Capitolo quarantaquattresimo
Dove leggeremo della straordinaria passeggiata sotto il lago: la meravigliosa avventura con liguarro, tritoni, sardine, serpentelli e lenticchie d’acqua. Di Paesangà, del ponderoso manoscritto, di Giotto, do’ Vizèz e Stortignaccolo.
Cammina sul fondo, in lieve pendenza. Incontra e attraversa piccole correnti d’acqua che le danno una piacevole sensazione di vento fresco, ma soprattutto incrocia animaletti e piante che di lì sotto sono i legittimi abitanti. Una rana verde nuota a pelo d’acqua mostrando ad Aladina il molle ventre bianco. Un tritone, immobile nella melma, gira la testa per osservarla (le ricorda il liguarro). Grossi pesci argentati la sfiorano con movimenti eleganti, banchi di pesciolini si muovono compatti e hanno l’aspetto di sardine.
Erbe piantate nel fondo del lago e tra le rocce, con le foglie alcune lunghe come ciuffi d’erba, altre bitorzolute, altre ancora simili a bottoncini. Un serpentello grigio-verde le scivola accanto diretto verso la superficie. Aladina non si spaventa, ha già visto quel tipo di biscia quando era con Gufo. Lui le ha insegnato ad accarezzarla piano sulla testa e si è raccomandato di non spaventarla se no (ha aggiunto ridendo) “fa delle scorregge puzzolenti che ti fanno scappare”.
Si guarda attorno con gli occhi spalancati per la sorpresa e la gioia, come se attraversasse lo spazio di una grande fiera che si perde all’infinito sott’acqua.
Scende sempre di più. Ormai sopra la sua testa vede solo l’acqua come una nube di luce piena di pulviscolo. Davanti a lei il liguarro procede a lenti passi sulle sue zampe palmate, è buffo come si muove, spazzolando il fondo a destra e a sinistra con la lunga coda, e la bambina si chiede se anche lei senza accorgersene stia camminando allo stesso modo. Si guarda i piedi e le mani ed esagera il movimento. Gioca a remare. O finge di aprirsi un varco nella inesistente vegetazione. Ogni tanto la bestiola si gira e controlla che Aladina sia sempre lì.
In lontananza l’acqua inizia a spumeggiare come dentro un’enorme pentola in ebollizione. La bambina riconosce (perché, come abbiamo già capito, è una ragazzina sveglia) il punto in cui il Cigolo si butta nel lago. Anche Gufo l’aveva portata là a nuoto ed è lì che il suo nuovo amico è diretto.
Man mano che si avvicinano la corrente si fa sempre più forte finché diventa impossibile resisterle. Aladina viene trascinata, ma è una bella sensazione, calda e avvolgente, come quando da piccola suo padre la cullava nell’acqua tenendola fra le braccia per insegnarle a nuotare.
Il liguarro fluttua accanto a lei, pancia all’aria. Sembra divertirsi. Allora anche Aladina si lascia andare a giravolte e capriole, in un mulinello delicato che la spinge verso il centro del lago. Finché l’acqua si calma e il culo della bimba viene depositato dolcemente sul fondo sabbioso.
Di fronte a lei, un edificio molto simile a quello di Paese Nuovo, con le scale, il porticato e gli stemmi sulla facciata. Riconosce subito dove si trova: la piazza del municipio di Paesangà. Da un vicolo a lato del palazzo vede un uomo venirle incontro spedito come se avesse fretta. È grande e grosso e indossa una gabbana nera lunga fino ai piedi.
Giunto davanti ad Aladina si ferma e ansimando dice: «Finalmente sei arrivata. Ti aspettavo da un pezzo».
Ha il viso tondo e rubizzo, simpatico. Si asciuga la fronte con un enorme fazzoletto bianco che poi ripone in una tasca dell’abito. Aladina sorride chiedendosi com’è possibile sudare dentro l’acqua e, soprattutto, come si fa ad asciugarsi.
«A son do’ Vizèz» e di fronte allo sguardo incredulo della bambina ripete: «Non ti ricordi di me, Gialdiffa? Don Vincenzo, il parroco di Culdivalle. Adesso di Paesangà».
«Sono Aladina, la figlia di Gialdiffa.»
«Ah, cara la mia Gialdiffa, quanti anni sono passati dall’ultima visita che mi hai fatto?» e conta con le dita sulle labbra. «Con oggi trent’anni precisi precisi. Sono contento di rivederti. Sei una brava figliola con tante doti e anche dei poteri particolari. Forse non dovrei dirlo io, visto che sono un prete. Ma… sei stata l’unica che mi sia mai venuta a trovare sotto il lago.»
