Capitolo secondo
Dove conosciamo Gilberto, Milcare, la puledrina Morella, il bicchiere del benvenuto, Tina la padrona dell’osteria, piazza Vittorio Giosuè XV, Argentina, Tintinnabula e Gravona. Anche il liguarro, animale che si fa vedere solo da qualcuno, e la formula Oga magoga cadorta.
«Non so se mi piace» sussurra Aladina.
«Ti piacerà, ne sono certo. Come piaceva a Gialdiffa.» Un cenno del capo verso il cartello stradale. «Eccoci arrivati.»
Il cartello è di un azzurro pallido che forse era blu quando lo montarono, chissà quanti anni fa, e le lettere sono scritte in un grigio che doveva essere bianco candido.
Aladina legge il nome del paese e finalmente torna a sorridere.
«Esiste davvero! Pensavo che la mamma scherzasse.»
Sorride anche il dottor Astorre.
Un altro paio di curve in salita e arrivano alle prime case del paese, lasciandosi alle spalle e in basso le acque chete del lago. Case a un piano con dietro un orto, il pollaio, la conigliera, lo stalletto, ovvero la piccola costruzione di pietra dove, ancora distanti cento passi, si sente grugnire il maiale e si apprezza un aroma che alcuni si ostinano a ritenere gradevole. Forse per via del prosciutto che verrà in seguito.
Insomma, ogni casa ha il necessario per la sopravvivenza degli abitanti.
Fra una casa e l’altra, un grande cartello di lamiera fissato a due pali di legno avverte: GILBERTO MECCANICO MACCHINE AGRICOLE E CIVILI. La scritta è stata fatta a mano e da una persona che non guarda troppo per il sottile.
«Se la vede suor Pallidina…» sorride la bimba.
«Suor Pallidina?»
«Si chiama suor Angela, ma noi la chiamiamo suor Pallidina. Insegna bella calligrafia, con il chiaroscuro e le lettere uguali. Insomma, una barba.»
Sotto la scritta, una freccia, anche questa tracciata alla meglio, chiarisce che quanto detto nel cartello si trova a 30 metri sulla destra. Proprio nel cortile dove la Balilla va a fermarsi. Appoggiati al muro dell’officina, ci sono una sfilata di taniche per la benzina, quattro pneumatici accatastati uno sull’altro e alcuni pezzi di ricambio d’automobile. Un trattore agricolo, che ad Aladina sembra enorme, è parcheggiato al centro dello spiazzo. Deve essere in riparazione. Infatti il motore è scoperto e sventrato e alcuni pezzi sono posati accanto al mostro, non si capisce se sulla terra battuta o su altro materiale, tanto la pavimentazione è unta di olio da macchina mista a benzina.
Il dottor Astorre non fa a tempo a scendere che il meccanico esce dal buio di un ampio locale dove, evidentemente, stava lavorando.
«Dottor Astorre» grida, «vi aspettavo. Fatto buon viaggio?»
«È Gilberto» spiega il padre ad Aladina. «In paese lo chiamano Sicuro, fa il meccanico e lasceremo la nostra Balilla nella sua officina.» Scende, batte la mano sul cofano dell’auto e: «Gran macchina, Gilberto, e viaggio comodissimo» dice.
«Sono sicuro, con una macchina così…»
Il dottore si guarda attorno: «Non vedo il calesse di Milcare».
«Dottore, ha detto che verrà a prendervi e sono sicuro che verrà.»
«Se non si sarà ubriacato.»
«Mai quando è fuori col cavallo. Di questo sono sicuro» e Aladina capisce perché in paese lo chiamino Sicuro.
Nell’attesa del calesse che arriverà “di sicuro”, il dottor Astorre scarica dalla Balilla alcuni pacchi: «Le cose che ci serviranno subito» spiega alla figlia. «Il resto lo verrà a caricare Milcare con il biroccio e i buoi.»
