VOCI DAL PALAIS-ROYAL
Restif: «...questo centro del caos di una grande città». Richelieu scelse il luogo grazie alla sua usuale capacità di toccare il baricentro dei corpi: quel lungo quadrangolo che si chiamò allora Palais-Cardinal, poi Palais-Royal, poi Palais-Marchand, poi Palais-Ègalité, poi Jardin de la Révolution, per tornare poi a chiamarsi Palais-Royal, era il centro del centro del centro del vasto corpo della civilisation, ricavato in mezzo a diciotto anni di odi e di congiure. Pesanti polene e ancore in pietra sporgevano dall'antica facciata, a ricordare la sovrintendenza del Cardinale sulle acque e i commerci. Nella vasca della fontana centrale il piccolo Luigi Xiv rischiò di annegare, quando Anna d'Austria aveva preso il posto di Richelieu e Mazzarino doveva solo traversare il giardino del Palais-Cardinal per passare dal suo hòtel Turbeuf agli appartamenti della regina. Il futuro Re Sole non aveva ancora dieci anni e trascorreva lunghe ore con la figlia di una serva delle cameriere di sua madre. La chiamava «regina Maria» e giocava con lei al re e alla regina nelle cucine del palazzo. Il poligrafo Mercier aveva descritto la Parigi dell'anno 2440, «sogno se mai ve ne fu», diceva il sottotitolo: ma, come tutte le ragionevoli utopie, era un luogo di Tedio e Probità. A teatro, sopravvivevano solo spettacoli pieni di ammonimenti e personaggi positivi, un perpetuo Corneille zdanoviano, con forte sospetto verso Racine, perché questi, «dopo aver effeminato i suoi eroi, effemina i suoi spettatori». Le strade erano illuminate da costanti chiarori e le biblioteche epurate di ogni scritto dannoso. La «pericolosa fermentazione» degli Ebrei, invadenti e rapaci per colpa della «scarsa vigilanza dei secoli precedenti», era infine arrestata.
Sì, c'era stato bisogno di «saggezza, costanza e fermezza per decomporre quell'ardente fanatismo», ma ora finalmente gli Ebrei erano ridotti a «guadagnare la loro vita in una tranquillità assoluta», sulla quale Mercier non ci offre ulteriori precisazioni. Ma l'occhio di Mercier non si posava solo sulla pedante utopia. Era anche un occhio di vorace flaneur e alla fine del suo Tableau de Paris, dopo centoventidue capitoli sui cagnolini e sui roués, su Bicetre e sulle oscenità nelle chiese, sulle modiste e sul Parlamento, ci introduce a quel luogo impareggiato, pura essenza d'Occidente, da cui tutta la città era oscuramente calamitata, il Palais-Royal: «Punto unico sul globo. Visitate Londra, Amsterdam, Madrid, Vienna, non vedrete nulla di simile: un prigioniero potrebbe viverci senza annoiarsi mai, e non pensare alla libertà se non dopo vari anni. E' appunto questo il luogo che Platone voleva assegnare a un prigioniero, per trattenerlo senza carceriere, e senza violenza, con catene dolci e volontarie. Lo si chiama: la capitale di Parigi. Ci si trova tutto; ma metteteci un giovane che abbia vent'anni e cinquantamila livres di rendita, e non vorrà più, non saprà più uscire da questo luogo di fantasmagorie; diventerà un Rinaldo in questo palazzo di Armida; e se quell'eroe vi perse il suo tempo e quasi la sua gloria, il nostro giovane vi perderà il suo e forse anche la sua fortuna: d'ora in poi sarà soltanto lì il suo piacere; in qualsiasi altro luogo si annoierà. Questa plaga incantata è una piccola città lussuosa, racchiusa in una grande città; è il tempio della voluttà, dal quale i vizi brillanti hanno bandito persino il fantasma del pudore: non vi è locanda al mondo più graziosamente depravata; qui si ride, e l'innocenza arrossisce». «Qualsiasi cosa possiate desiderare, qui siete sicuri di trovarla; vi troverete persino corsi di fisica, di poesia, di chimica, di anatomia, di lingue, di storia naturale, ecc., ecc., ecc. Le donne, qui, hanno rinunciato alla seriosità pedantesca del vecchio hòtel de Rambouillet, e civettano con le scienze, che ormai per loro non sono altro che un giocattolo che le diverte