«La città dove par di sentire ruggire i leoni»
Con il dopoguerra, ricominciava la vita politica. Ed essa aveva una sua sede naturale: Roma. La capitale, la città dove avevano sede i ministeri, il Parlamento, i partiti. Vittorio divenne uno dei leader del Partito d’Azione, con Lussu, La Malfa, Reale e Spinelli, e partecipò attivamente alla sua breve vita politica. Come il nonno Giua, anch’egli eletto all’Assemblea nazionale costituente, ma per il Partito socialista. In quei due anni, fra il 1945 e il 1947, fu quasi sempre a Roma. Furono anni difficili in cui si gettarono le basi degli sviluppi successivi della politica italiana. Il governo azionista di Parri durò solo fino al dicembre 1945, poi gli subentrò un governo di ampia coalizione diretto dal leader della Democrazia cristiana, De Gasperi. Nel 1947 si sciolse il PdA, con una diaspora dei suoi membri nei vari partiti. Vittorio entrò nel Partito socialista. Nello stesso 1947 i ministri comunisti furono espulsi dal governo. Cominciava la Guerra Fredda, le cui prime avvisaglie già si erano viste chiaramente ancora nel corso della guerra.
Sono anni che, nella sua autobiografia, Vittorio ricorda come un periodo «non luminoso». La militanza dentro il PdA gli era sembrata, uscito dal carcere, un prolungamento naturale degli anni di prigionia. Con il venir meno del Partito d’Azione, ricordava, venivano meno anche molte delle illusioni della Resistenza. Ma, nella sua interpretazione più tarda, non era questione, o almeno lo era solo in parte, di un tradimento dell’antifascismo. La colpa la attribuiva, da vecchio, anche al Partito d’Azione, stretto in un’ambiguità fondamentale tra la costruzione di una democrazia «esente dai compromessi e dalle viltà della vecchia democrazia liberale» e l’uso senza remore degli strumenti della democrazia tradizionale. Gli sembrava, ripensandoci, che fosse cambiata la natura della politica, ridotta a mera tecnica anche per loro che avevano vissuto il fascismo in galera. Era diventato un professionista della politica. «Ci dividemmo allora – scrisse nel 1967 – tra chi credeva nella tecnica politica e chi riaffermava il valore della poesia e della verità. E cademmo tutti insieme, i poeti (come Carlo Levi, Emilio Lussu, Guido Dorso e Ferruccio Parri) e ‘i tecnici’». Da vecchio scriveva di essere diventato anche lui partecipe di un’idea della politica come tecnica, e non come verità e moralità: «E questo spiega il mio disagio, il mio smarrimento di quel tempo, l’effetto di sterilità di correre sempre, ogni momento, dietro il contingente. Spiega perché mi sono sentito così orfano per la fine del Partito d’azione». Diverso il giudizio che dava della stagione dei lavori della Costituente, un momento felice dove i partiti si scontravano duramente fra loro ma anche partecipavano insieme al progetto di una nuova Italia.
Per Vittorio, almeno nella sua riflessione successiva, il Partito d’Azione avrebbe continuato a vivere in lui come una metafora della ricerca, come un criterio di distinzione etica, nonostante le ambiguità che gli riconosce. Aveva difficoltà, per questo, a capire gli attacchi che negli anni Novanta ed oltre vennero rivolti al PdA come se fosse stato il baluardo dello stalinismo nell’Italia del dopoguerra. Perché proprio noi che cercavamo una via mediana e non siamo mai stati comunisti?, si domandava, pur sapendo benissimo che forse era proprio questa la ragione per cui erano attaccati: spesso vengono attaccati coloro che cercano una terza via.
A Roma, in quei primi anni della Costituente, Lisetta aveva difficoltà ad adattarsi. Si sentiva «straniera», e si stupiva per l’aspetto «quasi gaudente» della città, contrapposto all’austerità della Torino del dopoguerra. Risale a questo periodo una lettera della nonna Lelia indirizzata alla figlia Anna, negli Stati Uniti, in cui descrive Vittorio «come uno zingaro», noncurante, nonostante la famiglia e i due bambini, di trovarsi un posto stabile e remunerato, insomma un po’ sciagurato. Quando, dopo una visita a Boston a mia zia, ho portato la fotocopia di questa lettera a mio padre, ne è rimasto molto stupito. Allora era stato eletto alla Costituente, aveva una carriera politica davanti a sé. Credeva che la sua famiglia fosse fiera di lui, di quello che stava facendo, anche in termini di successo personale, e invece si trovava descritto come un disoccupato. Eppure, i suoi genitori non erano chiusi alla politica. Quando Vittorio era in carcere non lo avevano mai spinto a chiedere la grazia, nemmeno quando si ammalò di morbo di Basedow, e lui gliene fu sempre grato. Ma anche nelle sue lettere del 1945-1946, alcune indirizzate al cugino Piero, traspare un’incertezza di fondo: incertezza sulla vita politica in Italia, perché teme ancora il ritorno di un regime autoritario, e incertezza anche sulla sua vita randagia tra Roma, Milano, Torino, e sulle sue stesse scelte lavorative. «Vivo senza prospettive – scrive – risucchiato irresistibilmente dall’attività politica». In fondo, che sua madre lo vedesse come «uno zingaro» non mi stupisce, dal momento che era la percezione che lui stesso aveva di sé in quel momento. Forse più tardi se ne dimenticò.
