Capitolo quarto
Leggerete di una cena svogliata e della prima notte di Aladina alla Casona. Della Grandequercia e del mondo che nasconde. Dei profumi, sapori e prima colazione in montagna. Dell’incontro di Aladina con Cococo, una gallina che vorrebbe parlare. E della porta della soffitta chiusa misteriosamente a chiave.
Passata l’eccitazione dell’arrivo nel Paese Nuovo, sognato da tanto, Aladina si sente stanca e storce il naso al cibo che Cleonice le mette davanti.
Non serve né l’assicurazione del dottore che «è buono e devi almeno assaggiarlo».
Né serve la sollecitazione di Cleonice: «Sei giovane e devi crescere e per crescere devi mangiare».
Come non serve la proposta «se vuoi qualcos’altro».
La risposta è una e sempre quella: «Ho sonno e voglio andare a letto».
La verità non detta è che Aladina non vede l’ora di tornare sulla nuvola dove ha dormito Gialdiffa per diciassette anni. Non vede l’ora di addormentarsi: è certa che la sognerà.
Cleonice si arrende: «Hai bevuto un buon bicchiere di latte e non morirai di fame».
A una decina di metri dalla finestra della stanza, una volta di Gialdiffa e ora di Aladina, è cresciuta, chissà da quanti secoli, la Grandequercia. È un gigante della sua specie, ben più alto della Casona e con un tronco che, alla base, ci vorrebbero quattro uomini, uno accanto all’altro con le braccia allargate al massimo, per abbracciarlo tutto. Fra i suoi rami e le sue foglie ci sta ogni genere di animaletti, volatili e non.
Fra i volatili ci mettiamo ghiandaie dalle penne arcobaleno, merli lucidi come ebano, gazze bianche e nere, passeri montani con piumaggio che va dal marrone al bianco, la cinciallegra dal petto giallo, il fringuello dal collare rosa, il pettirosso che sembra abbia messo un tovagliolo colorato e la serie di passeri dal piumaggio più vario che va dal verdone al ciuffolotto, dal cardellino alla passera scopaiola, dalla gazza al picchio rosso e, dovreste vederlo, il picchio dal culetto rosa mentre, con il becco a martello pneumatico, fora corteccia e legno alla ricerca del bruco.
Di notte si fanno vedere – si fa per dire, perché è difficile scorgerli nel buio e nascosti come sono tra le foglie – la civetta che porta sfiga con il suo verso da accapponare la pelle; il paffuto, spettrale, silenzioso, morbido barbagianni dalla faccia a forma di cuore, considerato portatore di sventura e incarnazione di maghi e streghe, ma innocente e innocuo come può esserlo un batuffolo di bambagia. C’è l’allocco che vi guarda, con occhi sempre assonnati, come se foste di un altro pianeta, e per lui forse è così.
Fra i non volatili mettiamo ghiri, scoiattoli, moscardini, querciaioli e a volte persino gatti selvatici e faine.
C’è anche Gufo, che dovrebbe stare fra i volatili, sennonché il Gufo che si nasconde fra i rami e le foglie della Grandequercia non è un uccello. Non è neppure un animale notturno, come leggerete più avanti.
Non tutti questi esseri meravigliosi che la natura ha disseminato qua e là per la montagna si trovano sulla Grandequercia nello stesso momento, ma capita di trovarceli.
Un camion Fiat 632 N è arrivato nella notte all’officina di Gilberto, detto Sicuro. Alla luce dei fanali lo hanno scaricato e, mentre riprendeva la strada per la città, è arrivato anche il biroccio condotto da Milcare del Podetto.
Il sole sarebbe spuntato fra poco.
Il viaggio dal meccanico alla Casona è stato più lento e tranquillo del viaggio dalla città. I buoi non hanno motore e non vanno a benzina.
Quando Milcare e Gildone, sotto la direzione del signor dottore, hanno cominciato a sistemare mobili e bagagli nei vari locali della Casona, i primi raggi del sole s’erano appena mostrati.
