Capitolo dodicesimo
Dedicato a chi gioca in piazza, a chi va al lago, a chi non manda giù soprusi e a chi sente le campane.
È un pomeriggio assolato e nella piazza del Comune i ragazzi giocano ai quattro cantoni. Tre occupano i cantoni, uno sta in mezzo. Manca un altro per il quarto angolo, ma fa niente. Ci hanno piazzato una sedia e Drago ha deciso che quello è il suo trono e nessuno lo può toccare. Sopra ci sono le monetine di rame per giocare a zacágn e la fionda. Oltre a lui, agli angoli stanno Pulce e Biondo. In mezzo hanno messo Sandrona, che, come dice il nome, è una ragazza bella robusta, supera di almeno un buon palmo le bambine della sua età e gioca sempre coi maschi.
Gufo passa, come tutti i pomeriggi diretto fuori paese, verso il bosco. Si ferma un po’ distante a guardare. Non capisce cosa ci sia di divertente nel contendersi un angolo di piazza, con tutto lo spazio che c’è attorno.
Anche per Drago i quattro cantoni senza il quarto è poco divertente. È uno che si annoia subito se non c’è movimento. Fa un cenno con la mano per bloccare Pulce che vorrebbe scambiare angolo con lui e saltella incapace di star fermo per più di due secondi. Sandrona è immobile, gambe larghe, un po’ piegata in avanti con le mani sulle cosce pronta a scattare.
Biondo aspetta con un sorrisetto strafottente. Ha la faccia sporca, i capelli sudati e la maglia piena di macchie come tutti gli altri bambini, ma lui sa di essere il più bello del gruppo. Suo padre glielo ha fatto capire.
«Stai venendo su un bel rappresentante della razza italica» gli ripete con orgoglio.
Drago guarda Gufo e gli grida: «Sei capace di spostare quella sedia? Dopo puoi fare il quarto angolo».
Gufo non si muove, batte le palpebre sotto l’abbaglio del sole per cercare di mettere bene a fuoco i quattro.
«Cos’è? Non sei capace?» gli fa Drago.
Il ragazzino appoggia a terra la sua fiaschetta con l’acqua, si toglie la mano di tasca e va verso la sedia. La solleva ma quando la riappoggia un po’ più indietro una gamba s’incastra nell’incavo fra due ciottoli, la sedia si sbilancia e fionda e monetine scivolano giù dal pianale.
Drago si irrigidisce. «Ma che, sei scemo? Mi hai buttato tutto in terra!» dice con voce strozzata.
Gufo si china per raccogliere e rimettere a posto.
Drago gli è davanti.
Gufo sta per prendere da terra l’ultimo centesimo fra pollice e indice quando l’altro gli piazza la punta del piede sulle dita e comincia a premere.
Gufo rimane accucciato senza tirare su lo sguardo.
«Adesso chiedi scusa!» gli grida l’altro.
Fa male, fa un male terribile, gli sembra che la falange si spezzi.
I due ragazzini si avvicinano, Pulce saltellando, Biondo mani in tasca e senza fretta. Sandrona si passa la manica sotto il naso per togliere un po’ di moccolo e fissa la scena dal centro della piazza.
«Chiedi scusa!» ripete.
Gufo suda, troppo anche per il caldo. Ha un groppo in gola.
Mormora: «Scusa».
Finalmente il piede si solleva.
Il dolore resta. Una fitta lancinante. Gufo si alza stringendosi l’indice con l’altra mano. Manda giù il groppo. Ha addosso gli occhi di Drago e degli altri, e non è una bella sensazione. Non capisce se è umiliato per quello che è successo o sollevato perché è finita.
Si gira e corre via.
Drago lo guarda sparire dietro l’angolo del Comune. Poi torna verso i suoi amici. Passando, con un calcio manda la fiaschetta di Gufo in frantumi, sotto le scale del sagrato. Ci penserà il sacrestano a raccogliere i pezzi di vetro.
Sull’acciottolato rimane la monetina impolverata che balugina nel sole rovente.
Dietro al Comune Gufo incrocia Aladina che sta andando in piazza a cercare Teresotta e Fringuella. Vuole tornare con loro al lago “a sentire le campane”.
Si guardano per un attimo. Il bambino ha gli abiti disordinati come tutti gli altri e l’aria triste. Gli occhi però, grandi e scuri, le dicono qualcosa. Anche così, arrossati come di uno che ha pianto.
Due sguardi veloci.
Il bambino s’infila in un vicoletto e sparisce.
In piazza le amiche non ci sono. Aladina andrà al lago da sola. In realtà lì non si sente sola. Le piace starsene seduta a riva, la schiena appoggiata a un tronco, guardare l’acqua accarezzata appena da un venticello fresco, e scovare gli animaletti che, se stai fermo immobile abbastanza a lungo da mimetizzarti quasi con la corteccia, o con le rocce della costa, hanno abbastanza confidenza da uscire allo scoperto: una lucertola, un merlo o uno scoiattolo; a volte pure, se sei molto fortunato, un istrice. E le piace ascoltare i rumori del bosco, le foglie mosse da uccelli e insetti, le bacche che cadono al suolo, mentre da lontano arrivano, ogni tanto e portati dal vento, i suoni dei paesi affacciati sul lago.
Siede sotto quello che è subito diventato il suo albero preferito, la chioma bassa e folta le dà un senso di protezione. Abbraccia le ginocchia e chiude gli occhi. Respira l’aria umida e pulita, ascolta il rumore fresco dell’acqua contro le sponde.
All’ultimo suono se ne aggiunge un altro, meno nitido all’inizio, poi più distinto, più armonioso. Pulito come se uscisse dal lago e le acque gli avessero tolto ogni impurità. Un suono che non è della natura.
Gufo aveva fatto la stessa sua strada. Era corso a perdifiato fin fuori il paese e poi giù per la sterrata che conduce al lago, per buttar fuori quel misto di rabbia e mortificazione che gli dava le lacrime agli occhi. Ma anziché scendere subito sulla riva dalla prima radura, era entrato nel bosco e aveva continuato lungo il perimetro dell’acqua, incurante dei cespugli e dei sassi. Del resto è abilissimo a schivare gli ostacoli, i suoi piedi hanno la stessa sapienza delle zampe di cerbiatto. Finché, sfiancato dalla corsa, aveva rallentato e poi ripreso a camminare adagio, guardandosi intorno e respirando l’aroma del sottobosco. Era tornato sui suoi passi deciso a scendere al lago lungo un sentiero poco frequentato. Ma sul greto ha trovato qualcuno. La strana bambina che aveva bisogno della lumiera e leggeva brutte storie di ranocchi.
Accucciata con gli occhi chiusi sotto l’albero dalle bacche rosse, muove piano il capo come seguendo una musica. Gufo si ferma più vicino e si mette al riparo di un grosso arbusto di biancospino. Adesso sente anche la sua voce.
«Din don, din don dan, din don, din don dan…»
Gufo riconosce quel tipo di rintocchi.
Esce adagio dal nascondiglio e in quel momento Aladina s’interrompe e apre gli occhi. Si guarda attorno.
«Ma cosa fai?» le chiede.
«Ascolto le campane. Le senti? Din don, din don dan, din don, din don dan…» e accompagna con il capo la melodia.
Gufo tende l’orecchio, fa di no con la testa. La guarda strano per un attimo, poi si volta e s’infila dentro il folto del bosco.
Aladina richiude gli occhi. Il fresco del lago, i suoi profumi e il suono pulito delle campane le hanno dato una grande calma. Rimarrà ancora un poco a godersela. Almeno fino a quando le campane non smetteranno di rintoccare.