Per cogliere il clima della Roma di quegli anni più che ai ricordi miei o della mia famiglia ho attinto a un libro straordinario, scritto proprio in quel periodo non da un politico, ma da un artista, Carlo Levi: L’Orologio. Il libro si apre proprio con il ruggito dei leoni: «La notte, a Roma, par di sentir ruggire leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani, nell’ombra qua e là scintillante; e a tratti un rumore roco di sirene, come se il mare fosse vicino, e dal porto partissero navi per chissà quali orizzonti. E poi quel suono, insieme vago e selvatico, crudele ma non privo di una strana dolcezza, il ruggito dei leoni, nel deserto notturno delle case». In questa Roma, si muovono i politici nel 1945, gli azionisti eletti alla Costituente. Levi ritrae due di loro, Fede e Roselli. Fede è Vittorio, Roselli è Altiero Spinelli. Carlo Levi e Vittorio erano vecchi amici e compagni di antifascismo. Nel maggio 1935 erano stati arrestati insieme, poi Vittorio era finito in carcere e Levi al confino. Un mese prima di essere arrestato, come si è già detto, Vittorio era stato ritratto da Carlo Levi, un ritratto bellissimo con il volto già tirato dalla consapevolezza che la polizia era sulle sue tracce. Ora, Levi lo ritrae ancora, questa volta con la penna e non con i pennelli:
«Fede [...] era piccolo, sottile, fragile, con un viso allungato e trasparente, scintillante del brillio degli occhiali, un naso appuntito, diritto in mezzo alle guance pallidissime, come una sentinella in un campo coperto di neve. Sotto, si apriva una bocca minuta dalle labbra arcuate e carnose: il mento, robusto, era spaccato in mezzo da una fossa. Aveva un’aria concentrata, attenta, come di chi abbia per le mani una pistola carica; e, quando taceva, non pareva ascoltare o riposarsi, ma badare piuttosto a far sì che il grilletto della sua arma non scattasse inavvertitamente. E l’arma c’era davvero, e pericolosa; perché, quando parlava, non era un colpo di pistola, ma una scarica di mitragliatrice, anzi un fuoco multiplo e incrociato di tiri arcuati che non si capiva di dove venissero. Questa abilità, questa astuzia della mente, che lo portava a nascondere gli argomenti per tirarli fuori improvvisi nel momento più inaspettato, che lo faceva girare attorno ai concetti, attorcigliandoli in matasse e in gomitoli e sciogliendoli a un tratto, come un pescatore di trote che avvolge paziente la lenza sul verricello con mossa annoiata e monotona e poi lancia lontano, con subita violenza, gli era naturale. Ma la natura era rafforzata dalla volontà. Nelle sue meditazioni su quel cielo della politica dove ora spaziava, egli pensava di averne scoperte le leggi, immutabili e eterne; dure, machiavelliche leggi alle quali si confermava con sicurezza entusiasta, come un eroe di Stendhal.
E molto più egli aveva del Julien Sorel quando doveva, per qualche breve istante, volger gli occhi a qualcosa di diverso da quel suo cielo politico. Come chi aveva poco vissuto ed era stato privato, sotto una campana di vetro, degli anni migliori, egli sentiva un bisogno irresistibile di vivere, di vivere in fretta, di rifarsi del tempo perduto, di invecchiare, di raggiungere la propria età, come un soldato rimasto indietro in una marcia, che corra lungo il reggimento per ritrovare il proprio posto nella fila. Ma proprio la troppa fretta, l’ansia di esperienza, gli impediva di vedere le cose e di riuscire veramente a toccarle; come un affamato che inghiotta in furia, tutti insieme, i cibi di una grande tavola, senza poter distinguere il gusto di nessuno».