Uno s’è fatto strada fra i rami e le foglie della Grandequercia, e ora riscalda gli scuri della stanza, fruga tra la vernice screpolata dai secoli, trova una fessura fra legno e legno, vi si infila e va ad accarezzare i capelli di Aladina. Poi gli occhi. Che si socchiudono.
La notte è passata in un lampo.
Ancora per un poco la bambina si avvolge nelle foglie di pannocchia.
Scende dalla nuvola e va a spalancare la finestra.
La quercia e il suo mondo le danno il buongiorno.
Lo stanzone al piano terreno è ancora ingombro, ma molto materiale ha già trovato la sua collocazione. Milcare e Gildone vanno e vengono carichi di suppellettili. Il signor dottore le fa disporre a seconda delle sue esigenze.
Cleonice l’aspetta in cucina: «Dormito bene, piccola?».
Aladina annuisce. «Che buon profumo. Cos’è?»
«Pane appena sfornato. Mi sono alzata alle quattro per cuocertelo.»
«Per me? Alle quattro?»
«Sì, signorina. Ho impastato, scaldato il forno, poi sono andata a mungere e adesso…», adesso toglie la tovaglia dal cesto e, nella cucina, si spande l’aroma del pane appena sfornato. «Adesso tagli le fette che vuoi e ci metti sopra un po’ di questa» e posa sul tavolo un vasetto di marmellata.
Aladina prepara una fetta con la marmellata e, di corsa, lascia la cucina.
«Il caffelatte!»
«Dopo, lo berrò dopo.»
«Vai a vedere l’ambulatorio. È già sistemato.»
Mastica e passa in rivista i locali: molti degli oggetti arrivati dalla città hanno già trovato posto.
Incrocia il padre, anche lui indaffarato. «Vieni, vieni piccola a vedere l’ambulatorio» e la precede nel locale. È compiaciuto e convinto che lo sarà anche la figlia. «Che ne dici?»
Ad Aladina basta un’occhiata veloce. Mugugna: «Non mi piace».
Non le piace. Le fa tornare in mente una frase di Cleonice alla quale non aveva prestato la giusta attenzione: “In quella stanza laggiù ci verrà l’ambulatorio del signor dottore con la sala d’aspetto per i malati”.
«Perché hai portato qui l’ambulatorio?»
«Il medico del paese è andato in pensione, ne serviva un altro e ho accettato di essere io il nuovo condotto…»
«Che vuol dire?»
«Vuol dire che sono il medico della montagna. Dipendo dal Comune, presto assistenza sanitaria gratuita ai poveri e ai meno poveri, il compenso è basso in modo che tutti possano avere l’assistenza…»
Alla bambina basta così. Ha saputo quello che le serviva e se ne va prima che il dottor Astorre completi la spiegazione.
Il medico condotto.
L’ambulatorio.
Perché?
Sarà questa la nostra casa d’ora in poi.
Non torneremo più in città.
E le scuole medie?
Torna in cucina e in silenzio finisce la colazione.
Prima di sparecchiare Cleonice le chiede: «Vuoi altro?».
Aladina nega col capo e vorrebbe dire che il pane caldo di forno, la marmellata e il latte appena munto…
Li avrebbe apprezzati molto di più se accanto a lei ci fosse stata Gialdiffa.
Sempre in silenzio, esce all’aria aperta.
Le galline di Cleonice sono arrivate fino alla Casona. Per un poco Aladina le guarda e poi le raggiunge. Non scappano, anzi, le razzolano fra i piedi come se la conoscessero e l’avessero sempre avuta fra le zampe e il becco.
Una, in particolare, le sta becchettando sul piede destro. Un becchetto e uno sguardo, a testa obliqua, alla ragazza. Un altro becchetto e un altro sguardo.
Aladina si china cercando di non disturbarla. «Che c’è? Vuoi dirmi qualcosa?»
«Si chiama Cococo» grida dalla porta Cleonice. «A volte si lascia accarezzare. Provaci.» Aladina lo sta già facendo e quella, la gallina, continua a guardarla con la testa piegata di lato. «Sembra che voglia parlare, no?»
«Vuoi essere mia amica?»
