46

Subhuman60

 

Solo con i suoi trofei, si sentiva completo. Erano la prova della sua superiorità, della sua stupefacente abilità nello scivolare tra quelle scimmie di poliziotti e quelle pecore delle masse e prendersi quel che voleva, come un semidio.

Naturalmente, i trofei avevano anche un altro effetto.

Non gli tirava mai quando stava effettivamente uccidendo. Quando ci pensava, prima, sì: gli capitava di entrare in una sorta di frenesia onanistica al pensiero di quello che stava per fare, perfezionando e variando le diverse possibilità nella sua mente. Dopo – adesso, per esempio, mentre teneva in mano la fredda, gommosa, rinsecchita mammella che aveva asportato dal petto di Kelsey, già leggermente coriacea per le ripetute esposizioni all’aria fuori dal frigo – non aveva mai problemi. Gli sembrava un palo, adesso.

Nel freezer aveva le dita di quella nuova. Ne tirò fuori uno, se lo accostò alle labbra e poi lo morse, forte. Immaginò che fosse ancora attaccato alla ragazza, urlante di dolore. Masticò assaporando a fondo la sensazione della carne fredda che si spacca, dei denti che schiacciano l’osso. Una mano intanto armeggiava con i lacci dei calzoni della tuta...

Dopo rimise tutto nel frigo, chiuse lo sportello e gli diede una piccola pacca, sogghignando. Presto ci sarebbe stato molto di più lì dentro. La Segretaria non era bassa: uno e settanta o uno e settantacinque, secondo i suoi calcoli.

Un piccolo problema... non sapeva dov’era. Ne aveva perso le tracce. Quella mattina non era andata in ufficio. Lui era andato alla London School of Economics, dove aveva visto la troia biondo platino, ma, della Segretaria, nemmeno l’ombra. Aveva guardato dentro al Court e perfino al Tottenham. Era un intoppo temporaneo, però. L’avrebbe trovata. Alla peggio sarebbe andato a prendersela l’indomani mattina alla stazione di West Ealing.

Si preparò un caffè e lo allungò con un goccio di whisky di una bottiglia che era lì da mesi. Non c’era molto altro nel lurido buco dove nascondeva i suoi tesori, nel suo santuario segreto: un bollitore, poche tazze scheggiate, il frigo – l’altare della sua professione – un vecchio materasso per dormirci e una cassa per il suo iPod. Era importante, quest’ultimo. Era diventato parte del suo rito.

La prima volta che li aveva sentiti, aveva pensato che fossero un gruppo di merda, ma col crescere della sua ossessione per Strike era cresciuto anche il gusto per la loro musica. Gli piaceva ascoltarla in cuffia mentre seguiva la Segretaria, mentre puliva i coltelli. Adesso era musica sacra per lui. Alcuni dei testi gli rimanevano dentro come frammenti di una liturgia. Più le ascoltava, più gli sembrava che loro lo capissero.

Le donne erano ridotte all’essenziale quando si trovavano davanti al coltello. Il terrore le lavava. C’era una sorta di purezza, in loro, quando imploravano e supplicavano di non essere uccise. Sembrava che i Cult (come lui li chiamava dentro di sé) lo sapessero. Capivano.

Posò l’iPod sulla base e scelse uno dei suoi brani preferiti, Dr. Music. Poi andò al lavandino e allo specchio rotto che teneva lì per radersi, rasoio e forbici a portata di mano: tutti gli strumenti necessari di cui un uomo ha bisogno per trasformarsi totalmente.

Dall’unico altoparlante della base, Eric Bloom cantava:

 

Girl don’t stop that screamin’

You’re sounding so sincere...61