Non è il ritratto, davvero, di un professionista della politica, troppo sognatore, troppo poco realista. Eppure, è questo il giovane, aveva trentacinque anni, per i tempi un’età già matura, che si butta nella vita politica, fino a rimanere scottato dalla scomparsa del suo partito, che partecipa attivamente all’elaborazione della Costituzione fino a ritrovarsi, nel 1948, come lui dice, «disoccupato». Già allora il suo rapporto con la politica lo doveva intrigare, se scriveva di sé al cugino Piero: «la mia vocazione politica è forte ma piuttosto incongruente alla situazione di riflusso che si va sempre più accentuando fra noi. Si richiedono oggi doti che io non posseggo, di equilibrio parlamentare: la mia posizione caratteristica e mentale ha troppe implicazioni rivoluzionarie per non essere alla lunga gettata ai margini del gioco politico».
Di questo periodo, prima dello scioglimento del PdA – raccontava di sé molti anni dopo – fu molto sollecitato a diventare sottosegretario, ad entrare nella carriera politica istituzionale. Mia madre era molto contraria – non perché lo considerasse un tradimento, ma perché lo vedeva come una cosa «di cattivo gusto» – e questo lo spinse a scegliere un’altra strada, quella del sindacato, che invece Lisa approvava perché, come lui stesso mi diceva, la considerava anti-istituzionale. Torna così a Torino, comincia a lavorare nel sindacato, dal basso, finché, nel 1950, comincia a collaborare con Di Vittorio ed entra nella segreteria della CGIL. È lo spostamento definitivo a Roma.
Il primo inverno, tuttavia, noi bambini lo passammo con nostra madre a Positano. Nostro padre era a Roma ma non trovava casa per noi dal momento che gli affitti erano carissimi. Di Positano ho vaghissimi ricordi: una scalinata che portava verso la spiaggia e noi che la scendevamo tutte le sere per andare a prendere il latte reggendo un secchiello di alluminio che dondolava nelle nostre mani. Della casa, che era di Manlio Rossi-Doria che ce la aveva imprestata, non ho ricordi. Penso che sia stato un periodo felice, me ne viene un’immagine di serenità. Con Manlio i miei erano molto amici; sue erano delle storie per bambini che i nostri genitori ci raccontavano e che poi io, a mia volta, ho trasmesso ad Andrea e alle sue figlie (ed ora le racconto alla mia pronipotina di sei anni, che ci aggiunge sempre qualcosa di suo). Non sapevo che fossero di Manlio quelle storie, ma una volta ne parlai con sua figlia Anna, mia amica, e lei le riconobbe con sorpresa e gioia.
Quando finalmente riuscimmo a trovar casa a Roma, abitavamo a Testaccio, in via Vanvitelli. La casa era piccola, ma costava tantissimo, più di metà dello stipendio di Vittorio, e così eravamo molto poveri, al punto che quasi non avevamo da mangiare. Le leggende famigliari raccontano di spinaci messi a bollire; gli spinaci erano per noi bambini, l’acqua della bollitura per Lisa e Vittorio. O di un uovo che Lisetta aveva tenuto da parte per friggerlo a Vittorio e che conteneva un pulcino. Ma le foto li mostrano, seppur ancora magri, più in carne rispetto agli anni della guerra. Anni in cui, scrive Vittorio, loro, già clandestini, non si rivolgevano neanche al mercato nero per l’ambiguità delle persone che lo esercitavano. Chi vendeva al mercato nero poteva anche vendere esseri umani!
Lentamente, a fatica, ci si avviava verso l’età del benessere. Nonostante le difficoltà, noi bambini fummo molto protetti, e non avemmo mai la sensazione di essere poveri o di non poter fare cose che altri facevano. Forse perché tutti vivevano nella stessa situazione. Il consumismo era ancora lontano, anche se poi il benessere cambiò il mondo con rapidità. Cominciammo a Roma le scuole elementari. Era una scuola all’aperto all’Aventino, la Gian Giacomo Badini: tante casette verdi in mezzo a un grande giardino. Era una scuola per bambini predisposti alla tubercolosi. Mangiavamo in gavette di alluminio che puzzavano in modo strano, e ci davano delle cotiche di maiale che io nascondevo nel grembiulino o, se mangiavamo all’aperto, sotto la ghiaia. Eppure, potevamo dirci fortunati. Di quella scuola rammento molte cose, tutte connesse con la guerra e la Resistenza.
