Capitolo ventitreesimo
Una passeggiata con panorama e Santuario. Una chiacchierata all’ombra della Grandequercia che non convince Astorre, ma…
Dal paese alla Casona, un tratto di strada che si percorre in cinque minuti di buon passo. Di più se ci si ferma a godere il paesaggio. Molti scorci che si affacciano sul lago da ponente, lo meritano. Come il Santuario di san Cigolino che prende gli ultimi raggi del sole al tramonto.
Forse Santuario è parola grossa per la piccola chiesa sullo sperone che precipita sul lago. Ma anche san Cigolino doveva essere un santo minore se il Professore non ne ha trovato traccia nella storia della Chiesa. Niente che riguardi la sua vita, niente per i suoi miracoli tramandati di generazione in generazione. Innumerevoli, se si resta ai racconti della tradizione locale. Insomma, niente di niente. Eppure, si chiede il Professore, appoggiato al bastone a guardare il Santuario, come sarebbe il panorama se la chiesina non fosse lassù, alla fine del sentiero che parte dalla sponda sud del lago e sale, segnando con il suo tracciato la roccia e un tratto di bosco? Un sentiero che san Cigolino, si tramanda nella leggenda, ha percorso per primo mentre la vegetazione si apriva e i massi più grossi si spostavano per rendergli facile la salita. Così è nato, così è rimasto e, da allora, migliaia di devoti lo hanno salito.
Al tramontar del sole, come in questo momento, mentre il Professore lo guarda, uno strano gioco di riflessi proietta l’immagine del Santuario sulla superficie del lago che, tremolante per un soffio di vento, lo fa apparire appoggiato sul fondo. Di modo che i santuari diventano due.
Il Professore riprende la carrareccia camminando sull’erba del bordo: d’estate, scarseggiando le piogge, diventa polverosa e spazzolare le scarpe è una delle tante attività che lui detesta.
Poco distante dalla Casona fa un’altra sosta per un altro scorcio gradevole: il Guardone, un monte sulla cima del quale, in estate, il sole sembra fermarsi più a lungo che nell’altro spazio di cielo, prima di sparirvi dietro. Come se, da quella prospettiva, gli piacesse dare l’ultima occhiata al paese in attesa di rivederlo il giorno seguente.
Per questo il Professore ha amato il paese diventato il suo. Ha cominciato a volergli bene dal secondo giorno dell’arrivo. Tanti anni fa che neppure ricorda quanti. Secoli? E non ha più smesso. Lo ricorda ancora quel giorno. Era arrivato la sera di una giornata piovosa che lo aveva accompagnato fin dalla partenza, in città. Il paese, quello vecchio, in valle, che ancora esisteva, gli era sembrato di una tristezza infinita. Si era ripromesso: “Me ne andrò presto”.
Il mattino seguente lo aveva svegliato un’alba che a lui parve troppo luminosa. Gli era entrata in camera dalla finestra con gli scuri spalancati, lui si era alzato borbottando il suo scontento e si era avvicinato per chiuderli. Lo aveva accolto un arcobaleno che pareva nascere dalla cima di monte Sole, a levante, e morire su quella di monte Guardone, a ponente.
Era rimasto a guardare il miracolo dei colori fino a quando, sbiadendo lentamente uno dopo l’altro, l’arcobaleno era svanito lasciando il cielo limpido per una giornata che non poteva che essere buona.
Non se n’era più andato.
L’ultima occhiata al Guardone e riprende la strada. Poco più di cinquecento metri alla Casona lungo i quali incrocia alcuni pazienti che hanno lasciato l’ambulatorio. Lo salutano togliendosi il cappello e chinando leggermente il capo. Lui augura una buona serata, chiamandoli per nome.
Li conosce tutti e di loro sa anche ciò che forse essi stessi ignorano.
Nella saletta d’attesa ci sono ancora quattro pazienti. Tre donne e un uomo. Le signore hanno il capo coperto da un fazzoletto colorato annodato sotto il mento e l’uomo il cappello sulle ginocchia.
«’Sera Angiolina, ’sera Bruna, ’sera Veronica» saluta il Professore. «Salve Frascaroli» e con ciò sono finiti i convenevoli.
I pazienti hanno ricambiato borbottando un “buonasera Professore” assai rispettoso che lascia il posto al silenzio.
«Si ammalano anche i professori?» chiede il Frascaroli con un timido sorriso.
«Credo di sì, Frasca. Come vedi vado in giro con tre gambe, ma oggi sono qui per una chiacchierata con il dottore.»
Le tre donne si guardano e per tutte parla Veronica: «Allora, se è per noi, può andar dentro subito» e guarda Frascaroli. «Vero, Frasca?»
L’uomo non sembra del parere, ma allarga le braccia e si stringe nelle spalle.
«Grazie, grazie, ragazzòle» dice il Professore sedendosi, «ma non ho fretta. Così, dopo, io e il dottor Astorre possiamo chiacchierare quanto vogliamo.» Sistema il bastone fra le ginocchia e posa le mani sull’impugnatura. «Gli scherzi della vita. Si nasce e ci si muove a quattro zampe, come gli animali. Poi a due gambe e infine a tre.»
«Voi, caro Professore, usate il bastone solo quando ne avete voglia» dice una delle ragazzòle, la Veronica. «Vi ho visto, non son molti giorni, che vi arrampicavate lungo il Grottino. E senza bastone, come un giovanotto.»
