INFIDE INEZIE
Non certo la ragione, maneggiata dagli increduli, spaventava Pascal. Con poche mosse di scherma poteva trafiggerla. Lo inquietava, invece, la credulità degli increduli: l'inclinazione ad abbandonarsi alla precarietà, sapendo della sua precarietà, la fede intatta nei simulacri momentanei. Un devoto non moderno, di quella specie a cui Pascal non poteva e non voleva più appartenere, non si sarebbe così esacerbato: avrebbe volto l'indice sul mondo e gli astri, avrebbe invitato ad ascoltare i segni di una divina economia che vi risuonavano. Pascal condivideva con gli increduli la percezione dell'assenza divina dal mondo visibile. Per lui, il mondo poteva servire soltanto da catapulta teologica per proiettarci in qualcosa che con il mondo sdegnava il contatto. Ma la prova attraverso l'assenza è la più dura. Guardando gli uomini rapiti nel divertissement, la loro orrifica serietà nel guatare la preda, a caccia; o nel provare un passo di danza; o nel saggiare una stoffa riconosceva in loro l'immagine irrisa della devozione antica, quando i segni del mondo bastavano a colmare l'anima di reverenza. Fénelon, nella sua implacabile dolcezza, vedeva bene il nemico dei suoi consigli spirituali: «All'interno, avete da sormontare il gusto di una vita delicata, uno spirito altero e sdegnoso, uniti a una lunga abitudine alla dissipazione» scriveva alla contessa di Grammont. Quella nuova forma del male poteva apparire blanda, eppure un tale gorgo idiosincratico agiva «come un torrente che trascina nonostante le migliori risoluzioni». L'arbitrio nobiliare, la distanza gerarchica, ormai distaccati da ogni contatto con il suolo, da ogni scambio di obblighi feudali, da ogni funzione immediata, ma solo abbandonati al gioco crudele dei favori di Corte, si ritrovavano, si ravvivavano sino a un tacito fanatismo nell'elaborazione dei gusti, nel perseguimento delle delicatezze, nella graduale scoperta di un'unicità nello stile. E su tutto questo finiva ormai per esercitarsi l'alterezza, come nella disputa per uno sgabello, per un posto in carrozza. In ciascuna di quelle improvvise, passionali esacerbazioni della sensibilità Fénelon riconosceva «le brecce che ha fatto il mondo». Così i piaceri della conversazione potevano diventare letali e quasi l'immagine più concreta, incessante del Male ultimo: «Non sarà mai possibile che digiuniate troppo aspramente dei piaceri di una conversazione mondana». Le Pensées di Pascal, oggi lette come breviario di ogni inquietudine intima, erano state intese dall'autore come un arsenale di armi affilate, mortali, da sguainare nel mondo. L'urgenza vibrante dell'annotazione non vuole assimilare la scrittura ai palpiti dell'anima (quale futilità sarebbe!): è l'impazienza di chi vuole precedere il nemico di un attimo nel portare il colpo. Nasce il moderno quando gli occhi che guardano il mondo vi scorgono «questo caos e questa confusione mostruosa», ma non si allarmano troppo, anzi li esalta subito la prospettiva di inventare una strategia di movimento all'interno di quel caos, un gioco nuovo rispetto al quale tutti i precedenti sembreranno ciceroniani. E' uno sguardo empio di cui solo i mistici sono capaci (Pascal fu il primo fra loro).
La Storia di cui qui si parla è «sinottica e simultanea», è lo smisurato tappeto senza margini dove «è possibile giustapporre e annodare strettamente, sotto lo sguardo, gli avvenimenti più disparati o i più distanti», dove i fatti e i commenti sui fatti e le invenzioni sui fatti e i fantasmi dei fatti rimangono perpetuamente avvinti in un letto di tortura e di piacere, dove le forme e le forze non riescono a districarsi, dove lo sguardo è da sempre esposto al «pericolo terribile di toccare i simboli». Qualsiasi giudizio è qui un filo perduto nel groviglio del tappeto e la sua unica pretesa è quella di aggiungersi col suo tenue colore all'intreccio del tutto. Talleyrand:
«Vi era in Necker qualcosa che gli impediva di presentire le conseguenze delle misure che egli stesso prendeva e di paventarle. Si persuadeva che avrebbe avuto un'influenza onnipotente sugli Stati Generali, che soprattutto i membri del terzo ordine sarebbero stati a sentirlo come un oracolo, non avrebbero visto altro che attraverso i suoi occhi, non avrebbero fatto nulla che da lui non fosse approvato e non si sarebbero serviti, contro il suo parere, delle armi che egli metteva nelle loro mani. Illusione che doveva durare assai poco. Precipitato da quella cima dove il suo solo amor proprio lo aveva posto, e dalla quale si era lusingato di dominare gli avvenimenti, andò a piangere nel suo ritiro su quei mali che non aveva voluto provocare, su quei crimini di cui la sua probità aveva orrore, ma che, se fosse stato più abile e meno presuntuoso, forse sarebbe riuscito a risparmiare alla Francia e al mondo. «La sua presunzione lo rese assolutamente incapace di vedere che il movimento che esisteva allora in Francia era prodotto da una passione, o piuttosto dalle sregolatezze di una passione comune a tutti gli uomini: la vanità. Presso quasi tutti i popoli essa esiste soltanto in forma subordinata, e forma solo una sfumatura del carattere nazionale, o altrimenti si rivolge con intensità a un solo oggetto, mentre presso i Francesi, come un tempo presso i Galli, loro avi, essa si mescola con tutto, e domina in tutte le cose con una energia individuale e collettiva che la rende capace dei più grandi eccessi. «Nella Rivoluzione francese, tale passione non è stata la sola a figurare; essa ne ha risvegliate altre, che ha chiamate in suo aiuto. Ma queste ultime le sono rimaste subordinate; hanno preso i suoi colori e il suo spirito, hanno agito nel suo senso e per i suoi fini. Essa ha dato l'impulso e diretto il movimento a sufficienza perché si possa dire che la Rivoluzione francese è nata dalla vanità». Benjamin Constant: «La mania di quasi tutti gli uomini è di mostrarsi al di sopra di ciò che sono; la mania degli scrittori è di mostrarsi uomini di Stato. Di conseguenza, tutti i grandi procedimenti di forza extragiudiziaria, tutti i ricorsi alle misure illegali in situazioni di pericolo sono stati, secolo dopo secolo, raccontati con rispetto e descritti con compiacimento. L'autore, tranquillamente seduto al suo tavolino, lancia in tutte le direzioni l'arbitrio, e tenta di immettere nel proprio stile la rapidità che raccomanda nelle misure; per un attimo, egli si crede investito del potere, poiché ne predica l'abuso; e la sua vita speculativa s'infiamma con tutte le dimostrazioni di forza e di potenza con le quali decora le sue frasi; così egli si dona qualcosa del piacere dell'autorità, ripete a squarciagola le grandi parole di salvezza del popolo, di legge suprema, di interesse pubblico; si estasia della propria profondità e si meraviglia della propria energia. Povero imbecille! Parla a uomini che non chiedono di meglio che ascoltarlo e che, alla prima occasione, faranno su lui stesso l'esperienza della sua teoria. «Questa vanità, che ha distorto il giudizio di tanti scrittori, ha portato più inconvenienti di quel che si pensa durante i nostri conflitti civili.
Tutti gli spiriti mediocri, conquistatori di una porzione dell'autorità, erano gonfi di tutte queste massime, tanto più accette alla stupidità in quanto le servivano a recidere i nodi che essa non può slegare. Non sognavano altro che misure di salute pubblica, grandi misure, colpi di Stato». La teoria della vanità come molla non trascurabile dei grandi avvenimenti rivoluzionari, che poteva apparire una boutade in Talleyrand, trova in Constant un solido appoggio. C'è di fatto una complicità fra un'emergente ebetudine democratica e il gonfiarsi di certi gens de lettres che magari si trovano in una posizione meschina nella società e ora sentono d'un tratto di poter governare il mondo dal loro tavolino. Tutto questo culmina e si rovescia con Stirner. I suoi predecessori erano timorosi, sentivano il bisogno di camuffare l'Arbitrio dietro un qualche Bene, i primi che imbrogliavano erano loro stessi. Stirner va molto più in là: giunge a dedurre l'antisocialità più radicale (per l'unico, e per l'afasica banda degli unici) dall'incombente pretesa di additare alla società qual è il suo Bene, costringendola ad attenervisi.