Frequentavo forse la seconda elementare quando feci un sogno che ricordo ancora vividamente. Eravamo a scuola, tutti noi bambini con le maestre, e i nazisti l’avevano circondata per portarci via. Tutti intorno alla scuola, i genitori dei bambini, accalcati, rumorosi, per sapere cosa succedeva, per salvarci. E poi c’era un pappagallo dai colori smaglianti, giallo, verde e rosso che parlava gracidando. Avevo forse sette anni ed ero evidentemente già molto influenzata da quanto si raccontava in famiglia sulla guerra e sulla lotta partigiana. E in quegli anni ebbi anch’io la sensazione della differenza tra Torino e Roma. Torino era per me la città della Resistenza, Roma, così mi sembrava, ignorava quella Resistenza e nemmeno voleva saperne niente. Mi sentivo sola a portare sulle mie spalle il peso di quelle memorie, di cui, appena capace di leggere da sola, avevo cominciato a divorare i libri che trovavo negli scaffali di casa. Di questo ho un ricordo molto chiaro. Anche se in senso stretto non lo ero, mi dicevo ebrea. Venivo continuamente smentita da una mia compagna di scuola ebrea (di cui ricordo solo il cognome, Dell’Ariccia) che mi interrogava sul perché non andavo mai al Tempio e non portavo al collo la medaglietta con la stella di David. A sei anni, il mio ebraismo si identificava con l’Olocausto e non mi veniva neppure in mente che ci fosse un altro modo per essere ebrei, fatto di medagliette e di sinagoghe.
In quegli anni lessi tutto quello che mi capitava sotto gli occhi sui campi e sulla Resistenza. E quella sensazione di possedere un sapere nascosto e non condiviso mi accompagnò a lungo. Eppure, ero nel luogo che era stato il cuore di una persecuzione feroce, quella degli ebrei di Roma, che sessant’anni dopo avrei studiato nei dettagli. Mi sembrava che nessuno ne parlasse. Forse mi sbagliavo, forse gli ebrei ne parlavano fra loro, senza partecipare la loro memoria ai non ebrei. Ma me ne derivava un’estraneità, la percezione di essere diversa, che continuai a sentire negli anni, e che allora assumeva l’aspetto dei campi di sterminio e della Resistenza. Ho ritrovato per caso, molti anni dopo, per poi purtroppo perdere subito il suo numero di telefono, la figlia di quella mia maestra delle elementari, che mi ha parlato dell’affetto che sua madre aveva per me. Ero molto amata, evidentemente, ma per non sentirmi sola avrei avuto bisogno di una cultura condivisa e questa a Roma non riuscivo a trovarla.
Diventavamo piano piano, comunque, sempre più romani. Renzo cominciava a mescolare al vecchio accento torinese il nuovo accento romano, io avevo invece perso ogni accento. Fino ad oggi, però, non mi sento romana e mantengo l’enfasi sul mio essere torinese. Ma a Torino non mi sento del tutto a posto in questa identità torinese mantenuta artificialmente nel tempo e che lì non mi viene troppo riconosciuta.
Mi sono domandata in anni recenti quanto abbiano influito sulla vita successiva di mio padre gli oltre otto anni passati in una cella. Non mi riferisco solo alla sua vita pubblica, alla politica, ma anche alla sua vita personale, alla sua dimensione privata, famigliare. Dico in anni recenti perché per molto tempo la sua scelta antifascista mi è sembrata talmente normale da non lasciar spazio a domande del genere. E soprattutto, l’idea dell’«università del carcere» mi impediva di concepire quegli anni come perduti: il carcere come luogo di crescita, di maturazione, di apprendimento. Era un’idea che Vittorio condivideva con tutti gli antifascisti confinati o incarcerati come motivo di orgoglio identitario. Non li considerava certo anni perduti, e avevano uno spazio immenso nella memoria di mio padre, eppure non potevano non esserlo, per la giovinezza mai vissuta, gli amori, le esperienze proprie dei giovani, la spensieratezza delle passeggiate fra i viali, con gli amici. L’ho percepito con chiarezza quando anche lui, già molto vecchio, ripubblicando in edizione ridotta le sue Lettere della giovinezza, e rileggendole insieme a Federica Montevecchi, che le curava con lui, era sommerso dal rimpianto e si commuoveva ad ogni passo piangendo calde lacrime: «Le avevo scritte con allegria – mi disse –. Ora mi destano un’angoscia profonda. Mi ricordano la dispersione della famiglia, lo sfascio dell’Europa, il rischio d’un futuro vissuto come schiavi. Mi fanno piangere».
