Capitolo trentasettesimo

Con tuffi di ranocchie, boccheggiar di pesci fuor d’acqua, richiami d’amore del liguarro, gorgogliar di chissà quale animale, forse un gufo: strani suoni escono dalla misteriosa scatola dove si sono accumulati i rumori di una giornata che non capita spesso. E il Cavaliere?

Il viaggio di ritorno sarà meno faticoso di quello che l’ha portata qui. Il cesto è vuoto, il fiaschetto è vuoto, vuota è anche la bottiglia di acqua di sorgente.

«Meglio così» dice a se stessa Cleonice. Con le mani dà una pulita alle briciole finite sull’abito di Aladina, raccoglie bicchieri, coltelli, pelle di salamino, crosta di formaggio e si mette sottobraccio il cesto. «Non fare tardi» raccomanda alla bambina. Con voce alta, che senta il Cavaliere e la lasci finalmente tornare alla Casona.

«State tranquilla, buona donna. Farò una veloce verifica e una breve chiacchierata con la Piccola Italiana» e mentre Cleo si allontana: «Come vi chiamate, buona donna?».

«Buonadonna» risponde lei senza voltarsi.

«Grazie per le crescentine» dice ancora lui.

«E per il vino» aggiunge l’uomo con il fucile. Ma sottovoce.

Il Cavaliere si alza e fa segno ai due ragazzi di seguirlo. Torna a sedere al bancone. «Questa è una centrale distributiva. E adesso, Piccola Italiana, è il momento della verità. Ti farò ascoltare alcuni dei suoni che durante l’esperimento si sono diffusi nell’aria e che ho catturato e imprigionato qui dentro» spiega posando la destra, delicatamente, sulla scatola di metallo con i due grossi rocchetti. «Questi strumenti captano anche il più piccolo rumore. Quelli che il nostro orecchio riesce a sentire e quelli che non riesce a sentire. Come gli ultrasuoni. Sapete cosa sono gli ultrasuoni?» Gufo e Aladina si guardano e, insieme, fanno vigorosamente no con il capo. «Sono suoni talmente alti che sfuggono all’udito dell’uomo. Non a quello dei cani, per esempio. Ma andiamo avanti. Vi farò ascoltare alcuni rumori» e fa una pausa per guardare Aladina. «Tu mi hai fatto cenno a mezzogiorno che stavi sentendo le campane. Se hanno veramente suonato…» sospende per creare attesa. «Ebbene, noi le sentiremo.» Accarezza ancora la misteriosa scatola dei suoni. «A questa non sfugge nulla, neppure la musica che fanno le piante parlando, si fa per dire, tra loro o crescendo.»

I due bambini lo guardano affascinati dal racconto e aspettano il seguito annunciato.

Il Cavaliere preme bottoni, gira manopole, regola piccoli congegni. Insomma, fa partire il rudimentale meccanismo. Che, più raffinato e preciso, diventerà, anni dopo, un registratore di suoni.

I due rocchetti attorno ai quali è avvolta la lamina sottilissima di metallo cominciano a girare velocemente e dalla scatola escono strani rumori che il Cavaliere spiega man mano così:

una ranocchia o altro animale, che si è tuffato nell’acqua;

pesci che boccheggiano in superficie;

frusciare di foglie a un alito di vento;

ciottoli fatti rotolare dal passaggio di un animale.

«Ecco, questo che avete appena sentito è un martin pescatore che si è tuffato e ha catturato un pesce. L’ho visto proprio qui dinanzi a me mentre usciva dall’acqua. Questo, invece» e dalla scatola magica esce un gorgogliare sommesso, «questo non sono riuscito a identificarlo.»

«È Gufo che respira sott’acqua» spiega il bambino.

«Quando mai i gufi respirano sott’acqua?»

«Non il gufo che vola» continua il bambino. «Sono io, sono io che ho messo la bocca sotto l’acqua!» e scoppia in una risata.

Il Cavaliere lo guarda accigliato. «Bravo. Avevo ordinato il silenzio.»

Altri rumori ripetono quelli già ascoltati e si arriva a uno strano suono cupo e prolungato che non somiglia a nulla di quanto si senta normalmente da queste parti. È come il suono di uno scorreggione, che non è quello che pensate voi.

Lo scorreggione è una specie di flauto costruito con le messe nuove spuntate in primavera alla base dei castagni. Si usa solo la corteccia che, essendo giovane, si sfila integra del fusto. Si assottiglia la parte finale della corteccia con un coltello molto affilato fino a renderla trasparente, la si mette in bocca e si soffia con forza. Esce un rumore sgradevole che somiglia, in tono baritonale, alla parola dalla quale prende a prestito il nome.

«Questo non riesco a classificarlo. Cioè» spiega il Cavaliere, «non appartiene a nulla che io conosca.»

«Io so cos’è» dice Gufo. Il Cavaliere e Aladina lo guardano e aspettano. «È un liguarro» e prosegue in fretta come se non volesse essere interrotto. «Quando il liguarro esce dall’acqua fa quel verso lì. Anche quando va alla cerca della femmina fa quel verso lì. E quando…»

«Basta così» dice lo scienziato sollevando una mano. «Torniamo…» ma si interrompe a sua volta. Alza gli occhi, che fino ad allora aveva tenuti fissi sulla scatola di metallo, e guarda la distesa del lago, laggiù, dove le acque lambiscono la diga a valle. Nella luce del sole calante ha assunto una meravigliosa trasparenza.

