Un sopravvissuto
(della prima guerra mondiale)

Mio padre ci parlava spesso della prima guerra mondiale, che vedeva come una guerra terribile. Non la seconda guerra mondiale, ma la prima, ci diceva, aveva segnato un vero e proprio spartiacque nella storia dell’Europa. E ci diceva quanto eravamo fortunati a vivere in un’Europa più o meno riunita, mentre quando lui era piccolo le nazioni europee si scannavano l’un l’altra. È così che siamo diventati tutti europeisti in famiglia. Vittorio aveva memorie chiarissime della guerra, lui che era nato nel 1910, pochissimi anni prima del suo inizio. Ricordava la sua tata, austriaca, che il nonno Ettore accompagnò d’urgenza al treno per farla tornare in patria, poche ore prima che l’Italia entrasse in guerra.

Il nonno Foa non si occupava molto di politica, ma era un fervente ammiratore di Giolitti e in quanto tale un convinto neutralista. Sono convinta che molti ebrei siano stati neutralisti, anche se quelli che emergono nei libri di storia erano tutti ferventi interventisti. Poi, i richiamati, i morti in famiglia, come un giovane nipote, Camillo, che il nonno amava come un figlio, morto nel 1916 a Gorizia, la cui foto in divisa era esposta a Diano Marina vicino ad uno Shaddai ricamato in giallo che ora è appeso a casa mia. Vittorio racconta nella sua autobiografia di come le privazioni fossero state interiorizzate anche da loro bambini e trasformate in patriottismo: niente zucchero a colazione, nessun ricorso alla borsa nera. Era un’Italia ancora rigorosa su queste cose, o forse lo era il mondo torinese. Su quel patriottismo, in gran parte trasmesso dalla scuola più che dalla famiglia, mio padre ha riflettuto, anche perché poi la guerra, quel patriottismo, lo metteva invece pesantemente in crisi.

Era quanto avvenuto a un cugino del nonno, Marco Luzzati, un avvocato che richiamato alle armi, fu adibito ad un tribunale militare. Dopo Caporetto, fu obbligato dal suo ruolo a sentenziare la condanna a morte di due giovani disertori. Obbedì e assistette, come di norma, all’esecuzione. Solo che poi, tornato in caserma, si sparò un colpo alla tempia. Non morì, ma rimase cieco. Nel 1932 ci riprovò, si impiccò, e questa volta riuscì a morire. È una storia di famiglia che ha lasciato in mio padre, e prima di lui in mio nonno, una grande impronta. Mio padre la racconta seccamente, senza dire nulla sulle condanne a morte e sulle decimazioni nell’esercito, ma il suo giudizio traspare forte fra le righe.

Mi piacerebbe sapere quanti episodi del genere, intendo suicidi come questo, sono avvenuti, e chi fossero gli ufficiali che furono come lui mossi da vera pietas verso quei ragazzi mandati al macello. Chi si è ucciso o è vissuto per il resto della vita fra i rimorsi ritenendo non di aver subito il male ma di averlo compiuto? Il figlio di Marco, Piero, fu per mio padre un fratello. Piero era di casa da loro, e ci passò anche lunghi periodi quando restò del tutto orfano, alla morte della madre. Lo considerava, scriveva Vittorio, un sopravvissuto della prima guerra mondiale.

Questa storia di Marco Luzzati Vittorio decise di raccontarla in Il Cavallo e la Torre. Ma, per farlo, chiese il permesso non a Piero, ma al suo figlio maggiore Marco. Glielo chiese proprio il giorno del funerale di Piero, e Marco fu molto felice che glielo avesse chiesto e ne derivò un senso di pacificazione e un’assunzione di responsabilità.