Cococo gira il capo e la guarda con l’altro occhio, emette un gorgoglio sommesso che somiglia a un cococo e va a mischiarsi alle sue simili.
Non si comporta come le altre galline. Quelle continuano a beccare sul terreno, di qua e di là, senza sosta, raccogliendo qualcosa di così piccolo che la bambina neppure riesce a vedere. Forse minuscoli insetti o granelli colorati di sabbia fine o frammenti di ossicini o piccoli semi o briciole di pane cadute a chissà chi e chissà quando.
Cococo becchetta un paio di volte, solleva la testa e torna a guardare Aladina con l’occhio destro. Altre due beccate e altro sguardo. Con l’occhio sinistro, girando continuamente la testa perché gli occhi delle galline stanno da due lati opposti del capo. Poi di nuovo col destro e il movimento è come una danza dedicata ad Aladina.
Cococo sarà mia amica.
Le galline saranno mie amiche.
E le amiche di città?
Non le rivedrò più.
Aladina stringe i pugni, li passa con forza sugli occhi chiusi e rimanda indietro la lacrima che spinge per uscire.
A Gialdiffa dispiacerebbe vederla piangere nella casa dove lei è nata e ha vissuto infanzia e prima giovinezza.
Rientra in casa e corre su per le scale. Non va a chiudersi in camera. Sale l’ultima rampa e si ferma davanti alla porta della soffitta. Ansima. Aspetta di riprendersi e gira la maniglia.
La porta è chiusa a chiave.
Sempre di corsa, scende, va in cucina e grida: «La chiave! Voglio la chiave, Cleo!».
L’anziana signora la guarda sorpresa. «Chiave? Alla Casona non ci sono porte chiuse a chiave…»
Aladina continua a gridare: «Non è vero! Una c’è!».
«Ti sbagli…» ma non finisce: Aladina la prende per mano e se la trascina dietro.
Insieme salgono le scale e la ragazzina tenta di nuovo di aprire la porta della soffitta.
«Visto? Chiusa a chiave.»
«Non è possibile.» Ci prova anche Cleonice. Due, tre volte. «È sempre stata aperta» ma, dopo altri tentativi, è costretta a rinunciare. «Non è mai stata chiusa a chiave, Aladina. Non esiste chiave per questa porta…»
La ragazza picchia i pugni sul legno. «Apriti, apriti!»
Cleonice la prende per le spalle e la stringe: «Non è stata aperta da tanti anni. L’ultima volta è stata quando Gildone ha portato su il baule di tua madre che era nella sua stanza. Si era sposata con tuo padre e le cose di lei bambina non le sarebbero servite più. Ci aveva detto lei di tenerle per sua figlia, per te, quando saresti venuta in paese». Riprova. Niente da fare. «Si sarà rotta la serratura. Dirò a Gildone di sistemarla e potrai entrare, te lo prometto.»
«Io volevo entrare adesso» e il tono della ragazzina è al limite del pianto. In silenzio scende le scale. In silenzio si chiude in camera sua, guarda la Grandequercia e ascolta il mondo che si muove fra le foglie e sui rami secolari.
Alle cinque del pomeriggio, dopo aver governato le bestie e riportato nel recinto le sette pecore al pascolo, Gildone prende qualche arnese, martello, tenaglie, lima da legno, cacciavite, butazzo per l’olio da spruzzare nella serratura, e sale le scale.
Lo sente lavorare, Aladina, ma non esce. Lo sente armeggiare al piano di sopra, mugugnare, battere con un martello.
Lo sente sbuffare quando, persa la pazienza, afferra la maniglia e tira puntando i piedi contro lo stipite.
Lo sente bestemmiare quando la maniglia si stacca dalla porta e lui va a sbattere contro la ringhiera delle scale.
Lo sente borbottare mentre scende: «Quella porta, maledetto il demonio, deve essere stregata. Non è chiusa a chiave e non si apre! Maledetto il demonio, a momenti mi rompo la spina dorsale» e la piccola capisce che la porta della soffitta non vuol saperne di farla entrare nel regno di Gialdiffa.
Sente, non mette il naso fuori dalla stanza e da quel momento diventa un’altra Aladina.