Mi sembra, ripensandoci ora, che i primissimi tempi dopo il carcere, durante la Resistenza, ne siano stati quasi un ovvio e spontaneo proseguimento: l’idea che bisognasse continuare a comportarsi come quando si era detenuti, a lottare. E non credo sia stato un caso che mio padre si sia innamorato proprio della figlia del suo compagno nella condanna al tribunale speciale, la sorella di quel Renzo di cui, forse, aveva un po’ invidiato se non la morte in combattimento almeno l’aver partecipato alla guerra di Spagna. Poi, nel dopoguerra, dopo la dissoluzione del Partito d’Azione, sentì, così mi sembra, di poter essere risarcito di quegli anni attraverso la riconquistata libertà di decidere di sé, di fare politica, di guardare il mondo, le donne, la montagna. In famiglia, tutto questo era trasmesso ma non esplicitamente. Il suo carcere, a differenza della morte di Renzo, non è mai diventato un mito famigliare; semmai uno stimolo, un esempio da seguire, proposto senza enfasi. Me lo conferma per contrasto la lettura dell’autobiografia di mia zia Anna, in cui l’arresto e la condanna del fratello assumono invece dimensioni mitiche. Poi, nella vecchiaia, con la saggezza, in Vittorio c’è stato il rimescolamento di tutte queste fasi della vita e, forse, uno spazio diverso dato al carcere. Più normale, chissà? E Vittorio si interrogava su che effetto avesse avuto sulla vita politica del dopoguerra essere il risultato dell’attività di persone a cui, nella maggior parte, erano state tolte con la forza parti importanti della giovinezza: il riso dei bambini, il sapore della primavera, l’amore. Un’altra domanda che mi sono posta è quanto tutto questo abbia influito su noi piccoli. Forse questo libro è anche un tentativo di rispondere a questa domanda.
Mio padre lavorava adesso con Di Vittorio alla CGIL. Si era sempre occupato di questioni del lavoro, ma questo era per lui un cambiamento radicale: il passaggio dalla politica al sindacato. Si era ricordato del rogo della Camera del lavoro che tanto lo aveva colpito agli albori del fascismo, per scegliere il sindacato e non la politica come sua sfera d’azione? O era un modo, essendo in contatto costante con i lavoratori, con la gente comune, per sfuggire al professionismo della politica e viverla ancora come passione e calore nell’azione? Quando si racconta, decenni dopo, il nesso tra il lievito azionista e il suo impegno nel mondo del lavoro gli è chiaro: «Mi sono ritrovato a rivendicare l’azionismo, cultura tipica di ceto medio, come una componente importante del mio lavoro di organizzatore operaio». Sul momento, rimuovendo la memoria dolorosa della fine del PdA, sembrò sostituire al lavoro politico quello sindacale. È anche vero che allora i sindacati e la politica si intrecciavano molto da vicino.
Per anni Vittorio fu, al tempo stesso, sindacalista e politico, come tutti. Il sindacato faceva politica, non si limitava a proteggere i diritti acquisiti, ma contribuiva ad immaginare una società migliore. Per Di Vittorio, egli aveva una grandissima ammirazione: «Credo di dover riconoscere in quell’uomo il mio solo maestro di politica», scrive. Il ritratto che ne traccia in Il Cavallo e la Torre è in questo senso molto rivelatore. Lo considera un politico finissimo, capace di sfuggire alle limitazioni del presente per avere uno sguardo sui tempi lunghi. Di uscire dallo scontro muro contro muro per cercare la mossa del cavallo, quella metafora dell’azione libera – da lui amata in modo particolare – che non è determinata dalla mera logica dello scontro e che consente di uscire dalle situazioni di impasse e di andare oltre. L’aveva imparata appunto da Di Vittorio, sostiene, rievocandone l’umanità, lo straordinario carisma, il coraggio dimostrato nel 1956 quando lui, comunista convinto, solidarizzò con gli insorti di Budapest, che il partito definiva fascisti.
Nei primissimi anni Cinquanta mio padre collaborò con Di Vittorio al Piano del Lavoro. Si buttò nel rapporto con i lavoratori con lo stesso entusiasmo con cui, arrivato a Roma nel 1945, si era buttato nella politica. Mia madre ormai lavorava all’Associazione Italia-URSS, era diventata Lisa, solo i torinesi la chiamavano ancora Lisetta. Aveva preso il cognome di suo marito, e da allora fu sempre Lisa Foa. Sosteneva di averlo fatto perché il suo, Giua, veniva sempre storpiato in Gina, e poi perché a quei tempi era normale prendere il cognome del marito. Fin dal dopoguerra era iscritta al Partito comunista, e già prima di venire a Roma aveva cominciato a studiare il russo. Pur non essendo cattolica, si era legata al gruppo dei cattolici comunisti che gravitava intorno a Felice Balbo, molti dei cui membri si ispiravano al pensiero di Dossetti. La convivenza tra una comunista e un socialista di derivazione azionista non era certo priva di difficoltà. In Lessico famigliare Natalia Ginzburg ricorda Lisetta che parla con disprezzo dei «piddia», e Vittorio che la guarda come si guarda un gattino che gioca col gomitolo. È un’immagine che risale ancora agli anni torinesi, prima di Roma e dello scioglimento del PdA. Diversamente da quanto questa immagine ci suggerisce, Vittorio, da vecchio, mi raccontava di avere avuto la sensazione che Lisa fosse o si sentisse superiore, e di essersi sempre sentito, come un non comunista, un «diverso». Ma questo si riferiva, credo, ad un periodo più tardo.
