Dove sono finiti i fiori?
I suoi ultimi anni mio padre li ha passati soprattutto a Formia, sempre più stabilmente man mano che le sue forze declinavano e i viaggi gli diventavano sempre più faticosi. E a Formia è sepolto. Era una casa immersa negli aranci e i limoni, un vecchio frantoio restaurato. Ci viveva con la sua compagna, Sesa, ma circondato da un flusso ininterrotto di amici che andavano a fargli visita, a discutere con lui di politica e di storia. Amici della porta accanto, come Sandro Bartolomeo, il sindaco, e Silverio e Lilia Paradiso, Francesco Carta, il suo medico, o gli amici di Castelforte, o quelli, tanti, che prendevano il treno per andare a trovarlo da più lontano. Negli ultimi anni Vittorio camminava a fatica e restava quasi sempre in casa o seduto nel giardino. Era una casa sempre aperta, in cui bastava spingere la porta ed entrare; Vittorio era di solito seduto proprio di fronte alla porta, a leggere o a scrivere dietro il suo tavolo. Ci ha scritto quasi tutti i suoi libri, dal Cavallo e la Torre a Passaggi a Questo Novecento, nato proprio da una serie di lezioni che aveva tenuto nel liceo classico di Formia su richiesta del preside Nino Cardillo. Quando cominciò a non vederci più c’era sempre qualcuno pronto a leggergli i giornali, un altro rito fondamentale. E questa vita in mezzo agli amici, ai libri, alle discussioni, è durata fin quasi alla sua morte.
Mia madre è morta prima di lui, nel 2005, in una clinica di lunga degenza sull’Aurelia. Era molto malata; avrebbe potuto farsi curare a casa, ma rifiutava decisamente di farlo. Da una parte si sentiva fragile, e più protetta in clinica che a casa, dall’altra non voleva pesare su di noi. Non si lamentava mai. Un paio di volte che l’abbiamo portata d’urgenza al pronto soccorso le abbiamo raccomandato, se le chiedevano come si sentiva, di non rispondere «Bene, grazie», se no non le avrebbero dato retta. In quei due anni in clinica, almeno quando non stava troppo male, ha ricevuto amici, letto, discusso. Ha anche scritto la sua autobiografia, È andata così, intervistata da due amiche, Brunella Diddi e Stella Sofri. Continuava a seguire con attenzione ciò che succedeva nel mondo, in particolare dopo l’attentato alle Torri Gemelle. E alla fine della sua autobiografia, nel penultimo paragrafo, si volgeva a guardare sfiduciata all’Europa, che le sembrava troppo chiusa in se stessa e soprattutto in ritardo al suo appuntamento con l’Est. Credevamo che il Muro sarebbe durato per sempre, scrive, e nel frattempo nei Paesi dell’Est, prima che l’Europa si accorgesse di loro, «sono state frustrate molte aspettative».
In quel suo scorcio di vita, mia madre vede un’Europa stanca, troppo tardi attenta a considerarsi tutt’uno con l’Europa dell’Est. Chissà cosa avrebbe pensato dei muri eretti oggi in quei Paesi contro i migranti, del nazionalismo sempre più acceso, del risorgere dell’antisemitismo? Ma amava quei posti, amava la Polonia e Praga e Budapest e sperava che avrebbero potuto contare di nuovo, «dopo la lunga ibernazione comunista».
Anche Vittorio aveva salutato con gioia e speranza la caduta del Muro di Berlino: «la caduta del comunismo, scriveva, è la rinascita della libertà». Ma ora che il comunismo era affondato, cosa ne era dei comunisti, in modo specifico dei comunisti italiani? Ancora una volta lui, che del comunismo come dottrina e ideologia non condivideva quasi nulla, si volgeva invece verso quelli che avevano vissuto un sogno di uguaglianza e vi avevano molto sacrificato e speso, ricordando i comunisti nelle carceri fasciste o nella Resistenza. Ricordo che si domandò a chi rivolgersi, a chi porre queste domande. Scelse poi, dando vita ad un libro a tre voci, Il silenzio dei comunisti, Alfredo Reichlin e Miriam Mafai per interrogarli su quello che definiva il silenzio dei comunisti di fronte alla grande disfatta storica del comunismo. È questo uno dei temi che più lo assillava nei suoi ultimi anni.
