Capitolo quarantaduesimo

Con storie di delitti e mistero: la strana morte di Clara. In osteria incontriamo il nuovo capo nucleo di Culdivalle, tale Zagolin Corrado, che ha sostituito il Panzagrassa Florindo, promosso ad altro incarico. O trasferito per inadeguatezza?

Astorre non ama passare le sue serate in osteria. Di solito finisce tardi le visite, il tempo di chiudere lo studio e di cenare ed è già ora di andare a dormire. Magari dopo aver letto qualche riga di un buon libro che lo aiuti a dimenticare le fatiche quotidiane. A lui così intriso di spirito positivista e di fede nella scienza piacciono, forse per compensare l’eccesso di razionalismo, le storie di delitti e mistero. Ha scoperto una nuova collana dalla modernissima copertina gialla il cui strillo dice: “Ogni pagina un’emozione”. E in effetti il volume che ha tra le mani in questi giorni metterebbe a dura prova i nervi più saldi: i racconti del signor R.L. Stevenson, un autore della lontana Scozia, dal titolo Il club dei suicidi. L’interesse del dottore sarebbe potuto diventare una vera passione se avesse avuto più tempo libero e se, un decennio dopo questi avvenimenti, il Minculpop (che non è una parolaccia, vuol dire Ministero della Cultura Popolare), preposto al controllo della stampa e dell’editoria, non avesse vietato la pubblicazione di storie poliziesche perché “corruttrici della moralità pubblica”.

Astorre non va spesso in osteria ma stasera è molto teso, gli esperimenti sul lago e la malattia della figlia lo hanno messo a dura prova. Un bicchiere del rosso della Tina ci vuole proprio. Per aiutarlo a chiarirsi le idee.

Entra nel locale fumoso e ci trova il podestà che gioca a tresette con Gilberto detto Sicuro, Fisarmonica e il padre di Bragavuota, anche lui con dei calzoni troppo larghi tenuti su da un paio di bretelle lise. Appena lo vede, Libertario gli fa cenno. Schiaccia la cicca nel posacenere ormai colmo e si alza dicendo al compare che gli sta seduto dietro (c’è sempre qualcuno che sta seduto dietro ai giocatori, chissà perché, forse per assicurarsi che giochino bene):

«Prendi il mio posto, che me h’ai ò da scàrer co al dutór.» Ad Astorre: «Cosa bevi?», e senza attendere risposta: «Il solito» e fa cenno all’ostessa dietro il bancone.

Si siedono a un tavolino libero lì di fianco. Tina arriva, versa in due bicchieri e, contrariamente al solito, si porta via il fiasco. Stasera c’è troppa gente per scialacquare.

«Come sta la figliola?» chiede il podestà.

«Starebbe meglio se non fosse stata sottoposta a un esame di terzo grado» mugugna il dottore.

«Capisco, Astorre, capisco la tua preoccupazione, ma l’impresa è valsa la pena. Uno dei più grandi scienziati d’Italia, forse del mondo, ci ha aiutato a dissipare ogni dubbio. Ora abbiamo le prove: non ci sono campane che suonano né sotto né sopra il lago, né rumori che possono lontanamente assomigliargli. Evidentemente Aladina…»

«Avrà raccontato dal bàl, vero?» lo interrompe Astorre risentito.

«Ma lascia stare le balle. Dico che come tutti i bambini ha molta fantasia. Sarà stata una ragazzata.»

«Ne fanno un bel po’ di ragazzate da queste parti, mi pare» interviene di nuovo il dottore calcando sulla parola. «Se vuoi chiamare così tutti i misteri irrisolti di questo benedetto paese.»

«Misteri?»

«Be’, a parte le campane, cosa dici di quel bambino che ci vede al buio, o di quella mezza matta di sua madre che ha incontrato il diavolo? O dei giovani scomparsi al Palazzaccio?»

«A tutto c’è una spiegazione razionale e mi sono impegnato personalmente perché durante il mio incarico venga chiarito ogni dubbio rimasto. Ne hai avuto una prova. E ti prego di non fomentare anche tu le dicerie frutto di superstizione e credenze malsane.»

«C’è poi un altro mistero, o ragazzata se preferisci, di cui Aladina è venuta a conoscenza e che l’ha turbata. La morte di Clara.»

«Questa faccenda è spiegabile. Spiegabilissima.»

«Ah sì? A me sembra più ingarbugliata che mai. Prima hanno detto che era stato Barbaza, che l’aveva… Non voglio neanche pensarci.» Butta giù un mezzo bicchiere di vino. «E dopo l’aveva impiccata.»

«Ipotesi subito smentita. Barbaza aveva passato la notte nella caserma dei carabinieri, arrestato per ubriachezza molesta. Una novità. L’avevano poi rilasciato all’alba, dopo che aveva smaltito la balla

Libertario volta la testa per ordinare un altro giro di rosso quando incrocia lo sguardo inquisitore di un uomo in divisa nera, stivaloni e berretto d’ordinanza, appoggiato al bancone davanti a un boccale di birra. Costui si avvicina e, immobilizzandosi in posa militaresca: «Camerati!» fa col braccio alzato. «Posso accomodarmi qui con voi? I vostri discorsi mi interessano particolarmente. In materia di ordine pubblico è necessario rimanere sempre vigili» e si siede senza aspettare un cenno di assenso.

