«ALL'ORGANIZZAZIONE NON PIACEREBBE»
Questa frase è la forma più recente e praticata della condanna a morte. Perfetta neutralità ideologica: dal cinema nero hollywoodiano alla Lubljanka alla antica mafia mediterranea, tutte le «organizzazioni» concordano nella asciuttezza della formulazione. «Organizzazione»: questa parola incombente che incontriamo ovunque, al piede della scala e in cima, ora è la parola metafisica, anzi: è la parola in cui tutta la metafisica sembra aver migrato, come una famiglia di nobili decaduti in un tricamere di periferia. Eppure da quel loro squallido osservatorio sembrano amministrare un potere che mai si era tanto esteso. Per secoli le società si sono organizzate, ma si direbbe senza accorgersene. Parlavano d'altro, se mai: parlavano di un ordine. E ora si spalanca il baratro fra l'ordine e l'organizzazione. Quest'ultima nasce quando dell'ordine si è persa la traccia o altrimenti sussiste come un fuoco fatuo. L'organizzazione si fonda sempre su se stessa, sul niente, sul puto funzionamento. L'ordine si fonda sempre su un altro ordine, di cui è l'immagine, il gemello visibile. All'origine dell'organizzazione: il complotto. All'origine del complotto: la società segreta. All'origine della società segreta: l'iniziazione. All'origine dell'iniziazione: l'origine. Il Quattrocento italiano, con i suoi Stati troppo stretti, in perenne attrito, e obbligati perciò alla ricerca di un qualche equilibrio, prefigura la storia europea dei secoli successivi, dove l'Italia non avrà più parte, se non come strumento. Appunto perché nato al centro di quell'officina dove si sperimentava la nuova nozione di equilibrio, Machiavelli è tanto in anticipo sugli altri europei. Con la Riforma, quindi con il disconoscimento del principio gerarchico (Chiesa e Impero), l'equilibrio in quanto equivalente della pax in un ambito di puro gioco e combinazione di forze si svela quale unico residuo criterio di riferimento. La teoria politica seicentesca sarà innanzitutto dedicata all'assorbimento di tanto brutale novità dietro un così nobile eufemismo: quell'equilibrio che potrebbe quasi presentarsi come una secolarizzazione della harmonia mundi. Sospinti da questa laica furia, ci rivolgeremo però al dolce arcivescovo Fénelon per avere una formulazione soave e spietata delle ragioni che fondano la necessità dell'equilibrio: «Gli Stati vicini non sono solo obbligati a trattarsi mutuamente secondo le regole di giustizia e buona fede; ma altresì, per la loro sicurezza particolare e insieme per l'interesse comune, devono comporre una sorta di società e di repubblica generale. «Occorre contare sul fatto che a lungo andare la potenza più grande prevale sempre e rovescia le altre, se le altre non si riuniscono per farle da contrappeso. Non è permesso sperare, fra gli uomini, che una potenza superiore rimanga nei limiti di una esatta moderazione e che voglia, da una posizione di forza, soltanto ciò che potrebbe ottenere da una posizione di debolezza. Quand'anche un principe fosse perfetto quanto basta per fare un uso così mirabile della sua prosperità, tale meraviglia cesserebbe con il suo stesso regno. L'ambizione naturale dei sovrani, le adulazioni dei consiglieri e la prevenzione delle nazioni intere non permettono di credere che una nazione che può soggiogare le altre se ne astenga per secoli interi. Un regno in cui scoppiasse una sì straordinaria giustizia sarebbe un ornamento della storia e un prodigio che mai più potremmo rivedere». E' questa l'ondosa glossa europea alla frase di Tucidide: «Crediamo per tradizione riguardo agli dèi e vediamo per esperienza riguardo agli uomini che sempre, per una necessità di natura, ogni essere esercita tutto il potere di cui dispone». La guerra civile, «la specie peggiore di guerra», sta all'inizio e alla fine dell'epoca moderna. Livida, irridente epifania del dio Terminus, essa segna d'improvviso il limite di ciò che si era dichiarato come negazione del limite. Il moderno è grande quando sottomette una pretesa di verità a critica serrata e di conseguenza rinuncia a porla. Il moderno è assassino, con inaudita dovizia di mezzi, quando pretende di avere scoperto una sua verità. Carl Schmitt ha dimostrato una volta per