Capitolo quattordicesimo
Dove si passa dal din don al din don dan, e dove vediamo i timori di un padre, l’osteria della Tina come luogo di riflessione, una nuova forma di terapia, la tranquillità di chi ha la visione complessiva e una strana proposta del Professore.
Din don, din don dan, din don, din don dan…
Il suono delle campane entra dalla finestra aperta della cucina e Cleonice si ferma ad ascoltarlo. Guarda Aladina che, seduta al tavolo, ha sospeso la colazione ai primi rintocchi e, come già successo, li accompagna con la voce e i movimenti del capo.
«Sbrigati a finire la colazione che siamo già al primo doppio» la sollecita Cleonice.
«Sono i rintocchi che ho sentito ieri sera, ma questi sono meno… meno chiari.»
«Ancora con la storia delle campane. Non puoi aver sentito il doppio ieri sera. Suona un’ora prima dell’inizio della messa festiva e ieri era sabato…»
«Perché lo chiami doppio?»
«Perché è particolare: suonano due campane e quindi è un doppio…»
«Sono tre» la interrompe la bambina. Alza l’indice in un gesto che le sta diventando consueto. «Senti? Din don, din don dan, din don, din don dan…»
«Sei una ragazzina sveglia» e Cleo le siede davanti. «I campanari lo chiamano doppio composto perché in origine era suonato da due campane e poi quando, anni e annorum fa, Astruso de’ Sapiolunga regalò alla parrocchia la campana piccola, quella che fa il tuo dan, il parroco di allora ordinò che dal dì della donazione in poi il doppio suonato nel nostro paese fosse accompagnato da un rintocco della piccola. Un modo per onorare Astruso, che se no si sarebbe offeso. Era un tipo che andava per le spicce, uno che la sapeva lunga e magari si riprendeva la campana.» La donna si alza. «Basta perdere tempo o faremo tardi alla messa. Io sono già pronta e tu devi ancora…»
Il dottor Astorre, entrato in cucina mentre Cleonice spiegava i rintocchi, interrompe la donna: «Oggi accompagnerò io Aladina. Ho da scambiare quattro chiacchiere con il Professore».
Manca almeno un quarto d’ora all’inizio della messa e sul sagrato c’è la solita folla di paesani. Le donne hanno già il velo sul capo e alcuni uomini finiscono la sigaretta con calma. Ci si scambiano le ultime. Pettegolezzi su questo o quella.
Aladina ha subito adocchiato Teresotta e Fringuella. «Posso entrare con loro?» chiede.
«Prima vieni a salutare il Professore.»
Appoggiato al muretto che delimita il sagrato, il Professore sta fumando la pipa e guarda, occhi socchiusi per il sole, la gente in attesa. Ad Aladina sembra più alto di quando l’ha visto la volta precedente. Sarà che stavolta è in piedi.
«Ecco qua la ragazzina che sente le campane» l’accoglie quello, togliendosi la pipa di bocca.
«Come sapete delle campane?» chiedono assieme il dottor Astorre e Aladina.
«Eh, il paese è un paese, cari i miei giovanotti. Le voci volano assieme all’aria che respiriamo. L’aria entra ed esce dal naso; le voci entrano dalle orecchie e non escono più. Come il suono delle campane» e si china verso Aladina. Che sente il forte odore di tabacco. «Non è forse così? I rintocchi delle campane restano dentro.»
Aladina sta per rispondere, ma Teresotta e Fringuella la prendono una da destra, l’altra da sinistra e la trascinano via.
Astorre guarda le tre saltellare spensierate e lui, che spensierato non riesce a essere, guarda il Professore.
«Avete saputo, anche voi.» Il Professore si è rimesso la pipa fra i denti e annuisce, tirando lente boccate di fumo. «È l’ultima stranezza di ieri sera. Ha sentito le campane. Non so più come prenderla. Se mi irrigidisco, è peggio perché si offende. Se le do corda, temo di peggiorare la situazione.»
«E io temo che vi preoccupiate per nulla, caro Astorre. Avete vissuto… quanti anni?, con sua madre, la dolce Gialdiffa.»
«Dodici anni, Professore. Pochi per l’amore che le portavo.»
«Dodici anni e non avete imparato a convivere con i sogni?»
«Sogni, dite bene. Quelli di Gialdiffa erano ricordi d’infanzia, ma Aladina li sta prendendo troppo sul serio.» Fa una pausa abbastanza lunga. Non sa come iniziare un discorso che, con i tempi che corrono, potrebbe diventare pericoloso. Troppa gente attorno, e le cose che Astorre ha da dire dovrebbero essere solo per il Professore.
Il Professore tira un’altra boccata e rilascia poco fumo. Fruga nella tasca della giacca, estrae il curapipe e preme leggermente sul tabacco acceso del fornello, aspirando. Stavolta esce una buona quantità di fumo che soddisfa l’esigenza del fumatore.
Ha completato l’operazione senza togliere gli occhi da quelli del dottore, e deve avergli letto dentro ciò che lo tormenta. Infatti dice:
«Vi offro da bere, Astorre. Si ragiona meglio davanti a un buon bicchiere di vino.» Guarda l’orologio da taschino. «Abbiamo tutto il tempo e in osteria, a quest’ora, non c’è nessuno.»