non meno del loro barboncino e del loro pappagallo». «Qui si può vedere tutto, udire tutto, conoscere tutto; si trova quanto basta per fare di un giovane un piccolo erudito: ma è anche qui che l'impero del libertinaggio agisce su una gioventù sfrenata che, circolando poi nei vari ambienti, vi introduce un tono altrove inaudito: l'indecenza senza passione. Qui il libertinaggio è eterno; a ogni ora del giorno e della notte il suo tempio è aperto, e a prezzi di ogni tipo». «Tutti i ciaffi della moda, che durano un giorno, sono nella stessa bottega dei più preziosi gioielli astronomici, che durano secoli». «I caffè sono gremiti di uomini che hanno una sola occupazione per tutta la giornata: raccontare o ascoltare notizie, che diventano irriconoscibili per il colore che prendono da ciascuno, a seconda della loro condizione». «...il Palais-Royal inaridisce poi420 gli altri quartieri della città, che hanno già l'aria di province tristi e disabitate». «...questo labirinto di nastri, di garze, di nappe, di fiori, di vesti, di maschere, di astucci di rossetto, di pacchetti di spille lunghe mezzo piede». C'è un luogo in cui Parigi, in tutta la sua dispersione e frantumazione, nel suo aroma di piacere e di denaro, cresce e si addensa tutta entro la cornice di un palazzo, suo nitido guscio. E' il Palais-Royal, che diventa Palais-Marchand quando i debiti e l'avidità del duca d'Orléans aprono sotto i suoi portici botteghe, antri erotici, profumerie, sale da gioco. Sulla soglia della Rivoluzione, quelle arcate sono il magnete delle Voci, la sfera armillare delle cortigiane, la brace dei linciaggi. Da quelle finestre, ormai traversate soltanto da qualche grido di bambini che giocano, prima che guardassero Colette e Cocteau, vegliavano nell'oscurità i due custodi rivali dell'essere più credulo e più indifferente, il Signore del Luogo, duca d'Orléans, poi Philippe-Ègalité. Erano Madame de Genlis, che «per evitare lo scandalo della civetteria ha sempre ceduto facilmente» e Choderlos de Laclos, profondo negli intrighi, teoreta di una «galanteria scellerata» quale «preludio utile per lo scellerato politico». Uno dei più perfetti incipit della letteratura ci trasmette l'attrazione invincibile del Palais-Royal: «Che faccia bello o brutto tempo, è mia abitudine andare verso le cinque della sera a passeggiare al Palais-Royal. Sono io quello che si vede sempre sognare da solo, sulla panchina di d'Argenson. Mi intrattengo con me stesso di politica, di amore, di cose del gusto e della filosofia. Abbandono il mio spirito a tutto il suo libertinaggio. Lo lascio padrone di seguire la prima idea saggia o folle che si presenta, come vediamo nel viale di Foy i nostri giovani dissoluti seguire i passi di una cortigiana dall'aria sventata, dal viso ridente, dall'occhio vivace, dal naso in aria, e poi lasciare quella per un'altra, attaccandole tutte e non attaccandosi ad alcuna. I miei pensieri sono le mie puttane». Qui Diderot enuncia una poetica del pensiero che è l'opposto di quella propugnata nell. Encyclopédie e soprattutto è ben più radicale di quest'ultima nell'opporsi al passato. Qui il più pervicace dei peccati, la delectatio morosa, non solo viene rivendicato ma elevato a metodo. Ciò che una lunga catena di testimoni aveva creduto di dover estirpare prima di poter appena avvicinarsi al pensiero, diventa ora l'acqua primordiale del pensiero stesso. Palais-Royal è il luogo mnemotecnico appunto di questo pensiero: un essere senza nome, stabilito comodamente al centro del caos, segue filamenti di parole, immagini vaganti, innalza minuscoli edifici di carta, guarda nastri, fibbie e scialli scompigliati dal vento sotto le arcate, accoglie accenni di brividi, immerge la parola mentale nel brusio esteriore, accetta di essere invaso da luci e ombre imperiose, inattese, si abbandona, non sa dove va e neppure se quel turbinare non lo ricondurrà presto, senza ricordi, sulla