tutte che, per sfuggire alla furia delle guerre di religione, il gesto salutare è stato la rinuncia al justum bellum. Di conseguenza, il delicato passaggio dalla justa causa belli al justus hostis ha reso possibile «il fatto stupefacente che per duecento anni in terra europea non ha avuto luogo una guerra di annientamento». In quel breve intervallo lo jus publicum Europaeum si combinava con l'avviarsi del funzionamento della machina machinarum, «prima macchina moderna e insieme presupposto concreto di tutte le altre macchine tecniche»: lo Stato moderno. Allora la «guerre en forme», questo gioco crudele, salvato però dal rigore della sua regola, conferiva una nuova unità a un certo ambito spaziale (una certa parte dell'Europa) e lo faceva coincidere con il luogo stesso della civiltà. Poi il gioco si frantuma dall'interno: nell'agosto 1914 comincia una guerra che si presenta come tante altre dispute dinastiche e invece si rivela subito essere la prima guerra tecnica, che nega già nel suo apparato ogni possibilità di «guerre en forme». Così emerge anche la guerra rivoluzionaria, variante finale della guerra di religione, sigillo delle guerre civili. La forma moderna della verità, la più efficace, la più distruttiva, è tautologica: ciò che è rivoluzionario è giusto perché è rivoluzionario: con ciò si ripropone e trova sbrigativa risposta la questione della justa causa belli. Per una delle molte beffe, per uno degli inesauribili equivoci provocati dall'avvolgimento del mondo sotto la cappa dell'Occidente, quando in Iran suonerà il richiamo islamico alla guerra santa essa sarà già una parodia della guerra rivoluzionaria e l'intelligencija occidentale non avrà difficoltà a riconoscerla come propria. Così almeno all'inizio... La verità piena e irraggiante della fede viene sottomessa dalla verità procedurale e tautologica dell'Occidente estremo, e proprio nel momento in cui si dichiara il rigetto dell'Occidente. Così almeno all'inizio... Come Benjamin guardò al Trauerspiel barocco dalla vetrata della morgue espressionista, così Schmitt ha visto le guerre di religione attraverso la pelliccia insanguinata di Rathenau, le scorribande dei proscritti di von Salomon e i carretti carichi di banconote dell'inflazione weimariana. Ma così ha percepito un disegno che fino a lui era sempre sfuggito: la costellazione labile dello jus publicum Europaeum, preceduta e seguita dal massacro, che all'inizio si chiamava guerra di religione e oggi ha molti nomi innanzitutto perché non c'è più modo di distinguere con qualche nettezza la «guerre en forme» dalla guerra totale e quest'ultima dalla guerra civile, e quest'ultima dalla guerra rivoluzionaria, e quest'ultima dalla «guerra civile globale», che accoglie in sé e custodisce tutte le precedenti categorie. Corea, Vietnam: primi esempi di circoscritte e remote guerre civili che coinvolgono le due grandi potenze, con un apparato militare pari o superiore a quello che era stato dispiegato nella guerra mondiale. La guerra arabo-israeliana: una guerra civile che è anche guerra di razza e di religione, e offre un teatro di negoziato permanente alle potenze. I terroristi che sequestrano aerei (o anche soltanto fanno saltare agenzie di linee aeree) a migliaia di chilometri di distanza dal nemico: un atto che ricorda con sarcasmo l'avvenuto sradicamento del nomos da qualsiasi suolo e l'instaurazione di un ordine che poggia su niente e perciò non ha confini, ma implica che in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo appartenga agli eventi del teatro di guerra l'uccisione di un qualche hostis injustus, prescelto o eletto dal caso. Un passaggio acrobatico, nella storia politica di Talleyrand, è il periodo del governo provvisorio da lui presieduto nel 1814: allora tutta l'Europa sembra sospesa ad un punto, che è la sua camera da letto, al mezzanino del palazzo di rue Saint-Florentin. Talleyrand, a quel tempo, era già il relitto di tre diverse maree: vescovo dell'Ancien Régime, sacrilego redattore di testi rivoluzionari, ministro di Napoleone. Ma nessuno osava dirlo e Alessandro I dormiva al sicuro solo qualche metro sopra di lui. Vitrolles, che osservava Talleyrand con cruda curiosità, seppure con devozione, perché