IL PORTINAIO MOSCOVITA
Allungando le mani verso il calore del tè, mentre emanava dai vetri della guardiola la carnagione smorta, con due piccole chiazze rosse ai pomelli (una vera «carnagione del Cremlino», come si usava dire), del Vice (Anatolij Lozovskij: non più di due o tre volte l'anno metteva piede all'Istituto, e il suo apparire distribuiva trepidazione), Andrej ricordò i tempi in cui coloro che seguivano le bare avevano il viso vuoto di ogni sentimento, perché pronto a morire nella quotidianità della rivoluzione. Le parole, da allora, si erano depositate in una morchia, dapprima appiccicosa, e ormai indurita e ricoperta da un lieve (pressoché invisibile) strato di polvere. Quando si usciva dalle stanze della città, anguste e stantie, per un attimo ci si sentiva spinti verso certe strade asiatiche, ma presto anche lì si ritrovavano i fantasmi di quelle mura spesse otto metri dei gelidi, e molto distanti, monasteri, che accoglievano le anime dei prigionieri (fra di loro c'era suo figlio, dall'età di quindici anni) prima che li seppellissero ai loro piedi, come carcasse di animali domestici nella corte della fattoria. Seduto nella sua guardiola, opaco per la mancanza dell'alcool, data l'ora mattutina, prima che gli uffici si riempissero, Andrej guardava lo spicchio di muro grigiogiallastro di là dalla finestra e avvertiva il languore dello spazio dimenticato, invaso dalla vegetazione. Come ognuno di noi, era attratto dalle lontananze, quasi che ogni cosa remota e invisibile soffrisse per la sua assenza e lo chiamasse. Ma aveva imparato a diffidare di quelle voragini che si aprivano in lui ogni pochi attimi con la naturalezza con cui si chiude una porta. L'alcool, al contrario di quel che avviene nei paesi imperialisti, gli serviva soprattutto per limitare le percezioni, occludere gli spiragli, stabilire una corrente continua e opprimente che gli permettesse di amministrare senza dare nell'occhio le mansioni della portineria e, soprattutto, scavalcare le notti, quando volevano risucchiarlo verso le steppe e quei luoghi teneri e vasti dove, ancora venti anni prima, aveva prestato la sua opera di Miglioratore. Ma il passaggio più pericoloso era appunto in quello strappo della prima mattina, quando poteva essere fulminato dalla sobrietà. E la sobrietà era avvinta all'odio, che pure non gli apparteneva, ma era costretto a recepire dall'emanazione dei muri. L'odio lo disturbava, non riusciva ad ancorarlo ai fondi marini. Spesso si riequilibrava con un pensiero: vivere lì, nella guardiola della portineria dell'Istituto Go"rkij di Letteratura (nel settembre del 1929 Gorkij gli aveva scritto da Mosca: «Nonostante la grande tenerezza con cui dipinge i caratteri, Lei tuttavia li colora ironicamente, sicché appaiono ai lettori non tanto come dei rivoluzionari quanto come dei seminfermi di mente») era in fondo la massima approssimazione concessagli, in città, a una vita che aveva sempre stimato: quella dei caselli ferroviari con i loro pensierosi abitanti. I fianchi delle linee ferroviarie gli erano sempre apparsi calmi e intelligenti nel loro isolamento. Certo, lì nella guardiola non aveva occasione di vedere le locomotive: dove molto probabilmente si sarebbe notato alla guida suo padre, il meccanico ferroviere Platon Platonov, colui che per primo gli aveva raccontato che la Resurrezione dei Corpi sarebbe avvenuta nel cimitero delle macchine. Riparare le locomotive, attività paradisiaca.
Ma non gli avrebbero mai permesso quel lavoro, non solo per la tubercolosi e per l'alcool ma perché sarebbe stato scorretto affidare il trasporto sovietico, che è «il binario per la locomotiva della storia» (ricordava un piccolo manifesto incollato a un palo dell'Asia Centrale) a un podonok («feccia», lo aveva scritto Stalin di suo pugno in margine a un racconto di Andrej, anno 1931). «Parlare con se stesso è un'arte, conversare con gli altri è uno svago» pensò Andrej addentrandosi nel ripostiglio delle scope e degli stracci. Il suo corpo raggrinzito tendeva sempre più a somigliare, per la sua inespressività quieta, a quel minuscolo spettatore che vive in ogni uomo, che non partecipa all'azione né alla sofferenza, che serba sempre il sangue freddo, che è sempre il medesimo. Il suo compito è vedere e fare da testimone, ma non ha diritto di voto nella vita dell'uomo e non si conosce il perché della sua esistenza solitaria. «Anch'io vedo,» pensò Andrej «ma non potrei mai raccontare che vedo». Quel cantuccio della coscienza è illuminato giorno e notte, come la portineria di un grande caseggiato. Il portinaio vigila sempre, conosce tutti gli abitanti della casa, ma non uno di essi si consiglia mai con lui sui propri affari. Entrano ed escono, il portinaio-spettatore li segue con gli occhi. L'inquilino, uscendo di casa, vi lascia la moglie e non è mai geloso del portinaio. Questi appare talvolta triste nella sua impotente sagacia, ma sempre cortese e riservato. E' l'eunuco dell'anima dell'uomo. Abita altrove. In caso d'incendio telefona ai vigili del fuoco e osserva dal di fuori lo svolgersi degli eventi. «Chi mai direbbe che, prima di diventare questo essere, ho fatto l'ingegnere, ho partecipato alla grande bonifica, e volevo far risalire le acque dalle Sorgenti Gialle per fondare il socialismo nella steppa?».
(...ascoltare una storia che è una persona, un tempo mutato in spazio, uno spazio che si dilata e arrotola nel tempo, poggiando su un falso presente, lucida cavità, rivolta a un passato che risuona; non sapendo dove affondano i piedi: ma intorno appaiono da ogni parte le nobili sopravvivenze di un'architettura, seppure non più solida di una pellicola frusciante sopra altre superfici, delle quali nessuno lederà lo smalto; traversandole, ci ritrovammo sulla terra attuale, carichi di ricordi labili e sovrapposti, eppure ormai come visitatori, estranei a questo e a ogni altro suolo). : Le disavventure di homo naturalis.
Emana un odore, per mero esercizio del vivere, ha il gesto brusco e irregolare. Colto da improvvisi sopori, passeggia, ascolta, la curiosità lo tiene aggiogato. Fiuta cautamente ogni angolo prima di fissarvi temporanea dimora. Lubrico verso le donne di cucina, miope verso le sorti lontane, cedevole al sentimento sotto ruvida e fragile scorza, rimembra le solitudini infantili. Slittare è necessità per lui, nei pensieri come nelle voluttà, diffidando della loro origine.
Scivolare, mai soffermarsi su un punto e svellere il terreno, perché divora le gambe. Distratto e inconseguente, vorrebbe offrirsi come spirito grato, e comunque lieto: ma si fa sorprendere in certe laide parole che lasciano una traccia di acido, accompagnate da un riso avvilente, coperte da una falsa gentilezza. Gode a sfiorare la gromma rancida, inspurgabile sul fondo dell'essere. Come in una botte fasciata, chiusa la vista da ogni parte, si avvoltola su di sé, scosso dal riso inestinguibile dell'uomo deiectus, con piccole forbici nervose recide ogni laccio. E' un riso che prende alla gola, quale Molière ebbe sulla scena, prima di soffocare.