Prologo

Dove si narra del dottor Astorre e di Gialdiffa, sua moglie; di come i due avevano discusso sul nome da imporre alla neonata e di altre amenità. Insomma, cos’è accaduto prima che inizi la storia.

«Non possiamo chiamarla Aladina» aveva detto il dottor Astorre, piuttosto scandalizzato dalla proposta.

Gialdiffa, sua moglie, aveva guardato la minuscola creatura che le stava accanto, sul letto, accoccolata dentro la cuscina, al caldo. Era nata da poche ore e, dopo aver fatto sentire la sua voce sotto forma di un gorgoglio simile a una risatina con gridolino finale, forse di gioia, s’era beatamente addormentata, sicura che non le sarebbe accaduto nulla di brutto. L’aveva guardata, le aveva sorriso e aveva chiesto al marito:

«Perché no? È un bellissimo nome. Ricorda il mondo della fantasia. Poi…» e qui la neomadre aveva accarezzato con lo sguardo la sua creatura, «poi sarebbe in armonia con il cognome, non credi?»

Il dottor Astorre la guardò sorpreso. Era un bravissimo medico, ma la professione lo aveva assorbito completamente non lasciandogli molto tempo per le letture.

Capito che Astorre non ricordava Le mille e una notte, Gialdiffa gli aveva rinfrescato la memoria: «Il nome del medico del gran visir è Duban, come il tuo cognome» e a quel punto aveva preso il volume dal comodino, lo aveva aperto alla XIII notte, dove c’era il segnalibro, e gli aveva letto il brano finale della novella:

«Sire» replicò il visir, «io sono perfettamente edotto di ciò che ho l’onore di rappresentarvi. Non riposate ormai più su una pericolosa fiducia. Se vostra maestà dorme, si desti; io torno a ripeterlo, il medico Duban non è partito dal fondo della Grecia, sua patria, né è venuto a stabilirsi alla vostra corte se non col disegno di eseguire l’orribile attentato che menzionai.»

«No, no, visir» interruppe il re, «son certo che quest’uomo, da voi trattato qual perfido e traditore, è il più virtuoso e il migliore degli uomini, né avvi persona al mondo ch’io ami più di lui. Voi sapete con qual rimedio, o piuttosto per qual miracolo egli m’ha guarito dalla lebbra; e se attentasse alla mia vita, perché me l’ha salvata? Non aveva che ad abbandonarmi al mio morbo; io non poteva sfuggire la mia sorte, e la mia vita era già mezzo consunta. Cessate dunque dal volermi insinuare ingiusti sospetti: in vece di ascoltarli, vi avverto che da questo giorno farò al grand’uomo, per tutta la sua vita, una pensione di mille zecchini al mese; con ciò, quand’anche dividessi con lui tutte le mie ricchezze, e persino i miei stati, non lo pagherei abbastanza di quanto fece per me. Ora capisco, la sua virtù eccita la vostra invidia; ma non crediate ch’io mi lasci ingiustamente prevenire contro di lui…»

Aveva sorriso anche Astorre. Sì, in quel momento aveva ricordato. Aveva replicato: «Tutto quello che vuoi, ma non esiste il femminile di Aladino» aveva tentato di spiegarle.

Gialdiffa ci aveva pensato su e poi: «Mario e Maria, Carlo e Carla, Gino e Gina, Federico e Federica, Francesco e Francesca…». Avrebbe proseguito per l’intera sfilza di nomi al maschile e femminile se Astorre non l’avesse interrotta con:

«Basta così. Chiamala come vuoi», aveva accarezzato la guancia della neonata e aveva lasciato la camera mormorando: «Povera piccola, con che nome affronterai la vita».

Da quel preciso momento è esistito il femminile di Aladino.

Era cresciuta bene Aladina e nessuno, parenti, amici e conoscenti, s’era più meravigliato per il suo nome. Certo, all’inizio, quando Gialdiffa, a richiesta, lo sussurrava, erano sorrisini e stupore. Per la verità, al primo contatto i più capivano Aldina e allora la madre insisteva sulla a mancante:

«Aladina, Aladina, mi raccomando.»

Parenti e amici ci avevano messo un po’ ad abituarsi, ma poi era diventata una cosa normale.

La piccola era cresciuta bene nella villa che il dottor Astorre aveva ereditato dal padre, nella prima periferia della città, là dove la pianura prende a salire leggermente e si trasforma in collina. Aveva cominciato con il barcollare, l’inciampare sbucciandosi le ginocchia sulla ghiaietta del giardino, poi correndo assieme alle altre bambine delle ville accanto.

A sei anni l’avevano iscritta alle elementari nel collegio delle suore canossiane, dove le ragazze potevano semplicemente frequentare o restare ospiti per tutti i mesi di scuola. Aladina rimaneva per la mattinata. Gialdiffa non avrebbe mai sopportato di privarsi della piccola per l’intera giornata, figuriamoci per un anno, se pure scolastico.