Ed ecco Milcare, ecco il calesse ed ecco Morella, una puledrina dal mantello nero e lucido e con una stellina bianca in mezzo alla fronte. Sempre in movimento: il muso di qua e di là e i grandi occhi che passano da una persona all’altra quasi volesse capire se fidarsi o no; gli zoccoli impazienti battono di continuo il terreno; la coda frusta l’aria, i fianchi e le mosche; e la criniera ballonzola a destra e a sinistra.
Insomma, una meraviglia e Aladina non può non accarezzarle la stellina, se pure con precauzione. Del suo timore si accorge Milcare. Lascia di caricare il calesse e le va vicino:
«Sei Aladina?» e al cenno della ragazza: «Conoscevo tua madre, l’ho tenuta in braccio. Anche a lei piacevano i cavalli». Passa la mano sul muso di Morella. «È buona, le piace essere accarezzata sopra le narici» e anche Aladina accarezza la puledra con più confidenza.
Passati dalla Balilla al calesse, riprendono la statale lasciandosi dietro l’officina di Gilberto.
«Dottore, vorrei offrirvi il bicchiere» dice Milcare.
Il dottor Astorre annuisce. Lo sa: ai nuovi arrivati è uso offrire il bicchiere del benvenuto. Lo ha sperimentato ogni volta che è venuto in paese, sempre con Gialdiffa, prima di sposarsi e dopo. Per cui…
Per cui, appena il calesse, lasciato l’asfalto della statale, ha fatto una decina di metri ballonzolando sui ciottoli della piazza, Milcare tira le briglie. E Morella si ferma proprio davanti all’osteria della Tina.
«L’hai abituata bene la cavallina» dice il dottore.
«Purtroppo non capitano molti visitatori in paese e così, quando passo davanti all’osteria senza nuovi arrivati, mi fermo e il benvenuto lo do a me stesso.»
Scendono e si avviano all’osteria.
Aladina no. Aladina rimane immobile e si guarda attorno.
«Tina» dice Milcare, appena entrato nell’osteria, a una donna dietro il bancone. I cinquant’anni li ha passati da parecchio. Quanti in realtà, difficile dirlo. «Per il dottore e per il sottoscritto Milcare del Podetto, il bicchiere del benvenuto. Per la piccola una gazzosa.»
«Di quale piccola parli, Milcare? Sei già ubriaco?»
Infatti “la piccola” non è entrata.
Scuotendo il capo e borbottando chissà quali improperi agli ubriaconi, la Tina sparisce nel buio del locale dietro il bancone. Sta via un paio di minuti e ritorna. Con cura posa sul bancone un fiaschetto impagliato e due bicchieri e, sempre con precauzione, come se non volesse perdere nemmeno una goccia del prezioso liquido, riempie per metà due bicchieri.
Il vino ha un bel color rubino e rilascia un aroma che Tina, estasiata, cattura col naso.
Finito di versare, la donna raccoglie dal collo del fiaschetto una goccia di liquido con l’indice, che subito si passa sulle labbra.
Da quando sono scesi dalla Balilla, in piazza, Aladina non ha fatto che guardarsi attorno. Cerca angoli, case, scorci di panorama dei quali Gialdiffa le ha raccontato con una tale precisione che li riconosce alla prima occhiata. Come questa piazza. Che non è una vera e propria piazza, ma uno slargo della statale davanti alla chiesa e al palazzo comunale. È la scritta sul muro del Comune che la definisce piazza. Esattamente, piazza Vittorio Giosuè XV.
È come se l’avesse vista da sempre.
La chiesa con il sagrato in leggera salita verso l’ingresso e pavimentato con ciottoli lucidi e arrotondati per il calpestio di secoli; il campanile basso e tozzo costruito con grosse pietre di fiume e le tre campane di varie misure che si vedono attraverso i finestroni sotto la cuspide.
Se glielo chiedessero, Aladina potrebbe anche dire il nome delle tre campane. Argentina, la più piccola; Tintinnabula la mediana; Gravona la più grossa e pesante.