Mormora qualcosa tra sé e sé. Aladina e Gufo sentono solo poche parole:

«… guarro… lucertola… o ramarro…» Poi di colpo si scuote, le mani tornano allo strano congegno e lo sguardo alla sua espressione seria e severa.

«Non so che animale sia. Adesso, ascoltate.»

Il clic secco di una manopola. L’attenzione dei due bambini è al massimo.

Il suono lontano di una vibrazione soffocata. Non è un rumore, è una sensazione che accarezza gli organi più interni dell’orecchio.

Il Cavaliere guarda Aladina e spiega: «Questo hanno captato le mie attrezzature quando mi hai fatto cenno di sentire le campane. Potrebbero essere i batacchi delle campane sommerse che, mossi da correnti profonde, vanno a sfiorare il bronzo».

«Io sento campane che suonano, signore.»

«Forse sei dotata di un udito più ricettivo di altri esseri umani.»

Ed è tutto.

Una manopola dopo l’altra, una leva e un’altra, pulsanti e congegni mobili vengono girati, spostati, premuti fino a che lo strano animale costruito sul greto del lago giace inerte, senza più energia. Morto.

L’esperimento è finito.

Il Cavaliere accarezza per l’ultima volta la sua creatura di metallo e legno e cavi elettrici e fa cenno agli assistenti che è arrivata l’ora di smontare la macchina del suono.

Segue un lungo silenzio.

«Purtroppo, Piccola Italiana, nessuna campana ha mandato i suoi rintocchi nella valle del Cigolo, oggi a mezzogiorno.»

«Non mi credi, come gli altri. Hai costruito tutto questo» e il gesto di Aladina raccoglie l’intera scenografia, «solo per dirmi che sono una bugiarda» e la sua voce trema, al limite delle lacrime.

«Se lei è una bugiarda» grida Gufo, «anch’io sono un bugiardo!»

«Che c’entri tu, Figlio della Lupa?»

«Mia madre si chiama Verginia, non Lupa!» protesta il bambino.

Sorpreso dalla reazione il Cavaliere scuote il capo e mormora: «Tuo padre non ti ha spiegato che i bambini che frequentano le elementari si chiamano tutti Figli della Lupa?».

«Non ce l’ho un padre» è la risposta immediata di Gufo.

«Va bene, va bene» chiude l’argomento il Cavaliere. «E perché saresti un bugiardo anche tu?»

«Anch’io dico una cosa che gli altri dicono che non è vera. Dico che ci vedo al buio e nessuno mi crede, nemmeno Verginia.»

La reazione sincera e triste dei due bambini commuove il Cavaliere.

Si alza dal panchetto dietro il bancone, infila le mani nelle tasche dei calzoni e cammina adagio fino al ciglio del lago. Le lievi increspature dell’acqua sfiorano la punta delle sue eleganti scarpe nere, ora appena un poco impolverate.

Visto così da dietro, il famoso scienziato incute meno timore: una figura sottile su un enorme sfondo grigio lucente.

Parla senza voltarsi, ma questa volta i due bambini lo sentono bene.

«Non siete bugiardi, siete sognatori» e si blocca. Ha appena pronunciato una frase che qualcun altro, molti anni prima, aveva rivolto a lui.

Era un ragazzo quando incontrò per la prima volta il professor Augusto Righi. Diciannove, vent’anni forse. Nel laboratorio di fisica dell’Università di Bologna. Il giovane osservava con occhi sgranati e intenti gli apparati che l’insigne scienziato aveva approntato, e lo interrogava con forza, quasi febbrilmente, sulle questioni di elettromagnetismo che più lo interessavano.

Lo incontrò poi spesso per sottoporgli “qualche sua ingegnosa idea”, come Augusto Righi chiamava le intuizioni di quel giovane. E per chiedergli consiglio a proposito di qualche esperienza di fisica che faceva a casa propria.

Ricorda con chiarezza l’ultima volta che lo vide poco prima di partire per l’estero in cerca di miglior fortuna.

Di fronte all’ennesimo dettagliato progetto che il giovane gli presentava, geniale ma privo di solido fondamento teorico, il famoso scienziato, poco convinto, aveva scosso il capo. Salutandolo benevolmente, gli aveva teso la mano e aveva pronunciato la frase che avrebbe accompagnato a lungo il futuro Cavaliere: «Voi non siete uno scienziato, siete un sognatore». Il tono era neutro, come si addice a un illustre accademico che ben sa ciò di cui parla. Difficile capire se Righi avesse espresso rimprovero o incoraggiamento. Il giovane aveva preferito pensare che contenesse incoraggiamento, e così adesso l’ha ripetuta ai due ragazzi che, un po’ in soggezione, lo guardano e aspettano da lui una spiegazione.

Si volta e torna da loro: «Come vi chiamate, bambini?».

Gufo non aspetta neanche che finisca e: «Io sono Gufo» salta su. «Poi Longobardi di cognome, come Verginia.»

L’uomo gli stringe la mano, si gira verso la ragazzina e aspetta.

«Io faccio Aladina di nome e Duban di cognome.»

«Grazie, Aladina Duban» le dice tendendo anche a lei la mano.

Di fronte a quei meravigliosi occhi sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, sollevando appena i talloni e con un lieve inchino del capo, si presenta:

«Piacere, bambini. Io di nome faccio Guglielmo e di cognome Marconi.»