panchina di d'Argenson. Luogo delle voci e della «profonda oziosità», magazzino universale, promessa di inesauribile disponibilità, terra di nessuno dove la polizia non mette piede, perché così vuole un privilegio degli Orléans, parco del Figlio del Cielo, paradisus inversus, «grande mercato della carne», annuncio della fantasmagoria industriale, che Benjamin corteggerà nei passages, il Palais-Royal è l'immagine di un bonheur non depurato, infantile e crudele, che esaspera sempre più il proprio piacere e vuole congiungerlo alla distruzione. Lì si compie il primo atto liturgico della Rivoluzione, quando il 12 luglio 1789 furono portati in corteo due busti di cera erano Necker e il duca d'Orléans sottratti al gabinetto già hoffmanniano delle cere di Curtius. «Il popolo, alla vista di quelle due specie di fantasmi, si abbandonava a congetture stravaganti» dice un testimone: a quelle congetture sarebbe seguita, due giorni dopo, la presa della Bastiglia. Durante tutta la Rivoluzione gli eventi saranno nutriti da fantasmi pullulanti nel Palais-Royal. Le Galeries de Bois, il Camp des Tartares, il Cirque, nomi di luoghi perduti del Palais-Royal, grandi sciarpe di mussola, almanacchi con la descrizione e i prezzi delle donne, trentuno case da gioco sotto i portici. L'Assemblea Nazionale accoglie nel 1790 una «petizione delle duemilacento donne pubbliche del Palais-Royal». Si portavano orecchini d'oro e d'argento a forma di ghigliottina. La Chevalier, una delle «ninfe» più ambite, era figlia del boia di Digione. Restif appagava la sua smania classificatoria e già fourierista elencando le «filles de l'allée des soupirs», le «sunamites», le «converseuses». Boutonderose, sempre vestita di lino; Dorine, la filosofa, aria distinta, generalmente vestita di mussola su fondo rosa; Elise, «donna tagliata dalla Voluttà più che dalle Grazie»; Pyramidale, bella bruna; Sensitive; Amaranthe; Barberose. Fra gli abitanti del Camp des Tartares c'erano una gigantessa prussiana, Mademoiselle Lapierre, alta due metri e venti; la bella Zulina, odalisca nuda e distesa, statua di cera in grandezza naturale, ricoperta di una pelle illusoria; l'enorme Paul Butterlbrodt, che pesava duecentotrentotto chili. Apparvero nelle boutiques le «vesti romane alla Clio», le «camicie greche», le «redingotes alla tessalica», che si aprivano sciogliendo un solo nodo.
Si lanciarono acconciature «alla sacrificata», «alla vittima». Negli appartamenti dei nobili emigrati al secondo piano delle galeries, ricevevano ora le «femmes du monde», quella decina di grandi cortigiane, con piccoli servi negri e apparato mondano, che erano «il vero pericolo», ben più delle «ninfe» che guidano i clienti in mansarde pagate al minuto, sparse nel dedalo di vasti corridoi, di là dai saloni sontuosi dove girava la pallina d'avorio della roulette. Il cervello era assalito dal profumo di quelle carni tiepide e truccate, dai vapori delle cucine spalancate, con la cacciagione appesa, dove convergevano i «cani calamitosi» cantati da Baudelaire, «quelli che errano solitari nei fossi sinuosi delle città immense», quelli «che dormono in un rudere alla periferia e vengono ogni giorno, a un'ora fissa, a reclamare il cartoccio di cibo alla porta di una cucina del Palais-Royal». Con il suo sguardo assorto di naturalista, Taine si china sul Palais-Royal e vi riconosce la vegetazione peculiare dei tempi nuovi, la fioritura velenosa dei declassati, che invischiano e corrodono gli ingranaggi rudimentali di ogni lotta di classe: «Centro della prostituzione, del gioco, dell'oziosità e dei libelli, il Palais-Royal attira a sé tutta quella popolazione senza radici che fluttua in una grande città e che non avendo né mestiere né casa, non vive che per la curiosità e per il piacere, clienti fissi dei caffè, frequentatori di bische, avventurieri e declassati, figli smarriti o superflui della letteratura, dell'arte e del foro, commessi