Di fronte alla chiesa, il palazzo comunale con la facciata decorata da stemmi di arenaria. «C’è anche quello della mia famiglia» le raccontava spesso Gialdiffa. «Lo vedi subito: il primo vicino all’angolo sinistro della torre comunale.»
Lo trova e si ferma a guardarlo. Ha la forma di uno scudo e le figure in rilievo che contiene sono consumate dalle intemperie, eppure lei ci vede «… in alto una mezzaluna sdraiata con sopra, come se fosse in una culla, una stella. Io sono la luna e tu la stella. Al centro c’è un animaletto che nessuno sa cosa sia. Per me è un liguarro» le spiegava Gialdiffa.
«Che animale è il liguarro?» chiedeva sempre la bambina.
«Non si può raccontarlo» ripeteva Gialdiffa continuando in quello che ormai era diventato un loro gioco. «Un giorno te lo farò vedere. Ce ne sono nel mio paese, ma si fanno vedere solo da chi vogliono loro. Stanno sulla riva del lago, distesi al sole, e hanno il colore dell’erba…»
«Aladina!» chiama il dottor Astorre dalla soglia dell’osteria.
La ragazzina esce dal sogno e di corsa raggiunge il padre. Entrano mentre la Tina dice a Milcare:
«Se quello che mi hai portato è il dottore della Gialdiffa, la piccola è la figlia, quella con un nome strano che non ricordo neppure più» e sorride alla ragazzina scoprendo più gengive che denti.
«Il mio nome non è strano, signora Tina, e me lo ha dato la mamma.»
«Hai ragione: Aladina è proprio un bel nome» e la Tina ci fa una risata. «Visto? Credevi che fossi una vecchia rimbambita e invece ricordo tutto di te, di Gialdiffa e di Astorre, che sarebbe poi tuo padre.»
La titolare dell’osteria fa un altro giro col fiaschetto, sempre con moderazione, e mette sul tavolo una bottiglietta chiara che sembra piena d’acqua. «Gazzosa per Aladina.» Svita il tappo e porge la bottiglietta alla ragazzina. «La gazzosa si beve a collo.»
Aladina porta la bottiglietta alle labbra e la solleva per far uscire il liquido che sembra acqua.
Non una goccia. Eppure la bottiglietta è piena.
La gira con cautela in modo da far uscire il contenuto.
Non una goccia.
La guardano e ridono, i tre.
«Dai a me» dice il padre. «Ci vuole il mignolo magico.» Prende la bottiglietta con la sinistra, con il palmo della destra accarezza il vetro e, mentre il mignolo sfiora l’imboccatura, sussurra: «Oga magoga cadorta apri subito la porta».
Aladina sente un leggero sibilo, come di un sospiro, e riprende la bottiglietta che il padre le porge.
Un primo veloce sorso frizzante le stuzzica lingua e palato. «Ha funzionato» grida soddisfatta. «Come hai fatto?»
«Te l’ho detto, ci vuole il mignolo fatato.»
«Buona» dice Aladina. Guarda in controluce e vede una pallina che si muove sul fondo della bottiglia. «Cos’è?»
«Fa parte della magia e si chiama fisica.»
Anche i due uomini, Astorre e Milcare, sorseggiano dai loro bicchieri il prezioso vino dal vivace color rubino. «Ottimo» dice il dottore. «Non lo ricordavo così buono.»
«È il meglio che si produce giù, in valle, e diventa vino del benvenuto solo quando è speciale» spiega la Tina con serietà. Il discorso è importante e il tono adeguato. Mette il tappo di sughero sul fiaschetto e lo riporta nel retro.
«Quanto ti devo, Tina?» chiede Astorre.
La titolare lo guarda con occhi severi. «È da molto che mancate dal paese, vero, dottore?»
«Sì, e la mia povera Gialdiffa non me lo perdonava.»
«Non ricordate più che il bicchiere del benvenuto non si paga? Ci mancherebbe che lo facessi pagare.»