Al pensiero di Gialdiffa Aladina si sente rincuorata. Vorrebbe ripetergli che lei è la figlia, ma sa che non servirebbe.
«Voi… abitate qui?»
«Certo, te l’ho detto l’altra volta. Da quando Culdivalle è stato annegato e io son tornato per prendere… Niente, ora vieni con me che ti faccio vedere com’è rimasto bello questo paese» conclude tornando ad asciugarsi la fronte col fazzoletto.
Mentre passeggiano Aladina riconosce i luoghi: la chiesa di fianco al Comune col suo tozzo campanile e le tre campane, la scuola come quella dove lei dovrà andare in ottobre, la bottega dei Goldonci e la Casona poco lontano. È tutto uguale. Mancano solo le persone.
«Non c’è nessuno qui, signor do’ Vizèz?»
Don Vincenzo si ferma per prendere fiato e sospira. «Solo io. E Stortignaccolo» e così dicendo indica con la mano l’osteria. «Ma non ti ci porto. È sempre attaccato alla sua botte di Montuni, non è uno spettacolo per una bambina.»
Aladina si sente a casa, se non fosse che ogni tanto vede passarle accanto un pesciolino, o un animaletto a quattro zampe che nuota verso la superficie. Manca anche il liguarro, ma per il momento se n’è dimenticata.
«Stortignaccolo» ripete la bambina pensierosa. «Allora siete voi due che camminate sul lago di notte.»
«Eh, cosa vuoi, qui c’è poco da fare, sgranchirsi le gambe ogni tanto fa bene. Vedi mai che incontrassimo qualche anima con cui scambiare due parole. Adesso però ci sei tu.» Le prende la mano e la tira con vigore verso la chiesa. «Vieni con me, bambina, ci sono delle cose che voglio che tu sappia.»
La chiesa di Paese Vecchio è in tutto e per tutto uguale a quella di Paese Nuovo, tranne che è sott’acqua. C’è anche la stessa porticina di fianco all’altare. Aladina non sa dove conduca, o meglio, non sapeva, perché ora seguendo il suo corpulento compagno la attraversa e scopre dove sparisce don Gaudenzio alla fine di ogni messa.
In fondo alla stanza do’ Vizèz si ferma e la sospinge davanti a una nicchia nella parete in cui è sistemato un bauletto di legno massiccio con un coperchio di metallo chiodato e cerniere e serratura dorate. Ha l’aria di essere pesantissimo.
«Sì, nessuno è mai riuscito a muoverlo da lì quando ancora Culdivalle esisteva. E anche questa» e indica una grande chiave appoggiata sul coperchio, «anche questa era impossibile sollevarla, pesa quanto una statua di piombo. Ma ora…»
Fa segno ad Aladina di prenderla: «… ora nell’acqua è così leggera che potrebbe tirarla su anche un bambino».
Aladina esita, timorosa. Poi allunga la mano, afferra la chiave e senza alcuno sforzo la solleva. Nel punto dov’era appoggiata rimane una profonda impronta, come se qualcuno avesse preso a martellate il metallo.
«Ricordi il ponderoso manoscritto, vero Gialdiffa? È ancora qui e scommetto che vorresti leggere qualche altra antica storia di Culdivalle.» La bimba fa sì con la testa. «Bene, ora puoi farlo» e con il capo le fa cenno di procedere.
La bambina infila la chiave nella toppa del bauletto. Le ci vogliono entrambe le mani e un bel po’ di forza delle sue piccole braccia per girarla nella serratura, che scricchiola, cigola, stride e finalmente clac!, scatta con un gemito metallico.
E ora?
Aladina si volta per domandare aiuto al parroco ma lì accanto dove prima era non lo trova. Guarda in giro: niente. Guarda verso la porta: nessuno. Per un attimo pensa di andarsene, non le piace stare sola in quel posto. Poi pensa al ponderoso manoscritto, a quello che le hanno raccontato Cleo e il Professore, e ai tanti misteri di Paese Nuovo. Pensa anche che forse Gialdiffa sapeva cosa conteneva il volume.
Raduna tutte le sue forze per tirar su un coperchio che immagina pesantissimo. Invece quello, docile docile, si solleva al primo tocco come se fosse di cartapesta. Dentro, uno spesso libro di pelle con borchie istoriate. Le ricorda i volumi incatenati della biblioteca del Professore.
