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I Just Like To Be Bad41
A volte trovava difficile stare con gente che pensava di essere sua amica: gli uomini con cui faceva comunella quando aveva bisogno di soldi. Il furto era la loro occupazione principale, andare a puttane il sabato sera il loro svago; lui era benvisto da loro, un amico, pensavano, un compare, un loro pari. Un loro pari!
Il giorno in cui la polizia l’aveva trovata, il suo unico desiderio era stato di rimanersene solo soletto a godersi la copertura mediatica. Gli articoli dei quotidiani erano una bella lettura. Si sentiva orgoglioso: per la prima volta era stato capace di uccidere al chiuso, di prendersi il tempo necessario, di organizzare le cose come piaceva a lui. Voleva fare lo stesso con la Segretaria; avere il tempo di godersela viva prima di ucciderla.
L’unica delusione era che non si facesse alcun cenno alle lettere che avrebbero dovuto portare i poliziotti a quello stronzo di Strike, convincerli a interrogarlo, tampinarlo, spandere fango sul suo nome, lasciar pensare l’ottuso pubblico che lui fosse in qualche modo invischiato nella faccenda.
Però, c’erano colonne e colonne di reportage, fotografie dell’appartamento dove l’aveva uccisa, interviste al poliziotto fighetto. Conservava gli articoli: erano ricordi, come i pezzi di lei che aveva tenuto per la sua collezione privata.
Naturalmente, il suo orgoglio e il suo piacere dovevano essere tenuti nascosti a Cosa, perché Cosa richiedeva di essere trattata con attenzione in quel momento. Cosa non era felice, per niente. La vita non stava andando come si era aspettata che dovesse andare e lui doveva fingere che gliene fregasse qualcosa, fingere di essere interessato, fare il bravo ragazzo, perché Cosa gli era utile: Cosa portava a casa soldi e all’occorrenza gli avrebbe fornito un alibi. Non si poteva mai sapere se ti sarebbe servito. Gli era già successo di cavarsela per il rotto della cuffia.
La volta del suo secondo omicidio, a Milton Keynes. Mai cagare a casa tua: questo era sempre stato uno dei suoi principi guida. Non era mai stato prima a Milton Keynes e non c’era più andato da allora e non aveva alcun legame con quel posto. Aveva rubato una macchina, all’insaputa dei ragazzi, da solo. Era da un po’ che teneva pronte delle targhe false. Poi si era semplicemente messo a guidare, affidandosi alla fortuna. C’erano stati un paio di tentativi falliti dopo il suo primo omicidio: cercare di abbordare ragazze nei pub, nei club, cercare di isolarle non era facile com’era stato in passato. Il suo aspetto non era più quello di una volta, lo sapeva, ma non voleva creare una pista uccidendo le prostitute. La polizia ci metteva niente a fare due più due se ogni volta ti buttavi sullo stesso tipo. Una volta era riuscito a incastrare una ragazza brilla in un vicolo, ma prima ancora che riuscisse a tirar fuori il coltello, era sbucato un gruppo di ragazzi vocianti e lui se l’era data a gambe. Dopo questo, aveva rinunciato a cercare di agganciare le ragazze nel solito modo. Bisognava farlo con la forza.
Aveva cercato per ore con frustrazione crescente; non c’era ombra di vittima a Milton Keynes. A mezzanotte meno dieci era sul punto di arrendersi e di mettersi in cerca di una battona, quando l’aveva notata. Stava litigando col suo ragazzo in una rotatoria in mezzo alla strada, una moretta dai capelli corti in jeans. Passando, aveva dato una sbirciata alla coppia nello specchietto retrovisore. Aveva visto lei andare via, ubriaca di rabbia e di lacrime. L’uomo infuriato che si era lasciata alle spalle le aveva urlato dietro qualcosa, poi, con gesto schifato, era partito nella direzione opposta.
Lui aveva fatto un’inversione a U ed era tornato verso la ragazza, che singhiozzava camminando e si asciugava gli occhi nella manica.
Lui aveva tirato giù il finestrino.
«Tutto bene, tesoro?»
«Vaffanculo!»
