IL DEMONE DELLA RIPETIZIONE



La ripetizione che infuria nella storia presuppone tutta la storia della ripetizione. Quanto più risaliamo indietro, tanto più la ripetizione si avvolge di maestà. Quanto più si diradano le tracce scritte, tanto più imponente è in esse la parte della ripetizione. Sembra che si traccino segni innanzitutto per indicare come qualcosa si deve ripetere.

L'etichetta è il primo genere letterario. Perché qualcosa abbia senso, occorre che lo si ripeta e per ripetere una cosa occorre ripetere tutto. La consacrazione regale, ma anche una spedizione di caccia, costringono a ricapitolare la storia dalle origini, finché da essa si sprigioni la minuscola gemma che è l'atto nuovo, protetto e sostenuto da tutti i precedenti, ultima maglia al centro della rete immane. Precipitando nel corso del tempo verso di noi, i poteri della ripetizione vengono gradualmente cassati: come alla dea negli Inferi, a ogni soglia un manto e un diadema le vengono strappati dalla Mano Invisibile. Alla fine non appare una nudità abbagliante, ma una carcassa vuota, un'eredità animale che la freddezza della mente amerebbe dissolvere. Il vero Uomo Nuovo, colui che si è chimicamente distillato nella solitudine dell'Ego algebrico, Paul Valéry, guarda a quella carcassa come al più tedioso morbo: lo chiama «ciclosi», «ciclomania della nostra essenza». E così parla: «Sono nato, a vent'anni, esasperato dalla ripetizione vale a dire contro la vita.

Alzarsi, vestirsi, mangiare, eliminare, co-242 ricarsi e sempre queste stagioni, questi astri, E la storia! «so tutto a memoria «sino alla follia... Questo tavolo si ripete davanti ai miei occhi da 39 anni! Per questo non posso sopportare la campagna, i lavori della terra, i solchi, l'attesa delle messi Tutto questo passa per «poetico». «Ma per me poetico è ciò che si oppone a questa triste industria, mortalmente circolare come la rotazione diurna e l'altra». Al di sotto dell'Acheronte, che Freud si era ripromesso di scuotere in epigrafe alla Traumdeutung, si apre la regione delle germinazioni cieche, il vasto silenzio inorganico che talvolta è ferito dall'improbabile vita: a questo luogo abissale, ben «al di là del principio di piacere», Freud giunse subito dopo la fine della guerra. Ma che cosa lo spingeva a mettere in questione «venticinque anni di lavoro intenso», e oltre tutto con teorie che era facile giudicare «mistiche», mescolandole all'obbrobrio libidico del figlio traditore, C.G. Jung? Che cosa turbava così potentemente, ancora una volta, la psiche di quel singolo, Sigmund Freud, che aveva la peculiarità di ricapitolare in ciascuno dei suoi tremori tutta la cronaca occidentale? Era la ripetizione. Con il perfetto candore che, unito all'«imparzialità dell'intelletto» nel descrivere le «cose ultime», fanno di lui l'unico degli analisti che, in tutta la sua opera, sia riuscito a innalzarsi allo status sacrificale di Paziente, Freud ci racconta: «Una volta, mentre percorrevo in un assolato pomeriggio estivo le strade sconosciute e deserte di una cittadina italiana, capitai in una zona sul cui carattere non potevano esserci dubbi. Alle finestre delle casette non si vedevano che donne imbellettate, e mi affrettai a svoltare appena possibile abbandonando la stradina. Ma dopo aver vagato senza meta per un po', improvvisamente mi ritrovai nella medesima strada, dove la mia presenza cominciò ad attirare l'attenzione, e la mia rapida ritirata ebbe un'unica conseguenza: dopo qualche altro giro vizioso mi ritrovai per la terza volta nel medesimo luogo. A questo punto mi colse un sentimento che non posso definire altro che perturbante, e fui contento quando rinunciando ad altri giri esplorativi mi ritrovai nella piazza che avevo lasciato poco prima». Poi Freud passa a un secondo esempio, dove la malizia della «ripetizione involontaria» appare ancora più insinuante, perché prende la forma del puro caso, della coincidenza che viene incontro dal mondo senza chiedere al soggetto neppure l'ambigua collaborazione di un vagare senza meta in terra straniera. E qui Freud, come tante altre volte, ci nasconde che sta riferendo una propria esperienza: «Nessuno presta particolare attenzione se, depositando il soprabito al guardaroba, si vede porgere una contromarca con un certo numero mettiamo 62 o se trova che la cabina che gli è stata assegnata sulla nave porta questo numero. Ma l'impressione cambia se queste due circostanze, di per sé irrilevanti, si susseguono l'una all'altra e capita d'imbattersi nel numero 62 più volte nello stesso giorno; tanto più poi se si dovesse addirittura osservare che in tutto ciò che porta l'indicazione di un numero indirizzi, camere d'albergo, posti in treno e così via il numero che compare è sempre il medesimo, in tutto o in parte. Una cosa del genere la troveremmo perturbante» e chi non fosse solidamente corazzato contro le tentazioni della superstizione si sentirebbe incline ad attribuire a questo ostinato ritorno del medesimo numero un significato misterioso, a vedervi magari un segno dell'età che gli sarà consentito di raggiungere». La persona «non corazzata contro le tentazioni della superstizione» era Freud stesso dinanzi alle ripetute apparizioni del numero 62 nel corso del suo viaggio in Grecia nel 1909, quando era ossessionato dal pensiero di dover morire a 62 anni. E, mentre scriveva quelle righe di Das Unheimliche, tacendo che lo riguardavano direttamente, