13
In the presence of another world.
Blue Öyster Cult, In the Presence of Another World22
Il sabato mattina, Robin e sua madre presero la vecchia Land Rover di famiglia nella loro piccola città natale di Masham e andarono alla sartoria di Harrogate dove l’abito da sposa di Robin stava subendo delle modifiche. Il disegno era stato cambiato perché inizialmente era stato pensato per un matrimonio in gennaio, mentre adesso doveva essere indossato a luglio.
«Ha perso ancora peso» disse l’anziana sarta, infilando spilli sul retro del corsetto. «Non vorrà dimagrire ancora. Questo vestito ha bisogno di qualche curva».
Robin aveva scelto circa un anno prima il tessuto e il disegno di quel vestito. Si ispirava vagamente a un modello di Elie Saab che i suoi genitori – dovendo sborsare anche la metà delle spese del matrimonio di suo fratello Stephen, di lì a sei mesi – non si sarebbero mai potuti permettere. Anche quella versione a prezzo ridotto sarebbe stata inaccessibile, se si fosse dovuto contare soltanto sul salario che Strike pagava a Robin.
La luce nel camerino di prova la faceva sembrare più bella, eppure la faccia di Robin riflessa dallo specchio incorniciato d’oro appariva pallidissima, i suoi occhi incavati e stanchi. Non era sicura che rendere il vestito scollato fosse stata una buona idea. Parte di quello che le era piaciuto del disegno, inizialmente, erano state proprio le lunghe maniche. Forse, disse a se stessa, era solo stufa di aver convissuto per tanto tempo con il pensiero di quell’abito.
Il camerino odorava di moquette nuova e di lucido per mobili. Mentre sua madre, Linda, guardava la sarta appuntare, piegare e ripiegare metri e metri di chiffon, Robin, scorata dalla propria immagine riflessa, si concentrò sul piccolo trespolo d’angolo che sorreggeva diademi di cristallo e fiori finti.
«Ricordatemi: avevamo già deciso l’acconciatura?» domandò la sarta, che aveva l’abitudine, molto diffusa presso le infermiere, di servirsi della prima persona plurale. «Eravamo orientati verso un diadema per il matrimonio invernale, vero? Credo che sarebbe meglio pensare a dei fiori, con un vestito scollato».
«I fiori starebbero bene» approvò Linda dall’angolo del camerino.
Madre e figlia si somigliavano molto. Anche se il suo girovita un tempo sottile si era allargato e i chiari capelli biondoramati raccolti mollemente sulla sommità del capo erano ora screziati d’argento, gli occhi grigio-azzurri di Linda erano gli stessi di sua figlia, e in quel momento posavano sulla sua secondogenita con un’espressione preoccupata e scaltra che Strike avrebbe giudicato spassosamente familiare.
Robin provò una serie di copricapi di fiori finti e non gliene piacque nessuno.
«Forse tengo il diadema» disse.
«O fiori veri?» suggerì Linda.
«Sì» disse Robin, di colpo desiderosa di allontanarsi dall’odore di moquette e dal proprio riflesso ingabbiato. «Andiamo a sentire cosa consigliano i fioristi».
Fu felice di avere il camerino tutto per sé per qualche minuto. Mentre usciva dal vestito e si infilava i jeans e il maglione, cercò di capire come mai era così giù di morale. Per quanto le spiacesse essere stata costretta a perdersi l’incontro di Strike con Wardle, era contenta di aver messo tutti quei chilometri fra lei e l’uomo senza volto e vestito di nero che le aveva consegnato una gamba mozzata.
Tuttavia, non provava alcun sollievo. Lei e Matthew avevano litigato di nuovo sul treno verso il Nord. Anche lì, nel camerino di James Street, le sue tante ansie non smettevano di assillarla: il lavoro in calo dell’agenzia, la paura di cosa sarebbe successo se Strike non si fosse più potuto permettere il suo stipendio. Una volta rivestita, controllò il cellulare. Nessun messaggio da Strike.