credeva ancora di avvertire in lui la presenza di «misteri impenetrabili ai non iniziati», annota: «E' difficile farsi un'idea di che cos'era il governo provvisorio; era contenuto tutto nella camera da letto di M. de Talleyrand, al mezzanino del suo palazzo; alcuni scrivani raccolti sotto la direzione di Dupont de Nemours, l'ultimo e il migliore degli economisti, formavano il personale d'ufficio, e Roux-Laborie era il vice-segretario generale. La camera di M. de Talleyrand era aperta a tutte le sue conoscenze, uomini e donne, e le conversazioni di tutta questa gente che entrava e usciva erano le vere deliberazioni sugli affari di Stato. Qualche articolo più o meno spiritoso da inserire nei giornali era il gran lavoro, e questo si chiamava fare l'opinione. Inoltre, se succedeva che un idea fra tutte quelle che passavano per la testa di quelli che andavano e venivano avesse sedotto il principe di Talleyrand, egli ne faceva un decreto, e i membri del governo lo firmavano sulla fiducia quando venivano, a loro volta, a fare visita al loro presidente». Tutta l'ingombrante liturgia del potere viene qui dissipata in un chiacchiericcio aperto a chi va e chi viene. Eppure la sovranità permane, come un cristallo intatto, anche se ora si nasconde sotto i molti cuscini del Principe. Per molto tempo l'Europa non la conoscerà più in una forma così azzardata e così vicina al suo stadio primigenio, aura e miasma. Già pochi mesi dopo, al Congresso di Vienna, la sovranità appare corrosa da una certa inconsistenza interna. Una parentela morganatica collega i monarchi del Congresso di Vienna e i parlamentari della repubblica di Weimar. E presto si accendono migliaia di fiaccole nello stadio di Norimberga per evocare dal buio l'essenza dileguata della sovranità, prima di bagnarla nel sangue, per ravvivarne il pallore larvale. Gli esprits forts del Xviii sono diventati gli Homais del Xix e il buon senso del Xx. Finora due soli tentativi di mettere in atto un al di là del nichilismo: gli anni di Hitler, riunione di sangue e terra, sconfitta degli acidi ebraici dell'intelletto; gli anni di Stalin, avvio del «regno della libertà», ingegneria dell'anima. Un giorno gli Stati Uniti si trovarono a essere un impero. Ma non sapevano che cos'è un impero. Credettero che fosse la più grande fra le corporations. Se il profano, cioè il profanatore, divora ciò che è sacro, sacro e profano si congiungono in una inaudita commistione che renderà per sempre impossibile, ormai, di sceverarli. Solo l'incommensurabile aveva valore, ora solo il valore è commensurabile, mentre la natura, che non ha valore, torna a essere incommensurabile. Democrazia: estendere a tutti il privilegio di accedere a cose che non sussistono più. L'inevitabile scelta politica che oggi si offre: essere governati dal denaro o dalla delazione? Oh, quanto più amabile e distratto il denaro... L'idea fondatrice di ogni progressismo ha un'aria di grande ragionevolezza e si compendia in poche righe annotate da Hugo nel 1830, data fausta del ragionevole progressismo: «La repubblica, secondo me, è la società sovrana sulla società; che si protegge, guardia nazionale; che si giudica, giurie; che si amministra, comune; che si governa, collegio elettorale». Che cosa pretendere di più evidente, convincente, lineare? Di qui la sorpresa, l'inerme sbigottimento, quando la società divenne, nel secolo successivo, finalmente «sovrana sulla società» e subito si svelò essere non già una democrazia o una repubblica, come sperava Hugo, ma una teocrazia sperimentale, i cui primi sacerdoti-ingegneri si chiamarono Lenin e Hitler. Seguirono poi tanti altri, più ligi all'anonimato aziendale. Tutto questo sembra dipendere da un meccanismo insondato della mente per cui la parola sovranità trascina dietro di sé il corteo di tutti gli dèi. E, se gli dèi non possono più essere nominati, si trascinerà dietro soltanto l'Inquisizione nel nome di Dio, che ora è il nome di essa stessa. Una sovranità disincantata non può esistere, come l'aritmetica non può non contenere proposizioni indecidibili. Tutto il futuro politico dipende dall'indagine su tale teorema della sovranità, che è ancora ben lontano dall'apparire evidente, convincente, lineare.