Capitolo trentottesimo

Comincia con la malinconia di Aladina e il diario di Gialdiffa; prosegue con la scoperta della biblioteca incatenata del Professore mentre sotto la superficie del lago accadono cose misteriose. Come le passeggiate di anime né morte né vive e altri misteri di Paesangà.

La notte Aladina non riesce ad addormentarsi, sente la fatica di quella giornata piena di avvenimenti e discorsi per lei incomprensibili. Ci sono anche la stanchezza per essere stata tante ore al centro dell’attenzione dei grandi ripetendo ancora la storia, per lei semplicissima, delle campane e la tensione per l’incontro con quello strano scienziato e le sue macchine registrasuoni.

Il mattino non si alza dal letto. Cleonice, preoccupata, le misura la febbre. Ha qualche linea.

«Niente di grave» sentenzia Astorre. «È la tensione a cui è stata costretta. Lasciala riposare e portale su il pranzo.»

La febbre sparisce presto ma Aladina si sente triste. Non ha voglia di uscire, soprattutto di vedere di nuovo il lago, e neanche il pensiero del suo albero del fuso riesce a scuoterla. Quando Gufo, nel pomeriggio, dalle fronde della Grandequercia, la invita a fare un giro, risponde che non le va, che è stanca.

Passa il tempo in camera, a giocare e leggere. Specialmente il diario recuperato dal baule di Gialdiffa in soffitta.

È come se leggesse una storia. Racconta dei luoghi che anche lei ha esplorato assieme a Gufo, e che ormai conosce da cima a fondo. Le piace rivederli con gli occhi di Gialdiffa bambina. Ci sono descrizioni belle, che la commuovono, come ad esempio la volta che Gialdiffa con una sua amica, sotto l’albero dai frutti rossi, ha cercato di costruire il bastone del comando. Altre buffe come la descrizione del liguar.

Scopre una cosa di cui neppure Gufo forse è a conoscenza: l’animaletto dalla pelle verde e lucida è dotato di due piccole ali, sottili e frastagliate, simili a quelle di un drago. Gialdiffa ha anche fatto un disegno a matita, ma sembra più un incrocio fra un cane bassotto e una farfalla che il liguarro che Aladina si immagina.

Poi ci sono descrizioni brutte, come quella del gigante matto che al Palazzaccio correva contro la gente per spaventarla. I bambini, aggrappati al cancello chiuso del giardino, vedevano da dietro le sbarre l’omone nero, con i capelli lunghi e una gran barba. La testa penzolava come se dormisse e le braccia ciondolavano lungo i fianchi. Si sentiva un borbottio e nessuno riusciva a capire cosa diceva. Poi di colpo si metteva a correre verso di loro con gli occhi strabuzzati agitando le braccia grosse come tronchi di quercia e gridando con la voce del diavolo: “Andë via, andë via da qué!” e i bambini scappavano spaventati senza voltarsi indietro.

Una storia in particolare l’avvince. La legge e la rilegge fino quasi a impararla a memoria. Ha la data del 25 giugno 1912 e descrive la festa nella notte di San Giovanni Battista.

Nella campagna intorno a Paese Nuovo si sono accesi i falò benauguranti, si danza e si canta a suon di fisarmonica e violino per dare il benvenuto all’estate, e i bambini giocano felici come pazzi perché possono restare fuori casa fino a tardi. Gialdiffa si trova con la famiglia nella spianata in riva al lago, e decide, come ha già fatto altre volte all’insaputa dei suoi, di fare una passeggiata notturna alla ricerca del liguarro. È buio pesto. Solo intorno ai festanti l’atmosfera è rischiarata dalle torce accese e dal fuoco che crepita allegro sprizzando scintille. Ma la bambina ha con sé una piccola lampada a petrolio con i vetri tutt’attorno perché il vento non la spenga. La gente se la porta quando deve andare “in bagno” nel folto del bosco.

