Capitolo ventisettesimo
Dove si racconta di uno strano bambino, o forse un animale, che si presenta alla finestra della stanza di Aladina e la invita a una passeggiata notturna; dove la bambina scopre un mondo sconosciuto alla ricerca del liguarro e che Barbaza non è quello che sembra.
«Vengo a trovarti domani sera» le aveva detto. «Ci vediamo alla Grandequercia.»
Puntuale come un orologio, la sera dopo, appena cala il buio, uno strano bambino animale si aggira fra i rami dell’antico albero. Arriva di fronte al davanzale di Aladina annunciato dal fruscio di frasche e dallo scricchiolio di rami ai quali lei non presta neppure attenzione, immersa com’è nella lettura.
«Ehi, bambina. Come ti chiami?»
Aladina sobbalza e si gira. «Ah, sei tu. Mi hai fatto paura.» Appoggia il libro, si alza e va al davanzale. «Il mio nome è Aladina. Il mio cognome…»
«Io sono Gufo» la interrompe lui. «Vieni che andiamo a fare un giro» e non è una domanda. È un invito al quale non si può rispondere: no, grazie.
Aladina pensa che è buio, che le è proibito andare da qualunque parte dopo il tramonto e che non le è permesso frequentare sconosciuti senza l’autorizzazione di un grande. Poi pensa che è una bellissima notte stellata, l’aria è tiepida e profumata e può guardare le lucciole e chissà quali altri animaletti notturni. Infila la maglia sulla camicia da notte, mette le scarpe e fa per andare alla porta.
«Ehi, Aladina. Per di qua» le dice Gufo indicando il ramo su cui siede.
«Per di lì? Ma non sono capace.»
«Sì che sei capace. T’insegno io» e per farle capire come sia facile fa dondolare il ramo della Grandequercia sul quale posa i piedi. Sparisce e ricompare tra le fronde come in altalena. Si ferma di nuovo all’altezza del davanzale.
«Facile. Vieni.»
La bimba sale sul davanzale, lui le prende la mano e le indica dove appoggiare i piedi e a quali rami aggrapparsi. Su alcuni rami occorre sedersi, su altri, abbastanza grossi, si può camminare. Così, gradino dopo gradino, lentamente, i due scendono la grande scala di quercia. Per arrivare a terra occorre lasciarsi penzolare da un ramo più basso degli altri e di colpo mollarlo senza paura. Gufo si lancia per primo e aspetta di sotto Aladina.
Ce l’ha fatta. È riuscita nell’impresa e si sente molto orgogliosa. Già ha voglia di raccontarlo. Ai suoi no di certo. Magari a Teresotta e Fringuella. Ma chissà, forse la prenderebbero per matta.
Ci penserà domattina.
Incontra Gufo tante altre volte, spesso di giorno, e allora è più facile, non deve nascondere niente ai grandi, deve solo dire che va a giocare, o a passeggiare, ed è fatta.
Ogni volta è una scoperta. Lungo le rive scoscese del lago, nell’intrico del bosco, giù per i calanchi che circondano il paese. Dappertutto paesaggi bellissimi, e animali nuovi e strani.
E la ricerca del più strano di tutti, quella specie di grande lucertola che Gufo chiama liguarro. Già sua madre Gialdiffa gliene aveva parlato promettendole di farglielo conoscere. Non aveva fatto in tempo. E anche il Professore era convinto della sua esistenza mentre lo individuavano nello stemma sulla facciata del municipio. Chi non ci credeva era Astorre, che continuava a parlare di un comune, grosso ramarro.
«Invece no» spiega Gufo. «È ramarro solo a metà, l’altra metà è liguar.»
Aladina ci pensa un po’ su. «Liguar?»
«Sì» risponde lui senza esitazione. «Ligurio.»
Lei non fa in tempo a chiedere altro che Gufo, come suo solito, sta già sgambando giù per il sentiero tortuoso.
«Vieni» dice. «Andiamo a cercarlo. Si vede bene col buio, come quelle statuine bianche della madonna che se spegni la lumiera si illuminano loro. Solo che il liguarro è tutto verde, per questo di giorno si confonde con l’erba.»
Si muovono guardinghi negli spiazzi intorno al lago sussurrando la formula magica:
Liguar, liguar sèlta fora se no a t’amazz,
Liguar, liguar sèlta fora se no a t’amazz…
Ma il liguar non ha paura d’essere ammazzato e non salta fuori, almeno questa volta.
Stanchi e con gli occhi arrossati si sdraiano a terra a godersi l’umidità dell’erba. Si assopiscono ascoltando le piccole onde infrangersi contro la riva.
Ogni passeggiata è un’avventura. Oggi prendono un nuovo sentiero fra i calanchi. Nuovo per Aladina, che Gufo li conosce tutti:
«È ora di fare merenda» dice lui. Posa sull’erba il cestino pieno di more di gelso appena raccolte. Sotto di loro, alle pendici della Donnamorta, si stende il paese. O meglio, si aggrappa al monte, tanto gli edifici, da quella prospettiva, sembrano addossati e incastrati l’uno nell’altro. La visione è bellissima, tersa e lucida nel tramonto che cala. Alle spalle del paese, a mezzacosta, si individua la sagoma scura del Palazzaccio. Da così distante, non ha l’aria tanto minacciosa.