Aveva seguito il programma, a volte interessata a volte meno, come capita a tutti gli scolari. Non aveva molta simpatia per la musica, l’uncinetto e, soprattutto, per le buone maniere che avrebbero fatto di lei un’ottima madre di famiglia. Aveva più voglia di giocare all’aria aperta e quando le suore parlavano con Gialdiffa del suo disinteresse per le attività femminili, questa sorrideva e ricordava che anche a lei, da piccola, piaceva correre sui prati, passeggiare lungo i sentieri nel bosco, lassù, nel paese dov’era nata. Ancor più le piaceva ascoltare le campane, seduta sull’erba sotto le fronde del grande albero del fuso profumato di ravanello, mentre le api, nel silenzio della montagna, ronzavano numerosissime attorno ai tantissimi piccoli fiori di colore bianco crema, produttori di buon nettare.

Ecco, Gialdiffa avrebbe voluto portare Aladina a visitare il suo paese natale e farla sedere con lei sotto l’albero del fuso, sulle rive del lago. Era certa che anche la piccola avrebbe sentito le campane.

«Se tu vedessi il mio paese» le diceva spesso, «ne resteresti incantata.»

«Perché lo hai lasciato?» chiedeva allora Aladina.

«Ho incontrato tuo padre e mi sono innamorata» e davanti all’amore la piccola sorrideva come se avesse saputo di cosa si trattava.

«Perché non mi ci porti?» chiedeva allora al padre.

«Un giorno o l’altro ci andremo.»

Un giorno o l’altro ci andremo… Un giorno o l’altro ci andremo… ma c’era sempre un contrattempo che impediva la partenza per il paese di Gialdiffa: o si era ammalato il signor Prefetto che aveva chiesto la visita urgente del dottor Astorre, o erano arrivati dall’estero alcuni medici per un consulto con il dottor Astorre, o un importante paziente si era improvvisamente aggravato e il dottor Astorre non poteva assentarsi, o il dottor Astorre doveva presentare una relazione al congresso medico della città…

Così erano passati dieci anni e il paese di Gialdiffa era diventato una specie di luogo immaginario e irraggiungibile che alimentava la fantasia di Aladina.

«Ti ci porterò» continuava a ripetere il padre. «Un giorno o l’altro vi farò salire sull’auto e vi ci porterò. Appena avrò un attimo di tempo…»

Purtroppo il destino non aspetta i comodi degli uomini: non lo riguardano i malanni del signor Prefetto, i consulti, gli aggravi e i congressi. Va avanti per la sua strada.

E la sua strada passava da Gialdiffa.

Una brutta notte aveva bussato alla casa del dottor Astorre, nessuno gli aveva aperto, era entrato…

Il destino non si ferma davanti ad alcun ostacolo. Nemmeno le porte chiuse.

… era entrato e si era portato via Gialdiffa.

Al dottor Astorre non erano serviti la scienza, l’esperienza, l’amore e tutto ciò che gli uomini credono di possedere e conoscere. Aveva salvato tante vite, ma non quella di sua moglie ed era la sua disperazione più grande.

Aladina avrebbe compiuto dieci anni dopo tre giorni. Un bruttissimo compleanno.

«Aladina, ho deciso che appena finiranno le scuole andremo al Paese Nuovo.»

«Che bello, babbo. Finalmente.»

«Sì, finalmente» e la ragazzina aveva sentito un poco di tristezza nella voce del dottore.

«Come mai hai pensato di andarci?» aveva chiesto lei sottovoce.

«L’ho promesso a tua madre prima che…» e non aveva finito. Un groppo gli aveva chiuso la gola. Eppure erano già passati sei mesi dalla morte della moglie. Scacciò il pensiero. «Dunque, tu stai per finire le elementari e sarà il mio regalo a te e alla mamma.»

La festa di fine anno scolastico era capitata di sabato. Saluti e abbracci.

«Dove passerai le vacanze?»

«Al mare, e tu?»

«In montagna, nel paese di mia madre, finalmente.»

«Beata te.»

«Mi scriverai?»

«Certo. Troverò una cartolina con il panorama del paese…»

«Come si chiama?»

Aladina sorrise, come faceva ogni volta che la madre pronunciava il nome antico del suo paese. Il nome antico, non quello che usavano gli abitanti, per nulla soddisfatti del nome che figurava sulle carte topografiche e che veniva dagli antichi romani e forse ancora prima, dagli etruschi.

«Allora, come si chiama?»

«Gli abitanti lo chiamano Paese Nuovo per distinguerlo dal Paese Vecchio. Ma non sono i veri nomi.»

La spiegazione poco chiara lasciava nell’amica la curiosità di sapere come accidenti si chiamasse il paese. Aladina, però, era molto decisa: mai e poi mai, in presenza delle suore, avrebbe pronunciato quel nome per la seconda volta. La prima si era vergognata abbastanza.

Ci avevano messo una settimana a preparare le cose da portare in montagna e alla fine nell’atrio della villa stavano accatastati pacchi, valigie, cassettoni e, cosa che la bambina aveva trovato strana, gli strumenti di lavoro del padre.

«Perché tante cose, babbo?»

«Potranno servirci.»

«Anche gli strumenti del tuo ambulatorio?» Il padre non aveva risposto. Lei aveva dato un’altra occhiata al materiale in attesa di trasloco e aveva concluso: «Non ci starà tutta quella roba sulla Balilla».

«Passerà un camion a caricarla» e Aladina aveva pensato che il lavoro fatto dai facchini sotto la direzione del giardiniere sarebbe stato inutile. A farla lunga, sarebbero tornati in città per i primi di settembre, quando sarebbero ricominciate le scuole e lei avrebbe dovuto prepararsi per le medie.

Le medie, accidenti!

Di già?