Zagolin Corrado è un giovanotto grande e grosso che in divisa fa la sua bella figura di esponente della vigorosa razza italica. A differenza di quella che faceva Panzacchi Ardito, al secolo Panzagrassa Florindo. Il quale si trova ormai in terra straniera. È stato “promosso” (come piace a lui ricordare), in realtà “rimosso” per come ha gestito la giornata dell’esperimento. In particolare, la tiepida accoglienza dei cittadini (“di certi cittadini sovversivi”, il Panzacchi ha tentato di difendersi) all’arrivo del Cavaliere e la mancata risposta al suo vigoroso saluto romanofascista. Oggi è centurione della Milizia Coloniale in Tripolitania, a sovrintendere la costruzione di strade e linee ferroviarie dell’Impero.

Scelto per la sua specchiata discendenza nordica e comprovata fede fascista, il nuovo capo nucleo di Culdivalle è Zagolin Corrado. Saprà certo imporre l’inflessibile disciplina anche ai più irriducibili.

Dottore e podestà lo guardano con la diffidenza che i montanari riservano al forestiero che pretende di dettar legge.

«Prego, continuate» dice il milite. Più che un invito è un ordine.

Libertario riprende:

«E invézi, l’è pió fàzil che…», lancia un’occhiata al capo nucleo e continua: «Invece molto probabilmente si è uccisa. Non sappiamo esattamente la ragione ma, a indagare, la famiglia disastrata che aveva ci fornirebbe mille motivi. I carabinieri hanno trovato una scala appoggiata alla trave di fianco al suo corpo.»

Zagolin Corrado, che si era seduto a gambe larghe rilassandosi contro lo schienale con l’aria di chi ha sotto controllo la situazione, si tira su bruscamente e aggrotta le sopracciglia.

«Ma non diciamo sciocchezze» interviene Astorre. «Non può essersi suicidata. Senti» e appoggia una mano sul braccio del suo compare, chinandosi leggermente in avanti come per fare una confidenza, «ho avuto modo di consultare la cartella clinica compilata dall’esimio collega che mi ha preceduto qui a Culdivalle. Si trova nell’archivio dello studio. Risulta che la ragazza soffriva di vertigini. Non sarebbe riuscita a salire la scala per far passare la fune sul travetto e poi infilarsi il cappio… Insomma, non regge.»

«Se non si è suicidata, dobbiamo tornare all’ipotesi dell’omicidio.»

Il capo nucleo avanza col busto e appoggia un gomito al tavolino. Le folte sopracciglia si arricciano ancora di più tirandosi dietro un’increspatura disgustata delle labbra.

«Se ci pensiamo bene» conclude il podestà, «scommetti che ci viene qualche mezza idea di chi potrebbe essere coinvolto?»

Il capoccia si alza di scatto e batte una mano sul tavolo.

«E no, per dio!» grida, e nello sforzo la voce si incrina producendo uno sgradevole acuto. Nell’osteria si fa un silenzio di tomba. «Come tutti sanno» e sottolinea le parole con il dito indice teso che gira a comprendere l’intero locale, «le indagini prontamente e accuratamente eseguite, oltreché dal regio corpo dei Carabinieri, dalla nostra milizia hanno inconfutabilmente stabilito che non si tratta di un delitto, né tantomeno di un suicidio. La ragazza stava giocando quando è accaduto l’incidente. Incidente, signori miei» e l’indice dritto ripercorre la sala, «trattasi di uno sciagurato e triste incidente.»

Fa due passi con le mani sui fianchi e si ferma a gambe larghe, guardandosi intorno per accertarsi che tutti l’abbiano sentito. Si calca ben bene sul capo il berretto nero con lo stemma dell’aquila, e si avvia verso la porta. Prima di uscire si gira e, l’indice sempre alzato, conclude:

«E ricordate, camerati, nell’Italia fascista non si commettono delitti né ci si suicida. I risultati conseguiti dal nostro Duce nella repressione del crimine e l’alta moralità delle genti italiche sono in-di-scu-ti-bi-li» dice scandendo l’ultima parola con un’impennata acuta della voce.

Rifà il saluto ed esce sbattendo la porta. Nella sua veemenza ha dimenticato di pagare.

Il podestà si alza lentamente, guarda uno a uno i compaesani e, nel silenzio che continua a pesare sull’osteria, dice: «Amici miei…». Sospende. «O meglio: concittadini e amministrati, come avete appena inteso dalle alate parole del capo nucleo Zagolin Corrado, la verità è stabilita per legge dal Partito. Non voglio più sentir parlare né di omicidio né di suicidio della povera Clara.»

«Alla salute di Zagolin!» si sente dal fondo della sala.

Tutti alzano il bicchiere.

Segue un applauso al proponente.