Un quarto d’ora dopo, parlava soltanto a monosillabi, tra i mazzi di mimosa e i gigli. La fiorista si agitava attorno a lei, accostandole fiori ai capelli e lasciando accidentalmente cadere gocce di acqua fredda e verdognola dal lungo gambo di una rosa sul suo maglione color crema.
«Andiamo da Bettys» suggerì Linda, quando un’acconciatura floreale venne finalmente scelta.
Il Bettys di Harrogate era un’istituzione locale, la sala da tè di riferimento in quella città termale. Cesti di fiori erano appesi all’esterno, dove i clienti facevano la coda sotto un baldacchino nero, dorato e a vetri; all’interno lampade realizzate con scatole da tè e teiere ornamentali illuminavano le soffici poltrone e le cameriere in livrea di pizzo sangallo. Per Robin, fin da quand’era piccola, era un piacere delizioso scrutare attraverso il vetro del bancone le file di grassi maialini di marzapane, guardare sua madre scegliere uno degli sfarzosi plum cake al liquore, nella sua speciale confezione di latta.
Oggi, seduta accanto alla finestra, a guardare le aiuole gialle, rosse e blu, che somigliavano a forme geometriche ritagliate nella plastilina dai bambini, Robin non volle niente da mangiare, ordinò una tazza di tè e guardò di nuovo il telefonino. Niente.
«Tutto bene?» le domandò Linda.
«Bene» rispose Robin. «Mi stavo soltanto chiedendo se c’erano novità».
«Che tipo di novità?»
«Sulla gamba» disse Robin. «Strike ha visto Wardle ieri sera... il poliziotto».
«Oh» fece Linda, e fra di loro cadde il silenzio fino al momento in cui arrivò il tè.
Linda aveva ordinato un Fat Rascal, uno dei grossi scone di Bettys. Finì di imburrarlo prima di domandare: «Tu e Cormoran state cercando di scoprire per conto vostro chi vi ha mandato quella gamba?»
Qualcosa nel tono di sua madre indusse Robin a usare cautela.
«Vogliamo solo sapere che cosa sta facendo la polizia, nient’altro».
«Ah» disse Linda, masticando senza smettere di fissare Robin.
Robin si sentì in colpa per la propria irritabilità. L’abito da sposa era costoso e lei non dava segni di gratitudine.
«Scusa se sono nervosa».
«Figurati».
«È tutta colpa di Matthew che continua a rompere perché lavoro per Cormoran».
«Sì, abbiamo sentito qualcosa la notte scorsa».
«Oddio, ma’, mi spiace...»
A Robin non era sembrato di aver alzato il tono tanto da svegliare i suoi genitori. Avevano litigato durante il viaggio per Masham, sospeso le ostilità durante la cena con i genitori, poi ripreso a litigare in salotto dopo che Linda e Michael erano andati a letto.
«Avete parlato molto di Cormoran, vero? Immagino che Matthew sia...»
«Non è preoccupato» disse Robin.
Matthew si ostinava a considerare il lavoro di Robin come una specie di burla, ma quando era costretto a prenderlo seriamente – quando, per esempio, qualcuno le inviava una gamba mozzata – più che preoccuparsi, s’infuriava.
«Be’, se non è preoccupato, dovrebbe esserlo» disse Linda. «Qualcuno ti ha mandato un pezzo di donna morta, Robin. Non molto tempo fa Matt ci ha chiamati per dirci che eri in ospedale con una commozione cerebrale. Non voglio dire che devi licenziarti!» aggiunse, rifiutando di farsi intimidire dall’espressione burbera di Robin. «So che vuoi fare quel lavoro! In ogni modo» mise la metà più grossa del suo Fat Rascal nella mano inerte di Robin, «non volevo domandarti se Matt è preoccupato. Volevo domandarti se è geloso».
Robin sorseggiò il forte Bettys Blend. Contemplò distrattamente l’idea di portare qualche bustina di quel tè in ufficio. Non c’era niente di così buono da Waitrose. A Strike piaceva il tè forte.
«Sì, Matt è geloso» disse alla fine.