Aspira di nuovo per assicurarsi che la brace tenga: «Intanto vi dico che, personalmente, sono soddisfatto della vostra Aladina».
«Vorrei esserlo anch’io.»
«Dovete esserlo.» Prende sottobraccio il dottore e si avvia a lasciare il sagrato.
Aveva ragione il Professore: dalle undici e mezzo fino alle dodici e mezzo l’osteria non ha clienti. Si distribuiscono fra chiesa, donne e bambini, e sagrato, uomini.
Ne approfitta la Tina, in osteria: si dà da fare con i tavolini. Li spolvera, ci sistema sopra i posacenere con la pubblicità della birra Ronzani. La stessa che è impressa sui vassoi, di latta verniciata, per servire ai tavoli. C’è dipinto un cameriere pelato e di rosso vestito, che sostiene un bicchierone di birra traboccante schiuma. Sotto, la scritta Birra Ronzani dal 1855.
All’ingresso inaspettato di clienti, la Tina sospende, guarda i due avventori e si chiede: «Già qui? Non è ancora finita la messa».
«Tranquilla, Tina» dice il Professore. «Ci servi un mezzo di quello buono e due bicchieri. Per la birra hai tempo.»
Ecco, la domenica dopo la messa si beve birra. È festa.
I due siedono a un tavolino sotto la finestra. Il Professore inaugura il posacenere pulito con i resti di tabacco non fumato.
Il primo sorso lo bevono assieme, dopo aver sfiorato i loro bicchieri in un muto brindisi.
Il dottor Astorre posa il bicchiere e toglie dalla tasca della giacca il taccuino. Lo consulta: «Immagino abbiate notizia degli studi del dottor Sigmund Freud e del suo allievo Carl Gustav Jung».
«Si occupano della così detta psicologia del profondo.»
«Ho letto alcuni passi di un saggio del dottor Jung dove si trattano alcuni sogni di bambini.» E racconta delle ricerche svolte nella notte.
Il commento del Professore, al termine dell’esposizione, è: «Di psicoanalisi e di teorie freudiane e junghiane so quel poco che sono riuscito a carpire dalle grinfie della censura fascista. Non sarà molto ma basta per farmi dire: tranquillo, dottore, Aladina sta bene. Le sue campane non vengono da un sogno. Sentire le campane è un privilegio riservato a pochi e solo alle donne. Non s’è mai dato di un uomo che abbia sentito le campane».
Con calma e precisione chiude il curapipe, mette la pipa nella custodia di pelle, controlla che il sacchetto del tabacco, pure di pelle, contenga sufficiente trinciato per un’altra fumata, più tardi, dopo pranzo e con un bicchierino di liquore di rugiada sul tavolino.
Deposita l’attrezzatura da fumo nella tasca della giacca e manda giù un altro sorso: «Sua madre sentiva le campane, perché non Aladina?». Si china verso il dottore, dall’altra parte del tavolino, e sussurra: «Forse possiede il seme della magia. Tanto più che ieri era la ricorrenza» e il Professore si appoggia allo schienale e socchiude gli occhi per far intendere che altro da dire non ha.
«Ho paura di non capire.»
«Non c’è da capire. C’è da credere» dice il Professore senza aprire gli occhi.
«Io sono preoccupato. Voi continuate a dire e non dire mentre io sono preoccupato per la salute mentale di Aladina.»
«Siete preoccupato perché non avete la visione complessiva.»
«Aiutatemi voi ad averla, Professore.»
«Non serve, la visione complessiva la si deve conquistare.» E versa nei bicchieri il vino rimasto del cosiddetto mezzo. Un altro accenno di brindisi, non si capisce bene se alla salute o alla visione complessiva. «Anni e anni di ricerche, studio, ragionamenti, caro Astorre.» Bevono. «Posso solo dirvi che alcune persone, dotate di una facoltà particolare, sentono le campane. Accade di solito all’ora dell’Avemaria. A volte, come è accaduto ieri ad Aladina, anche in altri momenti della giornata. Tanto più, come ho detto, che ieri era l’anniversario.»
«Di cosa?»
Il Professore non risponde. Prende fuori l’orologio da taschino, vuota l’ultimo sorso e si alza. «È l’ora, dottore. Andiamo ad accogliere la piccola privilegiata all’uscita della messa. Sul mio conto, Tina» e lasciano l’osteria.
In silenzio si avviano alla chiesa, ognuno occupato coi propri pensieri.
Un’idea improvvisa coglie il Professore appena messo piede sul sagrato. Sorride, si ferma e ferma Astorre. «Che ne direste di salire sul campanile assieme a me e alla vostra ragazzina?»
Stupito per la proposta assolutamente inaspettata, il dottore fa scorrere una veloce occhiata al campanile, dalla base massiccia fino alla punta snella sulla quale sta una croce di ferro. «Direi che io vi aspetterò qui, seduto sul muretto.»
«Peccato, perderete una magnifica occasione» e senza altro aggiungere solleva l’indice della destra verso la guglia dove, un mezzo secondo dopo, comincia il concerto di campane annunciante l’ite missa est.
Accompagna i rintocchi con il braccio alzato e va incontro ad Aladina, uscita per prima assieme a Teresotta e Fringuella.