«Vero, vero: secondo come mi alzo. Se mi alzo con il piede destro, sarà un giorno di nuovi acciacchi. Se metto giù il sinistro, allora ci si arrampica anche lungo il Grottino.»
Il Grottino: il vicoletto dietro il Comune. È lungo sette, ottocento metri dei quali solo la metà è chiusa fra le mura grigie di antichi e poveri fabbricati. Talmente stretto che per passarci in due appaiati ci si deve mettere entrambi “di coltello”, come dicono da queste parti. Cioè di fianco. La salita del viottolo resta stretta anche dopo l’uscita dal paese, fra due mura di sasso alte più di un uomo alto.
Il Grottino arriva fin davanti al portone del Palazzaccio, un portone massiccio e chiodato la cui sola presenza è sufficiente a sconsigliare al viandante di sollevare il pesante batacchio di ferro per lasciarlo ricadere sulla piastra sottostante.
Un tempo il Grottino era l’unica strada per arrivare al Palazzaccio e si dice che Guido Bonagiunta, padre della sfortunata Melania, la fece costruire così proprio perché al portone d’accesso dell’edificio non arrivassero più di due persone per volta. Infatti, il terreno attorno al Grottino è talmente scosceso e disagevole da togliere a chiunque la voglia di salire da quella parte.
Nell’Ottocento l’ultimo erede dei Sapiolunga fece costruire la strà nóva, strada nuova, che parte dal negozio di piazza e sale, comoda e carrabile. È quella che Aladina ha percorso quand’è andata al Palazzaccio.
Si apre la porta dell’ambulatorio ed esce un paziente. Il dottore mette fuori il capo per controllare quanti aspettano ancora le sue cure. Vede il Professore e subito si preoccupa:
«Professore, qualche problema di salute?»
«No, che io sappia, ma i medici riescono sempre a trovarti qualche malanno. Quelli bravi soprattutto.»
«Allora io non sono fra i bravi.» Astorre fa un rapido calcolo indicando uno dopo l’altro le donne e, ultimo, Frascaroli: «Due ricette e due controlli. Ho detto bene?» e, ricevuto l’assenso dai pazienti, conclude: «Un quarto d’ora al massimo e sono da voi, Professore».
«Come ho appena detto con questi amici, non ho fretta.»
Non passa il quarto d’ora promesso e il Frascaroli, ultimo paziente della giornata, lascia l’ambulatorio con due scappellate: la prima al dottor Astorre, la seconda per il Professore.
«Eccomi» dice Astorre, «ma se non siete qui per motivi di salute, preferisco che andiamo a parlare in cucina. Si ragiona meglio e c’è la possibilità di un bicchiere. Sempre che ciò che avete da dirmi non sia strettamente confidenziale.»
«È strettamente confidenziale» e, vedendo che la frase ha messo in allarme il dottore, aggiunge: «Confidenziale ma non preoccupante». Poi, appoggiandosi al bastone, si alza e dice: «Facciamo due passi».
«Veramente preferirei sedermi. Sono stato in piedi da stamane presto. Venite. Nessuno ci disturberà.»
Vero: seduti sotto la Grandequercia c’è tranquillità e frescura e nel silenzio della natura, che non è mai silenzio, ci si può rilassare ascoltando il mormorar delle foglie col vento.
«Ditemi, Professore.»
Il Professore, il bastone fra le ginocchia, si guarda attorno e quando comincia, lo fa con una riflessione dedicata a se stesso: «Posto ideale per fumare la pipa. Avrei dovuto portarla. La prossima volta». Segue un profondo, rilassante respiro. «Dunque, Libero… intendo il podestà Libertario Chiaromonti. L’ho sempre chiamato Libero. È preoccupato per Aladina: non vorrebbe sentire le chiacchiere sciocche delle comari e del parroco, né vorrebbe che si comportassero come se fosse una strega. O, chissà, una santa.»
«So» dice Astorre, «mi ha raccontato Cleonice e anch’io sono preoccupato. Sta accadendo ad Aladina com’era accaduto a Gialdiffa, che pure conoscevano fin dalla nascita.»
«Proprio per far cessare questo assurdo comportamento, il podestà desidera parlare con la piccola.»
«Assolutamente no! Meno Aladina è coinvolta, meglio è per lei. Dovremmo tutti ignorare le sue bugie o almeno prenderle per quello che sono: fantasie di una bambina. In ciò mi conforta il parere di illustri colleghi.»
«Sono d’accordo, ma il podestà ha in mente uno stratagemma per mettere le cose a posto e, se posso darvi un consiglio, accompagnate Aladina da lui. Potrei esserci anch’io, se vi tranquillizzasse.»
Astorre ci pensa su. «Stratagemma, avete detto. Di che si tratta?»
«Preferirei lo sentiste direttamente da Libero… Cioè, Libertario.»
Ancora una pausa di riflessione e poi il dottore conclude: «E va bene. Dite al podestà che accompagnerò Aladina, ma che la porterò via immediatamente nel caso ritenessi l’incontro nocivo per lei».
«Più che giusto, Astorre, più che sensato» e il Professore si alza. «Alle dieci, domattina, in palazzo comunale» e subito aggiunge: «Anche se non c’è più un sindaco, resta sempre il palazzo comunale».