Lo prende con entrambe le mani e lo deposita sul tavolo al centro della sacrestia. Lo apre e inizia a sfogliarlo. Una dopo l’altra le scorrono sotto gli occhi pagine e pagine e pagine completamente bianche. Lo ripercorre all’indietro e di nuovo i fogli bianchi si susseguono sotto le sue dita.
Si ferma delusa. Sente le lacrime agli occhi. Rimane imbambolata a fissare quel vuoto.
D’improvviso riecheggia da qualche parte dietro di lei: «Sei una persona dal puro cuore?».
Le sembra la voce del Professore, solo molto lontana e lieve.
Si guarda intorno e di nuovo non vede nessuno.
«Lo sei, Aladina?» ripete la voce rimbalzando da un angolo all’altro del soffitto.
La bimba torna al volume davanti a lei. Asciuga le lacrime col dorso della mano.
«Sì» mormora.
«Come?» riecheggia la voce.
«Sì» ripete Aladina con sicurezza.
Le risponde questa volta una voce di donna: «Lo sapevo, bimba mia. Ne sono felice» e svanisce presto nell’aria. Anzi, nell’acqua. Svanisce lasciando ad Aladina appena il tempo di un vago ricordo.
Allunga la mano per toccare quei fogli bianchi che ora le sembrano delicati e lievi come un velo. Si accorge che le sue dita non incontrano la resistenza di un corpo solido ma sprofondano lentamente dentro una nuvola morbida e luminosa. È una bellissima sensazione, calda e avvolgente. Mentre immerge entrambe le mani in quella strana sostanza non sostanza sente formarsi delle parole nella sua mente e queste parole si concatenano in frasi e le frasi formano discorsi che, uno dopo l’altro, raccontano delle storie. Come questa:
Trascriviamo qui un brano di storia locale rintracciato dai saggi nelle pieghe del tempo e dedicato a coloro che non sanno.
Nell’anno del Signore Mille trecento trenta, in viaggio da Napoli, dove aveva servito il re Roberto d’Angiò come celeberrimo e molto apprezzato pittore di corte, messer Giotto di Bondone, prima di raggiungere Firenze sua meta, stabilì di passare prima da Bologna, desiderando accertarsi della buona disposizione del polittico che aveva dipinto per la privata cappella papale, la Madonna con bambino in trono. Prima di raggiungere questa città, sostò per riposarsi in un piccolo borgo dell’Appennino chiamato Culdivalle, di poca notorietà. Ivi rimase due giorni ricevendo un’ospitalità calorosa la quale, comprese le abbondanti libagioni di un certo vino del benvenuto che ridava il buonumore anche al più melanconico degli esseri umani, lo spinse a desiderare di ricompensarla. Si pose dunque a dipingere una piccola icona assumendo per soggetto un santo assai rinomato in quei luoghi, anche se mai riconosciuto ufficialmente dalla Sacra Chiesa di Roma: un tale Cigolino da Monteguardone, che qualcuno annovera persino tra i protomartiri della fede cristiana. Comunque sia, messer Giotto completò il dipinto, un’opera di mirabile fattura recante sullo sfondo le colline e il borgo stesso di Culdivalle, e lo consegnò al parroco della locale chiesa col compito di custodirlo e venerarlo per sempre in saecula saeculorum amen. E nei secoli dei secoli è rimasta l’icona nella chiesa del borgo, edifizio miracolosamente scampato alle offese del tempo e alle guerre degli uomini, dicono in molti proprio grazie alla benedizione di Nostro Signore per il tramite del sacro dipinto.
Dopo un tempo lungo quanto Aladina non saprebbe dire, lentamente com’era arrivata la sensazione di morbidezza e calore svanisce. La bimba riemerge dalla lettura, o dal sogno, solleva le mani dal libro e se le porta davanti agli occhi: sono le sue solite mani rosee e paffute, con ancora le unghie un po’ sporche per i giochi con la terra e le piante.
«Proprio così, Gialdiffa.» La voce di do’ Vizèz risuona ancora una volta alle sue spalle. Il parroco si avvicina, chiude il volume e lo ripone delicatamente nel baule, che sigilla con due giri della chiave.
«Adesso anche tu sai la storia del prezioso dipinto» e il prete, come preso da un antico dolore che si è rinnovato al pensiero, tace e ingoia le lacrime. «Era l’oggetto più prezioso della chiesa. Che dico: dell’intera vallata, se non dell’intera regione. Se siamo stati risparmiati, noi come i nostri antenati, da guerre e carestie, lo dobbiamo al potere del dipinto. Quando ci sfollarono per far posto al lago nessuno aveva pensato a portarselo dietro. Per questo sono tornato quella mattina stessa. Purtroppo, nel suo luogo deputato, la nicchia di fianco all’altare, non c’era. L’ho cercato quanto ho potuto, con l’acqua alle caviglie, al petto, alla gola, persino sott’acqua quando il fiume ha invaso la navata. È stato tutto inutile.»