«Immagino che non abbia ragione di esserlo...»
«Certo che no!» rispose Robin con veemenza. Si sentiva tradita. Sua madre era sempre dalla sua parte, sempre...
«Non c’è bisogno che ti scaldi» disse Linda, imperturbabile. «Non stavo insinuando che tu faccia cose che non dovresti».
«Be’, meglio così» disse Robin, mangiando lo scone senza rendersene conto. «Perché non le faccio. È il mio capo e basta».
«E tuo amico» suggerì Linda, «a giudicare da come ne parli».
«Sì» disse Robin, ma l’onestà la costrinse ad aggiungere: «Però non è come un’amicizia normale».
«Perché no?»
«Non gli piace parlare di faccende personali. Chiuso come un riccio».
Tolta la famosa sera – menzionata di rado fra loro – in cui Strike era così ubriaco che non si reggeva in piedi, da allora informazioni spontanee sulla sua vita privata erano state in pratica inesistenti.
«Andate d’accordo, però?»
«Sì, molto».
«Per un sacco di uomini non è facile sapere che le loro metà vanno d’accordo con altri uomini».
«E allora cosa dovrei fare, lavorare sempre e soltanto con donne?»
«No» disse Linda. «Dico solo che è ovvio che Matthew si senta minacciato».
A volte Robin sospettava che sua madre si rammaricasse del fatto che lei non avesse avuto più ragazzi prima di impegnarsi con Matthew. Robin e Linda erano in grande confidenza, dato che Robin era l’unica femmina. Ora, nel tintinnio della sala da tè, Robin si rese conto che temeva di sentirsi dire da Linda che non era troppo tardi per sottrarsi al matrimonio, se lo voleva. Per quanto stanca e amareggiata, per quanto gli ultimi mesi fossero stati difficili, lei sapeva di amare Matthew. L’abito era quasi pronto, la chiesa prenotata, il ricevimento quasi già pagato. Doveva tirare dritta per la sua strada, adesso, e arrivare al traguardo.
«Non sono attratta da Strike. E poi lui ha una storia, con Elin Toft. È una conduttrice di Radio Three».
Sperava che questa informazione distraesse sua madre, divoratrice entusiasta di programmi radiofonici mentre preparava da mangiare o faceva giardinaggio.
«Elin Toft? Quella bellissima bionda che l’altra sera in tv parlava dei compositori romantici?» domandò Linda.
«Probabilmente» rispose Robin con una palese mancanza di entusiasmo e, a dispetto del fatto che la sua tattica diversiva avesse avuto successo, cambiò argomento. «Allora, vuoi liberarti della Land Rover?»
«Sì. Non ne caveremo niente, ovviamente. Spiccioli, forse... A meno che» Linda fu illuminata da un pensiero improvviso, «non la vogliate tu e Matthew... Ha il bollo pagato per un anno e, bene o male, passa sempre la revisione».
Robin masticava lo scone, pensosa. Matthew si lamentava continuamente perché non avevano la macchina, una carenza che lui imputava al basso stipendio di lei. La A3 Cabriolet del cognato gli procurava quasi degli spasmi fisici di invidia. Robin sapeva che avrebbe avuto sensazioni molto diverse davanti a una vecchia Land Rover malconcia dal tanfo permanente di cane bagnato e stivali di gomma, ma all’una della notte precedente, in salotto, Matthew si era messo a elencare i presunti stipendi dei loro conoscenti, concludendo con gesto plateale che quello di Robin era l’ultimo della lista. Con un improvviso lampo di malizia, Robin immaginò se stessa dire al fidanzato: «Abbiamo la Land Rover, Matt, non dobbiamo più risparmiare per una Audi, adesso!»
«Potrebbe essere molto utile per il lavoro» disse a voce alta, «casomai avessimo bisogno di andare fuori Londra. Strike non dovrebbe più noleggiare una macchina».
«Mmh» fece Linda, con aria assente, ma con gli occhi fissi sulla faccia di Robin.