A Roma, Lisa portava noi bambini a passeggiare all’Aventino, e ci leggeva qualche novella di Boccaccio, in particolare Chichibio e la gru. Poi nacque Bettina, nel 1951. Avevamo ormai una domestica a tempo pieno e più tardi sarebbe arrivata anche una baby-sitter per Bettina. Gli anni romani, dopo il ’50, non li ricordo nei particolari, ma ne ricordo benissimo il clima: vi si respirava un’aria più rigida di quei primi anni del dopoguerra. Sono gli anni della Guerra Fredda che identifico con «quelli del tailleur», perché mia madre portava allora dei seri tailleur grigi. C’è una foto di lei con Bettina all’Aventino, al Giardino degli Aranci, subito davanti alla scuola elementare mia e di Renzo, con Bettina in passeggino che sorride e lei seria e severa stretta appunto in un bellissimo e sobrio tailleur. Sono anche gli anni in cui mia madre lavorava nell’Associazione Italia-URSS, un organo, sia pur culturale, di propaganda dell’URSS di Stalin.
Nelle sue memorie lo ricorda con leggerezza: la sua amicizia con Pietro Zveteremich, il traduttore di Il dottor Zivago, con Irina, allora moglie di Lucio Colletti, i viaggi in URSS, sempre rigidamente ufficiali e controllati. L’URSS che vedeva era molto diversa dalla Russia che aveva imparato ad amare nella letteratura. Più tardi avrebbe sentito il rimorso per non aver capito: «Attraversare in una macchina ufficiale le strade di una Praga notturna semideserta mentre si allestiva il processo contro Rudolf Slanskij [...] visitare i magnifici campi petroliferi di Taching senza accorgermi che la gente che lavorava lì era stata deportata», avrebbe scritto. Alla fine degli anni Cinquanta, il suo gruppo di «non ortodossi» che dopo il XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica aveva pubblicato sulla rivista «Rassegna sovietica» molto materiale sul cosiddetto disgelo, fu estromesso dall’Associazione Italia-URSS su pressione dei sovietici. Di queste pressioni si fece portavoce Mario Alicata, che dirigeva la Commissione culturale ed era appiattito sulle posizioni sovietiche. L’unico che li difese fu Umberto Terracini.
Ma nel frattempo era morto Stalin, nel 1953. Ricordo di aver pianto, insieme a mio fratello Renzo, quando sentimmo la notizia alla radio. Io e Renzo, in effetti, eravamo stati arruolati nella campagna di propaganda comunista, eravamo iscritti ai pionieri alla sezione del PCI La Villetta alla Garbatella e andavamo la domenica a raccogliere, porta a porta, le firme per la pace. Ricordo ancora il simbolo della pace, la colomba disegnata da Picasso. Erano, credo, gli ultimi fuochi della campagna per la pace, in realtà campagna propagandistica per l’URSS, che fu particolarmente importante fra il 1949 e il 1952. Da noi fu tra il 1953 e il 1954, perché erano gli anni in cui abitavamo alla Garbatella.
Mi domando come mai, in una famiglia come la nostra, con un padre che non è mai stato comunista e una madre sì comunista, ma con vene precoci di dissidenza, io e mio fratello fossimo stati educati come dei perfetti piccoli comunisti. Questo clima in famiglia durò fino alla fine degli anni Cinquanta. Anche nel 1956, né Vittorio né Lisa ci spiegarono quello che stava succedendo: il XX Congresso, il disgelo. Il mio ricordo della rivolta ungherese del 1956 non porta tracce di critiche all’URSS, e Renzo ascoltava alla radio le cronache dei carri armati che entravano in Budapest commentando: «I soliti esagerati! Dicono quattrocento carri armati, ma saranno al massimo trecentocinquanta!». Eppure né Lisa né Vittorio all’epoca si bevevano la versione sovietica. E mia madre non condivise mai la scomunica che era stata emessa contro chi lasciava il partito. In questo, Lisa non transigeva. Fu molto solidale anche lei, insieme a Vittorio, con Antonio Giolitti, che lasciò il PCI dopo i fatti d’Ungheria.