«Ma non siete affogato, signor prete?»
Il parroco sorride stancamente e si deterge la fronte col fazzoletto bianco. «Affogato, affogato… che significa “affogato”? Sono rimasto a cercare la tavoletta tutto questo tempo e ancora confido di poterla trovare.»
Don Vincenzo prende nuovamente per mano la sua giovane compagna, la riporta in chiesa e la fa sedere. Si inginocchia accanto a lei.
«E ora preghiamo, Gialdiffa cara.»
«Sono Aladina, sua figlia» insiste lei.
«Sì, ho capito, Gialdiffa. Ora preghiamo che il Signore lasci una lunga vita a questo povero vecchio affinché possa concludere la sua impresa. Padre Nostro misericordioso…»
«Io l’ho visto» lo interrompe la bambina.
Il parroco si scuote: «Come?».
«Ho visto la tavoletta con un signore sopra un asino e dietro il Paese Annegato. Mi ha portato Gufo. I colori sono bellissimi, e la faccia dell’asinello è proprio vera, sembra un disegno di un libro di…»
Questa volta è Don Vincenzo a interrompere: «Dove? Dove l’hai vista?».
«In quella chiesa che c’è sul Monte del Perdono.»
L’uomo si alza, paonazzo in volto, e si china verso Aladina afferrandole le braccia con le sue grandi mani.
«Oh, mia cara figliola! Che notizia mi dai! Ma sei sicura? Potresti giurarlo davanti a Gesù e tutti i santi?»
Aladina non capisce bene cosa voglia dire “giurarlo davanti a Gesù e tutti i santi” ma immagina sia una frase che si usa per le dichiarazioni molto importanti. E annuisce.
Il prete si gira verso l’altare e, tutto esagitato, gli occhi fuori dalla testa, alzando le braccia: «Sia lodato Iddio! È salvo! È salvo! Grazie nostro Signore!» grida. Poi si volta e biascica confusamente: «Devo… Devo… Sì, dirlo all’oste, all’oste… Perdonami Gialdiffa» e corre verso l’uscita ripetendo: «Stortignaccolo! Che notizia! Che notizia! Stortignaccolo!».
Aladina lo vede svanire nelle strade del paese.
Aspetta qualche minuto. Dovrà pure tornare, magari assieme all’oste, così finalmente lo conoscerà. Le dovranno domandare dei dettagli, sembra che questa scoperta sia molto importante.
Aspetta e aspetta.
Nessuno.
Non sa quanto tempo rimane in chiesa. A un certo punto si assopisce.
Sente i soliti colpetti sul fianco. Il suo amico verde, arrampicato con le zampette anteriori sulla panca, la sta di nuovo risvegliando.
«Liguarro! Ma dov’eri andato? Sapessi che cosa meravigliosa mi è capitata.»
La bestiola si avvia verso l’uscita. Aladina lo segue e intanto gli racconta la vicenda straordinaria. Chissà cosa ne pensa il liguarro.
Ripercorrono le viuzze del borgo, escono da Paesangà e fanno a ritroso la strada sul fondo del lago. Il liguarro procede spedito. Fa solo una fermata accanto a un grosso sasso, sotto cui Aladina vede un involto colorato.
«I miei vestiti!» dice. Li sfila. «E quelli di Gufo!»
Ne fa un fagotto, se lo mette sotto il braccio e riprende a seguire il liguarro.
Ben presto il fondo del lago comincia a salire e i due escono gradualmente dall’acqua. La luce brillante del giorno la colpisce negli occhi e Aladina li stringe facendosi ombra con la mano. Si guarda intorno. Sono nella sua radura preferita, quella dell’albero del fuso. Appende gli abiti sui cespugli e i rami bassi lì intorno e finalmente si sdraia al sole. Il caldo le asciuga la pelle e le rinfranca lo spirito affaticato dall’avventura. Appoggia la mano sul dorso del liguarro e si addormenta.
Non si accorge neanche quando l’animaletto lentamente si sfila, attraversa la radura e si arrampica sul sasso sul quale solitamente siede Astorre. Dispiegate due ali leggere e trasparenti come quelle delle libellule, prende il volo, un volo elegante e morbido, e scompare dietro il profilo di monte Guardone.