Rincasando, trovarono Matthew seduto a tavola con il futuro suocero. Di solito era molto più servizievole nella cucina dei genitori di Robin che a casa con lei.
«Com’è il vestito?» domandò, in quello che Robin interpretò come un tentativo di conciliazione.
«A posto» disse Robin.
«Porta male parlarmene?» domandò lui e poi, vedendo che lei non sorrideva: «Scommetto che stai benissimo, comunque».
Per allentare la tensione, Robin tese una mano e lui ammiccò, stringendole le dita. Poi Linda posò sul tavolo, fra di loro, un piatto di purè e disse a Matthew che aveva regalato loro la vecchia Land Rover.
«Cosa?» fece Matthew, una faccia che era l’immagine della costernazione.
«Continui a dire che vuoi una macchina» disse Robin, difendendo la madre.
«Sì, ma... la Land Rover a Londra?»
«Perché no?»
«Offusca la sua immagine» disse Martin, il fratello di Robin che era appena entrato nella stanza con il giornale in mano: stava guardando quali cavalli correvano quel pomeriggio al Grand National. «A te, però, si addice alla perfezione, Rob. Vi ci vedo benissimo, tu e Gambadilegno fare i fuoristrada per arrivare sulle scene del delitto».
La mascella quadrata di Matthew si contrasse.
«Chiudi il becco, Martin» sbottò Robin, gelando con lo sguardo il fratello più giovane che si stava sedendo al tavolo. «E mi piacerebbe proprio vederti chiamare Strike Gambadilegno in sua presenza» aggiunse.
«Probabilmente riderebbe» disse Martin con leggerezza.
«Perché, siete commilitoni?» ironizzò Robin in tono un po’ stridulo. «Tutt’e due con le vostre medaglie di guerra, ottenute rischiando la vita e le membra?»
Martin era il solo dei quattro fratelli Ellacott che non avesse fatto l’università, e il solo che vivesse ancora con i genitori. Era sempre suscettibile al minimo accenno a una sua qualche inferiorità.
«Che cazzo vorrebbe dire? Che dovrei arruolarmi?» domandò, accalorandosi.
«Martin!» esclamò Linda. «Bada a come parli!»
«Robin ce l’ha con te perché hai ancora tutt’e due le gambe, Matt?» domandò Martin.
Robin posò coltello e forchetta e uscì dalla cucina.
L’immagine della gamba tagliata era di nuovo davanti a lei, con la lucida tibia bianca che sporgeva dalla carne morta, le unghie un po’ sporche che la ragazza aveva forse pensato di pulire o di laccare prima che qualcuno potesse vederle...
Robin stava piangendo, per la prima volta da quando aveva ritirato il pacco. Il disegno sulla vecchia guida delle scale si offuscò e lei dovette cercare a tastoni il pomo della porta di camera sua. Raggiunse il letto e cadde a faccia in giù, sulla linda trapunta, le spalle che sussultavano e il petto che ondeggiava, le mani premute sulla faccia bagnata per cercare di smorzare il suono dei singhiozzi. Non voleva che nessuno di loro andasse da lei, non voleva essere costretta a parlare o spiegare; voleva soltanto star sola per dare sfogo all’emozione che aveva trattenuto durante la settimana.
La disinvoltura di suo fratello nel parlare dell’amputazione di Strike riecheggiava le battute di Strike stesso sulla gamba smembrata. Una donna era morta in quelle che dovevano essere state circostanze terribili e violente e nessuno sembrava preoccuparsene quanto Robin. La morte e un’ascia avevano ridotto la sconosciuta a un grumo di carne, a un problema da risolvere, e lei, Robin, si sentiva come se fosse la sola persona a ricordare che un essere umano vivo e palpitante aveva usato quella gamba, forse non più di una settimana prima...
Dopo dieci minuti di pianto ininterrotto si girò pancia in su sul letto, aprì gli occhi umidi e guardò attorno a sé la sua vecchia camera come se potesse consolarla.