«Sai chi è Barbaza?» domanda Aladina al suo compagno.
Gufo inghiotte una manciata di more e si passa il dorso della mano sulla bocca spargendo il succo nero fin sulle guance. «Sì. È un mio amico.»
Aladina lo guarda sbalordita. «Ma è cattivo! Io l’ho visto!» le esce come un grido.
Gufo ride mostrando i denti sporchi dell’impasto di polpa e semini.
«Non è cattivo.» Si pulisce le mani nei calzoncini e fa per alzarsi. Aladina lo trattiene:
«L’ho visto! Mi è corso dietro una volta che ero andata al Palazzaccio. È grande come un gigante, con quattro braccia!»
Gufo si accuccia accanto a lei e le sussurra all’orecchio:
«Se non lo dici a nessuno ti porto da lui che ti dice un segreto.»
La bambina esita un istante. Il ricordo della disavventura al Palazzaccio è ancora molto vivo. Ma la fiducia in Gufo è ancora più forte.
«Va bene» sussurra a sua volta nell’orecchio del compagno.
Arrivati davanti al pesante cancello aperto del parco, Gufo gira a sinistra verso il retro della costruzione. Senza una parola, Aladina lo segue. Costeggiano la muraglia di recinzione, che lascia vedere solo il secondo piano e la soffitta dell’edificio. Un intrico di edera grigioverde striscia sulla parete protendendosi verso l’alto come sottilissime braccia che vogliono abbrancare il tetto. Il fresco è pungente e Aladina si infila il giubbino che finora aveva portato legato in cintura.
«Ma l’ingresso era là» fa lei indicando dall’altra parte.
Il compagno non risponde e la prende per un braccio. Si aprono la strada fra un viluppo di erbacce e ortiche che graffiano i polpacci nudi, e raggiungono un piccolo cancello, anche lui avviluppato di piante, chiuso da una grossa catena arrugginita.
«Barbaza!» chiama Gufo a mezza voce. «Ehi? Ci sei?»
Aladina sente il rumore di rami e foglie spezzate che aveva già sentito alla sua prima visita, poco prima che comparisse il gigante. Spaventata, fa per ritrarsi ma la mano di Gufo la trattiene.
Un’ombra si avvicina e di colpo contro il cancello si staglia il corpo enorme del mostro barbuto, le mani saldamente abbrancate alle sbarre. Due occhi di fuoco li scrutano. Aladina cerca di divincolarsi e piagnucola: «Dài, lasciami!», quando il gigante inaspettatamente sorride e dice:
«Ah, t’ì tè.»
Apre il cancello e Gufo sgambetta svelto dall’altra parte. Lo segue Barbaza.
Passato lo spavento iniziale, Aladina si accoda. Ha ancora il batticuore e avanza cautamente lungo lo stretto sentiero lastricato coperto di muschio ed erba che spunta fra le crepe. Barbaza li porta a una casupola bassa, presa fra il fianco del monte e il retro del Palazzaccio e fatta della sua stessa pietra grigia. Ad Aladina ricorda la rimessa degli attrezzi nel podere di suo padre. Dentro è già buio, non fosse che per la lumiera appoggiata su un’esile stufa di ghisa. Sparge una luce dorata che nasconde il grezzo delle pareti e lo sporco del pavimento e illumina il tavolo massiccio al centro dell’unica stanza, apparecchiato di scodella cucchiaio bicchiere e un fiasco di vino.
C’è un buon odore di zuppa calda. Aladina si accorge di aver fame.
«Dóvv ai n’è par ón ai n’è anc par trì» dice il gigante aggiungendo due scodelle, e versa dal tegame un brodo denso e profumato di pasta nei fagioli.
Mangiano senza parlare. Si sente solo il rumore dei cucchiai contro le stoviglie e delle loro bocche che ingurgitano e masticano. Soprattutto quella di Barbaza, che succhia e rimescola come una pompa idrovora. E si sente il ticchettio di una sveglia su un ripiano di fianco alla stufa. Una sveglia strana, c’è il disegno di una specie di grande occhio spalancato al centro del quadrante e attorno mancano dei numeri. Segna le quattro e trenta. “Impossibile” pensa Aladina: sono partiti di casa che saranno state le quattro e hanno girato per più di due ore.
Con lo stomaco pieno ritorna anche un po’ di coraggio. Aladina si rivolge al gigante:
«Perché mi siete corso dietro l’altra volta, signor Barbaza?»
«Barbaza. Solo Barbaza. È da un po’ che non sono più signore.»
Sospira, o meglio sbuffa come un mantice dalle grosse narici pelose, e si alza. Torna a tavola con un’ampolla piena di un liquido vermiglio e ne versa un goccio ai due bambini e un buon mezzo bicchiere per sé. Trangugia soddisfatto. Poi finalmente risponde:
«Non ti correvo dietro. A vléva dscorrer. Ti volevo dire che non si deve entrare nel Palazzaccio. È molto pericoloso. Soprattutto per un bambino.»
Si interrompe e guarda Gufo. Il bimbo fa di sì con la testa: «Le ho promesso che se veniva glielo raccontavi».
Il gigante sospira, anzi sbuffa di nuovo.
E incomincia.