Aveva segnato il proprio destino infilandosi tra i cespugli che costeggiavano la strada per allontanarsi dalla sua auto che procedeva lentamente. Altri cento metri e sarebbe arrivata a un tratto ben illuminato.
La sola cosa che aveva dovuto fare lui era stato togliersi dalla strada e parcheggiare. Prima di uscire dall’auto si era infilato il passamontagna, il coltello pronto in mano, ed era tornato con calma nel punto in cui lei era scomparsa. La sentiva che cercava di aprirsi una via tra alberi e arbusti, messi lì dagli urbanisti per ingentilire i contorni di quella grigia strada a doppia corsia. Non c’erano lampioni. Invisibile alle auto di passaggio, era entrato nello scuro fogliame. Mentre lei cercava il modo di tornare sul marciapiede, lui si era tenuto in agguato, pronto a spingerla di nuovo nel folto sotto la minaccia del coltello.
Aveva passato un’ora nei cespugli prima di abbandonare il cadavere. Le aveva strappato gli orecchini dai lobi e poi aveva vibrato il coltello con abbandono, tagliandola a pezzi. Un’interruzione nel traffico e lui si era fiondato, ansimante, nella macchina rubata ferma al buio, il passamontagna sempre in testa.
Si era allontanato, ogni particella di sé esultante e sazia, le tasche gocciolanti. Soltanto allora la nebbia si era alzata.
L’altra volta, aveva usato un’auto del lavoro, che aveva poi pulito a fondo sotto gli occhi dei suoi colleghi. In quel momento, invece, gli sembrava impossibile togliere il sangue da quei sedili di stoffa, e il suo DNA doveva essere dappertutto. Cosa doveva fare? Quella era la volta in cui era stato più vicino a un attacco di panico.
Aveva viaggiato per alcuni chilometri verso nord prima di abbandonare la macchina in un campo deserto lontano dalla strada principale, senza edifici nelle vicinanze. Lì, tremando per il freddo, aveva staccato le targhe false, immerso uno dei propri calzini nel serbatoio della benzina, poi gli aveva dato fuoco e l’aveva buttato sul sedile anteriore insanguinato. C’era voluto un po’ perché l’auto prendesse fuoco; lui era stato costretto ad avvicinarsi più volte per riappiccarlo, finché, alle tre del mattino, mentre lui osservava la scena rabbrividendo al riparo degli alberi, la macchina era finalmente esplosa. Poi si era messo a piovere.
Era inverno, sicché il passamontagna passava inosservato. Aveva seppellito le targhe false in un boschetto e si era incamminato a testa bassa, le mani nelle tasche sui suoi preziosi souvenir. Aveva pensato di seppellire anche quelli, ma non ci era riuscito. Aveva coperto le macchie di sangue sui pantaloni con il fango, tenuto addosso il passamontagna in stazione, si era finto ubriaco in un angolo dello scompartimento del treno per tenere lontana la gente, borbottando fra sé e sé, circondandosi di quell’aria di minaccia e delirio che funzionava da barriera protettiva quando desiderava essere lasciato in pace.
Il tempo di arrivare a casa e il cadavere era stato scoperto. L’aveva visto alla tele quella notte, mangiando con un vassoio sulle ginocchia. Avevano trovato l’auto incendiata, ma non le targhe e – questa era davvero la prova della sua ineguagliabile fortuna, della strana benedizione protettiva che il cosmo gli concedeva – il ragazzo con cui lei aveva litigato era stato arrestato, accusato e, per quanto le prove contro di lui fossero palesemente deboli, condannato! Il pensiero di quel testa di cazzo finito in galera al posto suo a volte lo faceva ancora ridere...
Tuttavia, quelle lunghe ore di vagabondaggio notturno, sapendo che un incontro con la polizia poteva essergli fatale, temendo che qualcuno gli facesse vuotare le tasche o che qualche passeggero dall’occhio lungo notasse del sangue secco su di lui, erano state una grande lezione. Non trascurare alcun dettaglio. Non lasciare nulla al caso.
Ecco perché doveva fare un salto fuori a prendere del Vicks VapoRub. La priorità numero uno, a partire da quel momento, era far sì che il nuovo stupido programma di Cosa non interferisse con il suo.