di procuratore, studenti delle scuole, balordi, flaneurs, stranieri e abitanti di hòtels garnis; si dice che questi siano quarantamila a Parigi». Il Palais-Royal degli Orléans: «questa casa dove tutto è falso», folgora Michelet. Quella febbre arida e inebriante poteva svilupparsi solo in un luogo devoto a un karman di gioco voluttuoso, di fredda esasperazione e di inganno: potenze che appartengono al corteo dello scambio. Ma, quando ha inizio la liturgia della Rivoluzione, i ruoli si invertono: i declassati del Palais-Royal, questi speculatori della voce, diventano la voce del popolo, riempiono le gallerie delle assemblee e intimoriscono i delegati provinciali. Alla fine verrà il Consiglio di Stato, che Napoleone installa nel palazzo degli Orléans, a mettere i sigilli del controllo amministrativo su quel centro di fantasmi. Lì, una sera del 1787, il giovane ufficiale Bonaparte aveva accostato una pallida «ninfa», pur essendo «penetrato più di chiunque altro dell'odiosità della loro condizione». «Prenderete un gran freddo, come farete a passeggiare qua fuori?» disse. «Ah, signore, mi tiene su la speranza, devo finire la mia serata». Ci furono ancora incendi, restauri e barricate: ma fra lo Stato moderno e il Palais-Royal non era ammessa l'intesa. Quando Bonaparte conquistò il potere, la prima voce che giunse dal Palais-Royal diceva che il generale si apprestava a deportare le ragazze del luogo in Egitto. «Ma che orrore! Al diavolo, le deportazioni non si fanno così!» disse Bonaparte con finta indignazione, appena la voce gli venne riferita. E si mise a giocare con la testa di Rustan, il suo amato mamelucco. Oggi rimane un silenzio che risuona di rari passi. Un giardino pubblico, con sedie solitarie, bambini. Tornando a casa, la freddolosa Colette incontrava, fra il colonnato e il muro, «un moto perenne d'aria, a forma di zeta, che viene dalla piazza del Palais-Royal e si divide in due correnti: una abbraccia la rue de Montpensier, l'altra penetra nella galleria di Chartres. D'estate è lì che turbina la polvere; in autunno danza, nello stesso punto, un maelstrom di foglie precocemente cadute». Nel Palais-Royal si ride, perché «il comico è uno dei più chiari segni satanici dell'uomo», traccia indubitabile del peccato originale. Il marchio degli Orléans, la derisione coatta di tutto, si imprime anche sulla perfetta simmetria del loro luogo. Ma questo giardino è anche il ritiro del Vecchio della Montagna, nel punto dove la civiltà è più «turbolenta, debordante, mefitica». Baudelaire immagina la Virginie di Bernardin de Saint-Pierre, che commuoveva ancora Napoleone a Sant'Elena da imperatore, aveva detto a Bernardin: «Dovreste fornirci un Paul et Virginie ogni sei mesi», mentre cammina per le vie di Parigi. Colei che «simboleggia perfettamente la purezza e l'ingenuità assolute» gli appare «ancora tutta impregnata delle brume del mare e dorata dal sole dei tropici, con gli occhi pieni delle grandi immagini primitive delle onde, delle montagne e delle foreste». Anche lei si spinge verso il Palais-Royal. E lì, «per caso, innocentemente» Virginie vede esposta in una vetrina una «caricatura piena di fiele e di rancore, come sa farle una civiltà perspicace e annoiata». Forse un'immagine degli amori dell'aborrita Autrichienne? o una scena di depravazione al Parc aux Cerfs? Virginie si accorge di guardare l'ignoto: «da quella impressione le rimarrà uno strano malessere, qualcosa che somiglia alla paura».
Mentre osserviamo Virginie che osserva la caricatura al Palais-Royal, sentiamo vicino a noi il riso sommesso di Baudelaire. «Perché i fenomeni generati dalla caduta diventeranno i mezzi del riscatto», aggiunge la sua voce. L'Occidente sognava di essere enciclopedia e bordello, palcoscenico e museo, Eden, politecnico, serraglio: una volta quel sogno si stava compiendo, nel Palais-Royal. Ma il sogno ebbe paura di se stesso. Ci accompagna, sospeso.