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Here Comes That Feeling63

 

L’ondata di caldo che si era abbattuta su Londra gli era nemica. Era impossibile nascondere i coltelli in una T-shirt, e i cappelli e i colletti alti cui si affidava per mascherarsi erano fuori luogo. Non poteva far altro che aspettare, rabbioso e impotente, nel posto che Cosa non conosceva.

Finalmente, una domenica, il tempo cambiò. La pioggia investì i parcheggi riarsi, i tergicristalli danzarono sui parabrezza, i turisti indossarono i poncho di plastica e continuarono a girare senza curarsi delle pozzanghere.

Pieno di eccitazione e determinazione, lui calzò un berretto abbassandolo fin sopra gli occhi e infilò il suo giubbotto speciale. Camminando, sentiva i coltelli rimbalzargli sul torace nelle lunghe tasche che aveva ricavato nella fodera. Le strade della capitale erano un po’ meno affollate rispetto a quando aveva pugnalato la puttana le cui dita si trovavano nel freezer. Turisti e londinesi sciamavano ancora ovunque come formiche. Alcuni di loro avevano comprato ombrelli e cappelli con la bandiera inglese. Ne urtò qualcuno per il puro piacere di spingerli da parte.

Il bisogno di uccidere stava diventando impellente. Gli ultimi pochi giorni sprecati erano volati via, il suo permesso di libera uscita da Cosa stava per scadere, ma la Segretaria era ancora viva e libera. Lui aveva girato per ore, cercandola ovunque, e poi se l’era trovata davanti all’improvviso, la puttana sfrontata, in pieno sole... ma c’erano testimoni ovunque...

Scarso autocontrollo, avrebbe detto quel coglione dello psichiatra se avesse saputo cosa aveva fatto quando l’aveva vista. Scarso autocontrollo! Lui sapeva controllarsi benissimo, se voleva: era un uomo dall’intelligenza sovrumana, che aveva ucciso tre donne e ne aveva mutilata una quarta senza che la polizia riuscisse a cavare un ragno dal buco, fanculo lo psichiatra e le sue diagnosi del cazzo, ma quando se l’era trovata davanti dopo tutte quelle giornate vuote, aveva voluto spaventarla, aveva voluto andarle vicino, davvero vicino, così vicino da sentirne l’odore, da parlarle, da guardarla negli occhi impauriti.

Poi lei se n’era andata e lui non aveva osato seguirla, non allora, ma lasciarla andare l’aveva quasi ucciso. Lei sarebbe dovuta già essere nel suo frigo in tanti pezzetti carnosi, adesso. Lui avrebbe dovuto già aver visto la sua faccia in quell’estasi di terrore e morte, quando le possedeva completamente e loro diventavano i suoi giocattoli.

Invece stava camminando sotto la pioggia fredda e si sentiva bruciare dentro perché era domenica e lei era di nuovo andata via, ancora in quel posto dove lui non poteva avvicinarla perché con lei c’era sempre Fichetto.

Aveva bisogno di più libertà, di molta più libertà. Il vero ostacolo era avere Cosa tra i piedi per tutto il tempo, che lo spiava, gli stava addosso. Bisognava cambiare tutto. L’aveva già convinta a tornare al lavoro. Adesso aveva deciso che doveva farle credere che lui aveva un nuovo impiego. Se necessario, si sarebbe procurato i soldi rubando e le avrebbe detto di averli guadagnati... l’aveva già fatto un sacco di volte. Così, libero, avrebbe potuto disporre di tutto il tempo di cui aveva bisogno per essere sicuro di esserci quando la Segretaria avesse abbassato la guardia, quando avesse svoltato l’angolo sbagliato, quando non ci fosse stato nessuno a guardare...

I passanti avevano la stessa vita degli automi per lui. Stupidi, stupidi, stupidi... Ovunque andasse, la cercava, cercava la prossima da far fuori. Non la Segretaria, no, perché la zoccola se n’era tornata dietro la sua porta bianca con Fichetto, ma una donna qualsiasi, abbastanza stupida, abbastanza ubriaca da fare un breve tratto di strada assieme a un uomo e ai suoi coltelli. Doveva farne una, prima di tornare da Cosa, doveva. Era l’unica, se voleva resistere, quando fosse tornato a fingere di essere l’uomo che Cosa amava. I suoi occhi baluginavano da sotto il berretto vagliandole, scartandole: donne con uomini, donne con bambini avvinghiati, ma nessuna donna sola, nessuna come la voleva lui...

Camminò per chilometri fino al calar della sera, passò davanti a pub illuminati dove uomini e donne ridevano e flirtavano, davanti a ristoranti e cinema, a guardare, ad aspettare, con la pazienza di un cacciatore. Era domenica sera e gli operai tornavano a casa presto, ma non importava: c’erano ancora turisti dappertutto, forestieri attratti dalla storia e dai misteri di Londra...