All’epoca abitavamo nello stesso palazzo, in via Cristoforo Colombo 179, dove ci eravamo trasferiti nel 1954, e frequentavamo molto i Giolitti. Eppure Lisa pensava allora (e lo scrive anni dopo nelle sue memorie) che nella spaccatura della Guerra Fredda fosse giusto schierarsi, e che fatti come quelli dell’Ungheria andassero messi nel conto. Certamente né lei né Vittorio si facevano illusioni sull’Est Europa. Ma poco o nulla di tutto questo traspariva nei rapporti in famiglia. Ricordo che cercavo, soprattutto dopo il 1956, di capire cosa pensassero. Del XX Congresso si parlava ovunque; la mia migliore amica in prima media, Flaminia, era anche lei di famiglia comunista, e poi anche noi bambini leggevamo i giornali. Solo una volta il muro di silenzio si ruppe, quando Lisa pronunciò una frase molto rivelatrice, in un contesto leggero, non di discussione politica, credo a pranzo. Disse: «Meno male che non stiamo dall’altra parte della cortina di ferro, se no ci avrebbero già messo al muro». Usò proprio questo termine, cortina di ferro, un termine che a casa nostra non aveva corso. Non osai chiederle spiegazioni, ma capii che stava parlando sul serio, che non scherzava affatto. Capii che era tutto vero e che questo non ci impediva di continuare a essere comunisti. Penso ora che, se non mi stupii di quell’affermazione, già da molto tempo un qualche messaggio, sia pur vago ed implicito, doveva essere stato trasmesso a noi in famiglia che le cose erano più complesse di quanto non apparissero.
Quando sento usare il termine «doppia verità» penso subito a quella frase di mia madre.
Eppure, in qualche modo, non ricordo come, transitai anch’io dalla parte di Chruščëv. Ricordo, nel 1958, di aver visto il film Quando volano le cicogne, insieme a Carla Gobetti, la nuora di Ada, a Goffredo Fofi e ad altri amici dei miei. Era un film del 1957 e aveva appena vinto il festival di Cannes. La scena finale è quella del ghiaccio che si scioglie, dell’acqua che scorre impetuosa. La ricordo distintamente e ricordo anche che ormai, a tredici anni, capivo benissimo che cosa volesse dire quell’immagine del disgelo. Mi sono spesso domandata perché a casa non si discutesse di questo, perché non ci spiegassero il XX Congresso e i fatti d’Ungheria. Eppure, si parlava di tante cose. Ma il tono dominante, in famiglia, era quello comunista di Lisa. Forse per mia madre, già occupata a far chiarezza nella sua testa, era difficile spiegare a noi bambini, o forse non pensava che ce ne fosse bisogno.
Quanto a Vittorio, il partito in cui era entrato dopo lo scioglimento del PdA, quello socialista, sotto la direzione di Nenni si era schierato per l’alleanza con il PCI e a fianco dell’Unione Sovietica fin dal 1949. Nel 1956, dopo il XX Congresso, Nenni ruppe con il PCI. Quando, in pieno Comitato centrale, sostenne di essere stato ingannato e di non aver mai saputo niente di quel che succedeva in Unione Sovietica, Vittorio chiese la parola e disse: «In questa sala siamo in cinque a non poter dire di essere stati ingannati: Nenni, Pertini, Lussu, Lombardi ed io». Quando, molti anni dopo, gli chiesi perché lui e gli altri socialisti all’epoca non avessero denunciato il comunismo dell’Est, mi rispose che era a causa dell’antifascismo. Un antifascismo sopravvissuto alla sconfitta del fascismo, che lui vedeva come difensivo, un modo per proteggere le conquiste democratiche da qualsiasi possibilità di ritorno alla dittatura o ad altre forme autoritarie di governo. E l’URSS era il simbolo stesso di quell’antifascismo.
In un viaggio fatto per il sindacato in Russia nel 1950, era stato colpito – racconta in un suo libro – dalla «dimensione tragica della guerra combattuta e vinta», dalle «immani sofferenze, i venti milioni di morti, quel senso di straordinaria severità e austerità che c’era nell’aria». In sostanza, l’antifascismo dell’URSS impediva anche a coloro che non erano comunisti di riconoscere apertamente la natura totalitaria del regime comunista e di battersi contro di essa. Da lì, le storie di eretici come Silone o Koestler, denigrati come traditori dai comunisti e troppo poco difesi da chi comunista invece non era. Eretici su molti dei quali mio fratello, pochi anni prima di morire, ha scritto in un bellissimo libro, In cattiva compagnia, che dedicò al nonno Giua. Mano a mano, gli stessi che non se la sentivano di schierarsi apertamente contro il comunismo sarebbero a loro volta diventati eretici. Giolitti nel 1956, mia madre nel 1968, vedendo i carri armati sovietici invadere Praga, Renzo negli anni Ottanta.
A sottrarre mio padre al rifiuto verso il comunismo, che caratterizzava allora tanti che dal Partito comunista erano usciti e si trovavano collocati fra i reprobi, fu forse proprio il suo non essere mai stato comunista. Serbò sempre infatti una sorta di ammirazione per i comunisti, non per l’apparato o per l’URSS, ma per quei militanti di base che aveva conosciuto in prigione, operai e braccianti. Quelli che ritrovava nelle lotte sindacali. I poveri, gli umili, quelli a cui riconosceva sincerità d’intenti, la volontà di lottare per un mondo migliore. E poi, forse, molto influiva anche il suo rapporto con Lisa, che comunista restò, sia pur a modo suo, fino al 1969.