Quella stanza un tempo le era parsa l’unico luogo sicuro sulla faccia della terra. Durante i tre mesi successivi al suo ritiro dall’università, l’aveva lasciata di rado, anche per mangiare. Le pareti erano rosa shocking a quel tempo, una scelta sbagliata che aveva fatto da sedicenne. Aveva riconosciuto vagamente il suo errore ma non aveva voluto chiedere al padre di ridipingerla, sicché aveva coperto la tinta sgargiante tappezzando la stanza di poster. Aveva messo un grande ritratto delle Destiny’s Child che la guardava dai piedi del letto. Anche se adesso c’era soltanto la liscia carta da parati verdolina che Linda aveva messo quando Robin era andata a stare da Matthew a Londra, Robin vedeva ancora Beyoncé, Kelly Rowland e Michelle Williams che la fissavano dalla copertina di Survivor. L’immagine era legata in modo indelebile al periodo peggiore della sua vita.
Le pareti oggi accoglievano soltanto due fotografie incorniciate: una di Robin con la sua classe degli ultimi due anni di superiori, nel loro ultimo giorno di scuola (Matthew sul fondo della foto, il più bello dell’anno, che rifiuta di fare smorfie o di mettersi uno stupido cappello), e l’altra di Robin, dodicenne, a cavallo del suo vecchio pony, Angus, una creatura pelosa, forte e ostinata, che era vissuta nella fattoria di suo zio e che lei aveva adorato, nonostante la sua bizzosità.
Scorata ed esausta, trattenne ulteriori lacrime e si asciugò la faccia bagnata col palmo delle mani. Voci ovattate si alzavano dalla cucina sottostante alla stanza. Sua madre, ne era sicura, aveva consigliato a Matthew di lasciarla sola per un po’. Robin sperò che le desse retta. Aveva voglia di dormire per tutto il resto del fine settimana.
Un’ora dopo era ancora sdraiata sul letto matrimoniale e guardava assonnata dalla finestra la cima del tiglio in giardino, quando Matthew bussò ed entrò con una tazza di tè.
«Tua mamma dice che ti può far bene».
«Grazie» disse Robin.
«Sta per cominciare il National, in tv. Martin ha scommesso una fortuna su Ballabriggs».
Non un cenno alla sua tristezza o ai crassi commenti di Martin; i modi di Matthew implicavano che era stata lei a mettersi in una situazione imbarazzante e lui le stava offrendo una via d’uscita. Capì subito che Matthew non aveva idea di cosa avessero suscitato in lei la vista e il contatto con la gamba di quella donna. No, era semplicemente irritato dal fatto che Strike, che nessuno degli Ellacott aveva mai conosciuto, fosse entrato ancora una volta nei discorsi del fine settimana. Come con Sarah Shadlock alla partita di rugby.
«Non mi piace guardare dei cavalli che si rompono il collo» disse Robin. «E poi ho del lavoro da sbrigare».
Lui rimase a guardarla, poi se ne andò, chiudendo la porta con un po’ troppa forza, tanto che si riaprì di scatto alle sue spalle.
Robin si mise seduta, si lisciò i capelli, tirò un lungo respiro e poi andò a prendere la borsa del portatile dal tavolino. Si era sentita in colpa a portarselo dietro nel viaggio verso casa, in colpa per aver sperato di trovare il tempo per quelle che lei chiamava tra sé e sé le proprie linee d’indagine. La magnanima aria di perdono di Matthew aveva spazzato via ogni senso di colpa. Si guardasse pure il suo National. Lei aveva di meglio da fare.
Tornata sul letto, impilò i cuscini dietro le spalle, aprì il portatile e navigò su alcune pagine salvate nei preferiti di cui non aveva parlato con nessuno, nemmeno con Strike, il quale avrebbe sicuramente pensato che stesse sprecando tempo.
Robin aveva già trascorso parecchie ore a seguire due linee d’indagine diverse ma collegate, suggerite dalle lettere che Strike, dietro sua insistenza, aveva portato a Wardle: quella della ragazza che si voleva amputare la gamba e quella della persona che avrebbe voluto fare delle cose al moncherino di Strike e che aveva un po’ nauseato Robin.