Era quasi mezzanotte quando balzarono al suo occhio esperto, come un grappolo di funghi pasciuti nell’erba alta: una cricca di starnazzanti ragazze ubriache, che ridevano sguaiatamente e procedevano a zigzag sul marciapiede. Erano in una di quelle miserabili, decrepite strade che lui prediligeva fra tutte, dove una rissa fra ubriachi e una ragazza che strillava non sarebbero parse cose fuori dall’ordinario. Le seguì, a una decina di metri di distanza, guardandole passare sotto i lampioni, sgomitarsi a vicenda ridendo forte, tutte eccetto una. Era la più ubriaca e la più giovane della comitiva: sul punto di vomitare, se l’esperienza non lo ingannava. Inciampò nei tacchi, e rimase un po’ indietro rispetto alle sue amiche. Nessuna di loro si era resa conto dello stato in cui si trovava. Erano ancora in grado di reggersi in piedi, loro, ridevano, sghignazzavano, barcollavano un po’. Lui le seguì, il più disinvolto possibile.

Se lei avesse vomitato, il rumore avrebbe attirato le sue amiche, si sarebbero fermate e le avrebbero fatto capannello intorno. Ma poiché stava lottando con l’impulso di vomitare, non riusciva a parlare. Pian piano, la distanza fra lei e le sue amiche crebbe. Guardandola ondeggiare e traballare su quegli stupidi tacchi alti, gli venne in mente l’ultima. Questa non sarebbe sopravvissuta per fare gli identikit.

Un taxi si stava avvicinando. Lui vide la scena prima ancora che si svolgesse. Le ragazze chiamarono il taxi a gran voce, strillando e agitando le mani, e si ammassarono dentro, culone dietro culone. Lui accelerò, capo chino, faccia nascosta. I lampioni stradali si specchiavano nelle pozzanghere, la luce della scritta ‘libero’ si spense, il motore rombò...

Se l’erano dimenticata. Vacillava accanto al muro, appoggiandoci una mano per reggersi in piedi.

Forse aveva solo pochi secondi. Una delle sue amiche si sarebbe accorta da un momento all’altro che lei non c’era.

«Tutto a posto, cara? Ti senti male? Vieni qui. Per di qua. Va tutto bene. Qui, ecco».

Quando la trascinò verso una strada laterale, lei cominciò a vomitare. In preda ai conati, tentò debolmente di liberare il braccio: il vomito le cadeva addosso, le impediva di respirare.

«Brutta puttana» ringhiò lui, una mano già sull’impugnatura del coltello sotto il giubbotto. La stava tirando a forza verso una rientranza buia nel muro fra una videoteca per adulti e un rigattiere.

«No» ansimò lei, ma si strozzò col suo stesso vomito.

Una porta si aprì sul lato opposto della strada, un fascio di luce uscì da una rampa di scale. Delle persone si riversarono sul marciapiede, ridendo.

Lui sbatté la ragazza contro il muro e la baciò, schiacciandola mentre lei cercava di divincolarsi. Sapeva di vomito. La porta di là dalla strada si chiuse, il gruppo di persone li oltrepassò, le loro voci risuonarono nella placida notte, la luce si spense.

«Porca troia» disse lui, schifato, liberando la bocca ma tenendo la ragazza schiacciata contro il muro con il proprio corpo.

La giovane prese fiato per gridare, ma lui aveva pronto il coltello e glielo ficcò a fondo tra le costole, con facilità, non come con l’ultima, che aveva lottato così strenuamente e ostinatamente. Il suono le morì tra le labbra sporche, il sangue caldo colava sulla mano guantata di lui, intridendo il tessuto. Lei si agitò in modo convulso, cercò di parlare, rovesciò gli occhi all’indietro e tutto il suo corpo si afflosciò, ancora trafitto dal coltello.

«Brava ragazza» sussurrò lui, liberando la lama da scalco mentre lei gli cadeva, morente, fra le braccia.

La trascinò più a fondo nella nicchia del muro, dove un mucchio di spazzatura aspettava di essere raccolto. Spostati di lato i sacchi neri con un calcio, la buttò in un angolo e tirò fuori il machete. I souvenir erano tassativi, ma aveva soltanto pochi secondi. Un’altra porta poteva aprirsi o quelle troie delle sue amiche potevano tornare indietro col taxi...

Tagliò e trinciò, infilando i caldi, viscidi trofei in tasca, poi ammucchiò la spazzatura sopra la ragazza.

C’erano voluti meno di cinque minuti. Si sentiva una specie di re, di dio. Si allontanò, i coltelli riposti al sicuro, ansimando nella fredda e pulita aria notturna, mettendosi a correre un po’ non appena si ritrovò sulla strada principale. Era già a un isolato di distanza, quando sentì delle rauche voci femminili chiamare ad alta voce, lontane.

«Heather! Heather, dove sei, cretina?»

«Heather non può sentirvi» mormorò lui nell’oscurità.

Cercò di smettere di ridere, seppellendo la faccia nel colletto, ma non poteva arrestare il suo giubilo. In fondo alle tasche, con le dita appiccicose, giocherellò con la cartilagine gommosa e la pelle cui gli orecchini – piccoli coni gelato di plastica – erano ancora attaccati.