Capitolo tredicesimo

Con una cena poco piacevole, una notte di studio e una domanda senza risposta.

«Vi dico che le ho sentite. Facevano così: din don, din don dan, din don, din don dan…» e Aladina segue la melodia con l’indice, muovendo adagio il busto. Ha posato il cucchiaio.

È l’ora di cena ma la bambina non ha fame perché è troppo agitata e felice. Anche Astorre appoggia il cucchiaio. Sposta la scodella che ha davanti e intreccia le mani sul bordo del tavolo, sporgendosi un po’ verso la figlia.

«Insomma, cineina, cos’è questa storia? Io ero qui, nello studio, siamo più vicini alla chiesa di dov’eri tu, al lago, e non ho sentito niente.»

Cleo rientra dalla cucina asciugandosi le mani nel grembiale.

«Sì che si sentivano: din don, din don dan…» ripete Aladina con gli occhi che ridono.

Cleonice e Astorre si scambiano uno sguardo. Lui dice, come aspettandosi una conferma dalla donna: «Forse veniva da qualche borgo dall’altra parte del lago, magari L’Usignola, o Dragoncella. O dal santuario».

«Impossibile» risponde Cleo fissandolo.

Il padre si versa un goccio di nero e beve un sorso.

«Va bene, Aladina. Adesso finisci di mangiare. Cleonice, preoccupati che dopo vada subito a letto.»

Astorre è diventato molto serio. Quando fa così non ci sono santi. È meglio ubbidirgli.

«Vado nello studio, ho da leggere dei documenti.» Si alza ed esce.

Cleo si avvicina ad Aladina, che intanto ha ripreso in mano il cucchiaio, con poca voglia. Le accarezza la testa: «Mangia, bambina, mangia».

Le siede accanto.

Dopo un attimo di silenzio:

«Da dove veniva questo suono?» le chiede.

Aladina manda giù la cucchiaiata di brodo e sorride riprendendo un po’ dell’entusiasmo iniziale.

«Dall’acqua. Veniva dall’acqua.»

Il padre non ha neanche finito la cena ma non ha fame. La condizione della figlia lo preoccupa seriamente. Il mutismo e la chiusura dei primi giorni, quando erano arrivati in paese, poi l’allegria improvvisa quando aveva cominciato a uscire, a incontrare le amiche e andare al lago. E adesso questa storia delle campane. Avevano suonato davvero e lui era così preso dal suo lavoro da non accorgersene? Chiederà ai campanari per sicurezza, ma gli sembra improbabile, a quell’ora di sabato. O forse Aladina sta raccontando una fola. E perché dovrebbe farlo? Non è da lei. È una bambina silenziosa, magari non dice proprio tutto, però dir dal bal… anche questo gli sembra impossibile. Oppure c’è qualcosa di più grave. Astorre fa fatica a dirselo, ma è un medico e deve verificare anche questa eventualità.

Si chiude nello studio. Cerca una risposta, o almeno un chiarimento, fra i suoi libri. Anche se i pazienti normalmente vanno da lui per malanni fisici, il dottore sa che esistono malattie per le quali la sua scienza medica può fare ben poco. Si chiede se il problema di Aladina abbia più a che fare con la mente che con il corpo. In passato per un periodo si era interessato alle discipline psichiatriche e aveva letto di psicologia. Aveva anche partecipato a un convegno degli psicologi italiani. Aveva acquistato delle pubblicazioni specialistiche. I colleghi medici lo avevano sempre criticato per la sua attenzione verso una disciplina così vaga, priva di veri fondamenti scientifici. Non si insegnava nemmeno più all’università. Astorre era andato ancora a qualche riunione fra professori psicologi, finché all’ultima aveva sentito parlare più di idee che dei veri problemi dell’uomo: il progresso sociale, la potenza della nazione e quell’astruso concetto di “razza” che Astorre fa fatica a far entrare nella sua cura dei pazienti. Per precauzione ha accantonato questi interessi e piazzato i libri nella seconda fila, dietro ad altri di medicina generale e fisiopatologia.

Toglie i primi davanti e scorre le coste allineate. Estrae qualche testo, lo sfoglia e lo ripone scuotendo il capo. Improvvisamente gli viene in mente un volumetto che un suo amico medico gli ha spedito da Tripoli mesi prima.

Erano anni in cui l’Italia si costruiva il suo impero coloniale e molti che non trovavano sbocchi professionali in patria li cercavano nei Paesi di nuove conquiste.

Un libro recente che in Italia non era mai arrivato e che lui aveva solo scorso velocemente trovandolo interessante, ma non abbastanza da giustificare un’attenzione approfondita contraria al clima politico e culturale del momento. Ma ora le cose sono cambiate, almeno per il dottore.

È di un medico svizzero, un certo Carl Gustav Jung, ed è in tedesco. Astorre conosce quella lingua, è andato più volte in Germania chiamato a convegni internazionali e scambia spesso corrispondenza con i colleghi di quel Paese.

Il libro racconta dei sogni fatti dai bambini. Due testimonianze in particolare lo colpiscono. Una ragazzina di dieci anni cade nelle acque di un lago da cui ode uscire un suono armonioso. Un bambino di sette vede nell’acqua il cadavere di una fanciulla mentre sente nell’aria un sussurro confuso.

Il dottor Jung sostiene che i sogni hanno significati simbolici e che l’acqua rappresenta l’inconscio. Sono concetti complicati anche per Astorre, una materia nuova che occorrerebbe studiare. Eppure…

Può essere che Aladina abbia sognato? E in questo caso, quale può essere il significato del suono della campana?

Astorre prende appunti su un piccolo taccuino che porta sempre con sé. Si accorge che è notte fonda solo quando sente il rintocco della Gravona seguito dai due dell’Argentina: l’una e mezza. Comincia a essere stanco. Ha trovato informazioni importanti ma le sue conoscenze non sono abbastanza approfondite per capire se fanno al caso suo. Si alza, ripone nello scaffale il libro e intasca il taccuino. Ne parlerà domani col Professore.

La casa è nel buio e nel silenzio. Sale le scale attento a non fare rumore, socchiude la porta della camera di Aladina. Solleva un poco la lumiera e attraverso la luce flebile guarda il letto dove la figlia dorme già da diverse ore, una piccola sagoma sotto le spesse coperte. Avverte solo il respiro, lungo e regolare. Di nuovo scrolla il capo in un gesto di inquietudine e impotenza e piano richiude la porta.

Mentre va verso la sua stanza, sente un uscio scricchiolare e un fruscio. Si volta.

Una figura sottile e scura nel buio del corridoio. Gira la lumiera e nell’alone pallido vede Cleonice. Ha i capelli un po’ scomposti e indosso, sopra la camicia da notte, il cappotto grigio che porta a messa la domenica.

Si avvicina. Ha anche lei il viso stanco. Appoggia una mano sul braccio di Astorre.

«Dottore» dice a voce bassa, «ho riconosciuto il rintocco. E non suona il sabato.» Sospende per qualche secondo, come cercasse le parole adatte. Si sente a disagio ogni volta che è costretta a parlare a lungo in italiano. Specialmente con il dottore, del quale ha sempre avuto una particolare soggezione. «Il doppio che si suona da noi è diverso da quello delle altre chiese, dottore, e se Aladina lo ha imitato così bene… Insomma, sono molto preoccupata per quella bambina. Anche Gialdiffa…»

Astorre si passa la destra sulla fronte e sugli occhi. Dice: «Anch’io» e si allontana a capo chino, stancamente, borbottando: «Adesso vai a dormire, Cleonice, che anche tu ne hai bisogno».