Il Professore mi disse che il liguarro si vede bene nel buio perché diventa tutto illuminato di verde. Allora sono andata alla cerca di vedere se lo vedevo. Dopo un po’ di girare mi fermai a guardare il lago così bello anche se si vede poco. Poco dopo mi spaventai molto a sentire un rumore di qualcuno che rimescola l’acqua e mi sono voltata verso il rumore che era vicino dove ci sono tutte le razze e lì sulla riva non ci va nessuno perché pungono le spine. Mi spaventai molto e ho visto due uomini neri che uscivano dall’acqua, era un po’ lontano, non si vedeva bene, ma sono sicura, era uno lungo con un cappello e uno grasso che aveva come una sottana da donna. Uscivano e quando erano nell’acqua bassa venivano verso di me. Mi è caduta la lumiera ma subito l’ho ripresa per fortuna e sono scappata per il sentiero. Lo dissi subito al babbo perché avevo le lacrime e lui mi chiese cosa ho fatto. Ma glielo dissi e lui rise, mi ha fatto una carezza sulla testa e ha finito il bicchiere di vino, poi è andato via dai suoi amici.

Stamane la mamma anche lei mi ha detto che avrò sognato e di non pensare a quelle cose e andare a aiutarla a ripiegare la biancheria.

La Tina invece al pomeriggio ha detto non dirlo a nessuno, si è fatta il segno della croce.

Aladina ha visto il lago così bello di notte. Quando c’è luna piena sembra un disegno in bianco e nero con scintille argentate di luce che tremano sulla superficie dell’acqua, sulle foglie e sui ciottoli della riva. Con la luna nuova è tutto più sfocato ma lo stesso pare che un debole alone di luce esca dalla superficie e rischiari, non si sa come, fino su ai borghi della sponda opposta. E le sembra di essere lì con sua madre, di avere il suo stesso batticuore mentre le due figure scure si avvicinano. Ma non racconterà il segreto che ha scoperto. Ha paura che succeda come per le campane: i grandi fan finta di niente, ti dicono che hai sognato o che ti sei inventata tutto. Invece lei sa che sua madre ha ragione.

Sono diversi giorni che Aladina se ne sta chiusa in casa. Ormai è guarita, ha ripreso appetito e non c’è motivo per cui non debba uscire, non fosse che per quel velo di tristezza che ha nello sguardo. Astorre è convinto che sia colpa dell’“esperimento” con le macchine dei suoni. Nonostante sia un medico, si è reso conto che la scienza fuori controllo, specie quando è usata per propaganda politica, può avere serie conseguenze sulla psiche fragile e malleabile dei più giovani. “Forse” pensa, “una visita dal Professore l’aiuterà. Altre volte è riuscito a ridarle il sorriso.”

Aladina accetta con gioia. Il Professore è l’unico adulto con cui si sente in questo momento di parlare.

L’anziano la porta in una nuova stanza della sua abitazione. Le pareti sono coperte di grosse librerie di legno di quercia, piene di volumi e incartamenti. Non ci sono finestre, l’unica poca luce entra dalla porta spalancata sul pianerottolo. Su un lato c’è una scrivania colma di carte ingiallite appena rischiarate da una lumiera anch’essa polverosa come tutti gli oggetti intorno, e dietro una specie di trono di legno con lo schienale e i braccioli finemente intarsiati e l’aria di essere così pesante da non riuscirsi a spostare.

«Vieni, bambina mia, voglio mostrarti una cosa.»

Si avvia adagio verso un angolo del locale, appoggiandosi stancamente al bastone.

Ad Aladina sembra che laggiù ci siano solo due librerie che si incontrano. Ma è come se l’angolo si allontanasse e si allargasse man mano che si avvicinano, finché, dopo un tempo molto più lungo di quello che ci sarebbe voluto per attraversare una stanza in apparenza così piccola, emerge dalla penombra, prima sfocato e poi sempre più nitido, un vano senza battente. Lo oltrepassano e si ritrovano in un corridoio stretto tra file di scaffali e di libri che si succedono uno dietro l’altro. Aladina alza lo sguardo e si ferma, stordita: gli scaffali si perdono all’infinito nel buio di un soffitto che non esiste.