Era sempre stata affascinata dai meccanismi della mente umana. La sua carriera universitaria, per quanto breve, era stata dedicata allo studio della psicologia. La giovane che aveva scritto a Strike soffriva probabilmente di BIID, Body Integrity Identity Disorder: il desiderio irrazionale di amputare una parte sana del proprio corpo.
Avendo letto numerosi documenti scientifici online, adesso Robin sapeva che i malati di BIID erano rari e che la causa precisa della loro condizione era sconosciuta. Visite a siti collegati le avevano già rivelato che molte persone detestavano questo tipo di malati. Commenti irritati bersagliavano i forum su Internet, accusando i malati di BIID di aspirare a una condizione che ad altri era stata imposta dalla sfortuna e dalla malattia e di voler attirare l’attenzione in un modo grottesco e offensivo. Repliche ugualmente irritate seguivano gli attacchi: pensavano davvero che il malato volesse avere il BIID? Non capivano come fosse difficile essere un transabile, desiderare, avere bisogno di essere paralizzato o amputato? Robin si domandava cosa avrebbe pensato Strike delle storie dei malati di BIID, se mai le avesse lette. Sospettava che la sua reazione non sarebbe stata comprensiva.
Al piano di sotto, la porta del salotto era aperta, e Robin sentì per un breve attimo la voce di un telecronista, poi suo padre dire che bisognava metter fuori il vecchio labrador color cioccolato perché scorreggiava, poi la risata di Martin.
Con sua grande frustrazione, l’esausta Robin non riusciva a ricordare il nome della ragazza che aveva scritto a Strike per chiedere un parere sull’amputazione di una gamba, ma le sembrava che fosse Kylie o qualcosa di simile. Facendo scorrere lentamente le pagine del sito di supporto più ricco che aveva trovato, teneva d’occhio i nomi utente che potevano in qualche modo essere legati alla ragazza. Dove mai una teenager con una simile fissazione poteva condividere la sua fantasia, se non nel cyberspazio?
La porta della stanza, ancora socchiusa da quando Matthew era uscito, si spalancò quando l’esule labrador, Rowntree, entrò dondolando nella stanza. Andò accanto a Robin per una distratta carezza tre le orecchie, poi si spaparanzò accanto al letto. Scodinzolò contro il pavimento per un po’, infine si addormentò ansimando. Con l’accompagnamento dei suoi ronfi, Robin continuò a perlustrare il forum.
D’improvviso, fu pervasa da uno di quei fremiti di eccitazione che le erano diventati familiari da quando aveva cominciato a lavorare per Strike e che erano l’immediata gratificazione per un piccolo indizio che poteva significare qualcosa, niente o, in certi casi, tutto.
Senzaritorno: C’è qualcuno che sa qualcosa di Cameron Strike?
Trattenendo il respiro, Robin aprì il link.
ASpir@nte: Quell’investigatore con una gamba sola? Sì, è un veterano.
Senzaritorno: Ho sentito ke se l’è fatto da solo.
ASpir@nte: No, se controlli è successo in Afghanistan.
Nient’altro. Robin setacciò altre conversazioni nel forum, ma Senzaritorno non aveva proseguito la sua indagine, né i due comparivano altrove. Non significava nulla: potevano aver cambiato nickname. Robin cercò fino a quando fu sicura di aver esplorato ogni angolo del sito, ma il nome di Strike non si ripresentava.
La sua eccitazione svanì. Ammesso che l’autrice della lettera e Senzaritorno fossero la stessa persona, la sua convinzione che l’amputazione di Strike fosse stata autoinflitta era stata già chiara nella lettera. Non erano molti i mutilati famosi su cui si poteva puntare sognando che la loro condizione fosse volontaria.
Urla d’incoraggiamento giungevano ora dal salotto sottostante. Abbandonato il forum BIID, Robin passò alla sua seconda linea d’indagine.