Già nel 1995, quando ancora l’89 era storia di ieri, aveva scritto che «alla metà degli anni Ottanta, fra iscritti, simpatizzanti ed elettori, i comunisti italiani erano milioni e milioni. Dove sono finiti? Sarebbe importante sapere qualcosa sulle loro scelte, come le vedevano allora e come le vedono adesso, se sono ancora comunisti e in quale modo, se non lo sono più da cosa sono stati mossi. Il comunismo specificamente italiano è un pezzo importante della nostra storia che minaccia di restare senza testimoni». Il libro-intervista con Reichlin e Mafai, a cui si dedicò con passione, non gli dette, diceva, le risposte che stava cercando. Luca Ronconi ne ha poi tratto una pièce teatrale, in cui il personaggio di Vittorio era rappresentato da un attore molto noto, e anche molto bravo, Luigi Lo Cascio. Mi ha fatto un bizzarro effetto estraniante vedere sul palcoscenico un Vittorio così giovane, con un viso che non era il suo. È stata poi tradotta in francese e rappresentata ad Avignone e in Belgio. In Italia, è stata rappresentata a Torino al Lingotto nel 2006, dove sono andata a vederla. C’era tutta la sinistra torinese, di tutte le sfumature, l’ambiente era caldo e attentissimo. Vittorio era ormai troppo malandato per poter arrivare fino a Torino, gliela abbiamo poi raccontata.
Pochi mesi dopo la morte di mia madre, ho registrato una lunga conversazione con mio padre su di lei e sui loro rapporti. Mi accorgo ora, riascoltandola a distanza di dodici anni, che non ci sono quasi accenni a vicende private, personali, né da parte mia né tantomeno da parte sua. Il tentativo di capire più a fondo il modo di essere di mia madre, personaggio quanto mai complesso, attraverso l’immagine di mio padre, altrettanto complicato ma in un altro modo, si traduceva in una riflessione essenzialmente politica. Politica alta, certo, come passione di cambiare il mondo, come ricerca, come intreccio fra etica e politica, ma pur sempre politica. Per Vittorio, si era trattato di «immaginare un adempimento vitale solo con una persona di quel tipo lì». «Eravamo una bella coppia», aggiunge ancora nell’intervista, con un lieve accento interrogativo.
Anche il tentativo di capire il rapporto tra loro, il loro lungo percorso insieme, si traduceva nell’immagine di una comunanza ideale che ad un certo punto andava in pezzi, di un percorso comune che divergeva fino a separarsi. Ora, la mia indagine cercava di mettere in luce i momenti essenziali di queste divergenze, le rotture. Queste rotture coincidevano con le rotture nella vita di ognuno di loro: quando è che Lisa ha considerato finita, dentro di sé, l’esperienza nel PCI, chiedevo. Nel 1968? E Vittorio rispondeva che era stato molto prima, all’inizio degli anni Sessanta. Gli ribadivo, perplessa, che sembrava attribuirle, fin dall’inizio, una sorta di volontà di essere al tempo stesso dentro e fuori, dentro il partito e talpa consapevole al suo interno. «Veniva da una famiglia abituata a pensare con la sua testa», rispondeva Vittorio. Anche la vicinanza di mia madre al gruppo dei cattolici comunisti nel dopoguerra Vittorio la attribuiva certo alla sua stretta amicizia con Felice e Lola Balbo, ma anche al suo desiderio di poter mantenere, nel partito, un suo spazio di libertà. «I credenti erano lasciati più liberi», diceva. Per lui, la cifra essenziale di mia madre era il suo comunismo. Un comunismo certamente diverso da quello fideista o assoluto di tanti suoi seguaci, certamente venato di suggestioni anarchiche, piuttosto una ricerca, continua e ripetuta in tante circostanze diverse, di salvare un nucleo del comunismo, di ritrovare dentro il comunismo la libertà. Una ricerca ovviamente destinata al fallimento.
Per Vittorio, Lisa usciva dalla fedeltà rimanendo fedele. Fino al momento in cui prendeva atto che non c’era niente da fare. Ma quando era stato quel momento?, gli domandavo, e ancora mi domando. Se l’esperienza di Lotta Continua può ancora essere letta in questo senso – anche se Vittorio tendeva a considerarla poco importante nel percorso di Lisa – il suo lavoro sulla dissidenza e sui diritti umani come vi rientrava? Per lui, nel suo appoggio alla dissidenza c’era ancora forte il senso di una ricerca di un comunismo fondato sulla libertà. Nei dissidenti vedeva i comunisti, dice. Io credo però che almeno a partire dalla guerra in Bosnia, ma forse anche prima, a differenza dei momenti precedenti in cui aveva lavorato coi dissidenti polacchi, avesse però ormai preso atto dell’impossibilità di raggiungere quel comunismo che aveva con tanta fatica cercato. E che il comunismo ormai assumesse per lei soltanto l’aspetto del torturatore serbo Mladič e degli altri suoi simili.