Ambedue i miei genitori, ciascuno in modo diverso, rimasero estranei alla politica dei piani alti, quella di governo. Lisa era una strana comunista anarchica, assai distante da qualsiasi coinvolgimento nelle istituzioni, sia che si trattasse di partiti sia che si trattasse di impieghi istituzionali. Negli anni Settanta le fu offerto un incarico universitario, ma lo rifiutò con un certo disdegno. Vittorio avrebbe forse potuto avere cariche istituzionali. E lo avrebbe perfino voluto, ma se ne tenne lontano anche nel timore di reazioni negative da parte di Lisa. Quando me ne parlò, molti anni dopo, ne fui stupita perché non avevo mai pensato a lui come disposto a fare «carriera» come ministro o segretario di partito. Fu davvero per questo, per rispetto di Lisa e del suo rifiuto delle istituzioni, o c’era qualcosa anche in lui che lo spingeva a tenere il piede contemporaneamente dentro e fuori dai palazzi del potere? Le sue considerazioni sulla politica come tecnica contrapposta alla politica come etica (e, aggiungo, come passione) mi fanno pensare piuttosto a questo, come anche il fatto che, dopo l’esperienza totalizzante del PdA, il suo rapporto con i partiti fu sempre un po’ marginale: né nel PSI né nei partitini di sinistra che contribuì poi a creare, il PSIUP (fondato nel 1964 e che riprendeva il vecchio nome del Partito socialista) e il PdUP (Partito di unità proletaria), ho la sensazione che si sia impegnato davvero con tutta l’anima. Ma queste sue esperienze nei partitini di ultrasinistra sono, di tutta la sua vita, quelle di cui so meno e di cui lui non aveva proprio voglia di parlare.
La casa di via Cristoforo Colombo l’aveva comprata il nonno Michele con i proventi del suo Dizionario di Chimica. Era un appartamento abbastanza grande, al primo piano di un enorme palazzo ricoperto di un mosaico verdolino, costruito da una Cooperativa della Camera dei deputati, che venne subito chiamato nel quartiere il «palazzo dei deputati». Esiste ancora, ma è ridimensionato dalle costruzioni intorno. La casa era isolata nella campagna, dietro c’erano gli orti. Ricordo che la domestica, Natalina, si affacciava alla finestra e ordinava la verdura al contadino dietro casa. Erano case modeste, senza lusso. Allora non c’era la «casta». Ricordo che in casa nostra era visto con qualche disapprovazione il fatto che Pertini, che abitava due piani sopra di noi, avesse fatto mettere le porte di mogano, sostituendo le semplici porte verniciate di bianco in dotazione. Nella nostra scala c’erano, appunto, Pertini e Leone, e poi La Malfa, Nenni, Walter Audisio e Concetto Marchesi, il grande latinista, da cui con Renzo, ignari allora della sua importanza, non ci vergognavamo di farci aiutare nelle prime versioni di latino. In un’altra scala abitavano i Giolitti, di cui eravamo amici. Con Nenni invece non ricordo che ci frequentassimo. Per Vittorio era il segretario del suo partito, non un amico, al contrario di tanti altri compagni di partito. Parlando di Nenni e Togliatti diceva che di solito, nella percezione comune, Nenni era considerato un passionale e Togliatti un uomo molto freddo. In realtà era il contrario: Nenni era freddissimo e Togliatti era un passionale. Conosceva invece poco Berlinguer, che del resto era molto più giovane, ma che stimava. Ricordo che nel 1984 parlò ai suoi funerali e disse che «era capace di cambiare idea». Per Vittorio, era un grande elogio.
Sì, via Cristoforo Colombo non era certo una casa da «casta». Renzo ricordava come le macchine dei politici parcheggiate sulla strada sotto casa fossero modeste, e loro le guidassero personalmente, senza autisti. Solo Leone, che mentre viveva là fu prima presidente della Camera e poi presidente del Consiglio, aveva una macchina con l’autista. Anche Vittorio, che non aveva allora la patente, disponeva di una macchina della CGIL che lo accompagnava in ufficio e lo riportava a casa. L’autista si chiamava Natale e veniva da Cerignola come Di Vittorio, di cui era un lontano cugino. L’autista della famiglia invece era nostra madre, che aveva un maggiolino giallo di cui andava molto fiera. Nelle domeniche di sole andavamo a fare un picnic all’EUR, allora non ancora costruito, gusci di edifici vuoti nel silenzio, oppure al Lido dei Pini, dove avevano una casetta sul mare Sergio e Daria Steve con i loro figli più o meno della nostra età.