La voce del Professore le giunge come un’eco lontana: «Coraggio, bambina, siamo quasi arrivati».

Aladina si riscuote, non lo vede davanti a sé e, impaurita, corre in direzione del richiamo. Girato l’angolo lo scorge in lontananza e si chiede come abbia fatto ad arrivare là in così poco tempo, un vecchietto appoggiato a un bastone.

Seguono ancora le tante svolte del corridoio, sempre fra scansie stipate di libri di tutte le forme e dimensioni. Finché il percorso s’interrompe contro una parete. La bimba vede un confuso insieme di carte in fila su ripiani e anelli metallici che penzolano nel vuoto. Poi a poco a poco mette a fuoco.

Sgrana gli occhi. La “parete” è in realtà una libreria piena di grossi volumi rilegati in pelle; al contrario del solito, mostrano il lato dei fogli anziché la costa e ognuno ha attaccata al bordo della copertina una catena di metallo, fissata all’altra estremità a un tubicino di ferro che corre lungo tutto lo scaffale.

«Sono testi antichi, fra i più preziosi che esistano. Per questo sono incatenati.»

«Incatenati?»

Il Professore sorride: «Sì, nel Rinascimento, quando le biblioteche aprirono al pubblico, fu il modo di assicurarli contro i furti. Si possono consultare, leggere, copiare, ma non portare via in alcun modo».

«Non ho mai visto queste biblioteche» dice la bimba riflettendo, «neanche in città.»

«Certo. Ne sono rimaste pochissime. In Italia ne esiste un’altra sola, a Cesena. Sei molto fortunata a poterla vedere oggi.»

Comincia a passare in rassegna i volumi. Scosta le lunghe catene con la punta del bastone e sale con lo sguardo verso l’alto finché sorridendo dice:

«Ecco dove si era nascosto.»

Appoggia il bastone, prende la scala che si trova lì accanto e sale con un’agilità straordinaria per uno che, fino a pochi istanti fa, aveva bisogno di un sostegno. Estrae un volume e ridiscende, più rapido di com’era salito. La lunga catena si srotola e il volume viene appoggiato sul ripiano di lettura sotto l’ultima scansia.

Sulla rilegatura di pelle è impresso Trattato completo di agricoltura pratica. Tutte le piante utili all’economia domestica. Volume I. Aladina si chiede perché mai il suo compagno le mostri un libro per i contadini.

Il Professore lo apre a metà e ne estrae un involto con dentro dei fogli. Li passa in rassegna. Sono illustrazioni, disegni di paesaggi e case. Aladina riconosce parti di Paese Nuovo e della campagna intorno. Lui ne solleva una e gliela porge.

«Ecco, questa può interessarti.»

Una veduta notturna del lago. C’è uno spiazzo sulla riva con l’albero del fuso, le rocce e i rovi ai lati, il monte Guardone sull’altra costa. A destra del bacino, due figure nere, una sottile e l’altra più grossa, che sembrano camminare a pelo d’acqua.

«Sono quelli che ha visto Gialdiffa» esclama la bambina.

«L’ha fatto una pittrice del posto un anno dopo l’allagamento di Paese Vecchio» spiega l’anziano sfilandole il foglio dalle mani. «Pare abbia ritratto ciò che ricordava di una visita al lago una notte senza luna.»

«Come facevate a sapere…» stava per dire “che volevo parlarvi proprio di questa storia?” quando si interrompe. È inutile chiedere, il Professore sa sempre tutto in anticipo su tutti. Ed è certa che non avrebbe risposto.

«Ora, mia cara, ti racconto com’è andata, visto che ti interessa.»

Prende due sgabelli e la invita a sedere.