Le piaceva pensare di aver sviluppato una pelle più dura da quando lavorava nell’agenzia investigativa. Nondimeno, le sue prime incursioni nelle fantasie degli acrotomofiliaci – coloro che sono sessualmente attratti dagli amputati – cui aveva avuto accesso con soltanto pochi clic del mouse, l’avevano lasciata con una sensazione di stretta allo stomaco che non l’aveva abbandonata nemmeno dopo che era uscita da Internet. Ora si trovava a leggere lo sfogo di un uomo (presumeva che lo fosse) la cui fantasia sessuale più eccitante era una donna con tutti e quattro gli arti amputati sopra l’articolazione del gomito e del ginocchio. Il punto preciso in cui gli arti erano tagliati sembrava una particolare ossessione. Un secondo uomo (non potevano essere donne, non c’era dubbio) si era masturbato fin dall’adolescenza immaginando di tagliare accidentalmente la propria gamba e quella del suo migliore amico. Ovunque si discuteva del fascino dei moncherini, delle limitazioni di movimento degli amputati, di quella che Robin immaginava essere la disabilità vista come una manifestazione estrema di bondage.
Mentre la caratteristica voce nasale del commentatore del Grand National farfugliava incomprensibile al piano di sotto e le urla d’incoraggiamento di suo fratello si facevano più forti, Robin visitò altri forum, in cerca di eventuali accenni a Strike o di un collegamento fra parafilia e violenza.
Robin notò che nessuna delle persone che riversavano nel forum le loro fantasie di amputati e amputazioni pareva eccitarsi per la violenza o il dolore. Anche l’uomo la cui fantasia sessuale contemplava se stesso e il suo amico che si amputavano le gambe insieme era chiaro ed eloquente su questo punto: il taglio era semplicemente il necessario preludio alla conquista dei moncherini.
Poteva una persona eccitata dall’amputazione di Strike tagliare la gamba di una donna e spedirgliela? Questo era il tipo di cosa che poteva pensare Matthew, disse sarcasticamente a se stessa Robin, perché per Matthew una persona così suonata da sentirsi attratta dai moncherini era per forza anche così matta da fare a pezzi la gente: l’avrebbe ritenuto senz’altro molto probabile. Invece, da quanto ricordava della lettera firmata RL, e dopo aver letto accuratamente gli sfoghi online dei suoi colleghi acrotomofiliaci, Robin pensava che RL, con quel suo ‘ingraziarsi’ Strike, intendesse indicare pratiche che Strike avrebbe trovato di gran lunga meno allettanti dell’amputazione originaria.
Naturalmente, RL poteva essere contemporaneamente acrotomofiliaco e psicopatico...
«SÌ! FANCULO! CINQUECENTO STERLINE!» urlava Martin. Dai colpi ritmici che venivano dal corridoio, pareva che Martin avesse trovato il salotto insufficiente per l’esecuzione completa di una danza di vittoria. Rowntree si svegliò, saltò in piedi ed emise un latrato assonnato. Il rumore era tale che Robin non sentì Matthew avvicinarsi fino a quando non aprì la porta. D’istinto, lei cliccò il mouse ripetutamente, percorrendo a ritroso i siti dedicati al feticismo sessuale degli amputati.
«Ciao» disse. «Intuisco che Ballabriggs ha vinto».
«Sì» disse Matthew.
Per la seconda volta quel giorno, le prese la mano. Robin spostò il portatile di lato e Matthew la fece alzare in piedi e l’abbracciò. Con il calore del suo corpo venne il sollievo, che la permeò e la calmò. Non sarebbe riuscita a sopportare un’altra notte di tensione.
Poi Matthew si scostò, gli occhi fissi su qualcosa dietro le spalle di lei.
«Cosa...?»
Robin abbassò gli occhi sul portatile. Al centro dello schermo bianco abbagliante c’era una definizione scritta in grande e riquadrata:
Acrotomofilia sost Parafilia in cui si raggiunge il soddisfacimento sessuale attraverso fantasie o atti che coinvolgono un amputato. |
Ci fu un breve silenzio.
«Quanti cavalli sono morti?» domandò Robin con un filo di voce.
«Due» rispose Matthew, e uscì dalla stanza.