San Francisco, si era schiantato quando lui era in carcere, perché le sue istruzioni non erano state seguite. L’aereo fu terminato nell’estate del 1939. Le leggi razziste del 1938 sul momento non avevano avuto effetto su di lui perché la Piaggio era un’industria privata. Ma Beppe era pur sempre un ebreo.

Alla cerimonia di inaugurazione, nella base di Guidonia, partecipò anche il re. Ma non Beppe, a cui era stato intimato di non farsi vedere per ovvi motivi di opportunità politica. Poco dopo egli si licenziò dalla Piaggio, prima di esserne cacciato. Quando lasciò Finalmarina gli operai della Piaggio andarono a salutarlo al treno, in silenzio, senza parlare, in segno di stima ed affetto. Le sue grandi capacità scientifiche gli resero più facile l’emigrazione negli Stati Uniti, anche se dovette passare dalla Svizzera: una vera e propria fuga.
Il 2 settembre 1939, a guerra già iniziata, lasciava l’Italia. Fu quasi subito chiamato a insegnare in varie università americane, lavorò ai suoi progetti, sposò una ragazza canadese, cambiò il suo nome da Giuseppe in Joseph, ebbe quattro figlie a cui non insegnò l’italiano. Era profondamente offeso con l’Italia e nemmeno il ricordo del saluto dei suoi operai bastò a farlo riconciliare con la sua patria matrigna, come tanti altri ebrei emigrati in seguito alle leggi razziste e mai più ritornati. Ma Beppe, oltre ai viaggi degli anni dopo la guerra per vedere i genitori e il fratello, vi fece ritorno anche nel primissimo dopoguerra, come ufficiale dell’esercito americano. Era la prima volta che vi rimetteva piede. «Non appena arrivai a Torino, scriveva molti anni dopo, mi sentii di colpo come nei giorni prima di partire dall’Italia, prima della guerra, quando cercavo disperatamente di avere il passaporto. Provai lo stesso terrore che se fossi stato preso in trappola».
Ecco, come spesso accade, nella stessa famiglia l’emigrazione aveva dato due esiti opposti: una sorella continuava a sentirsi italiana, o almeno a mantenere forte la sua antica identità italiana accanto a quella nuova, americana. Il fratello aveva tagliato tutti i ponti, e il mondo di prima non era più il suo.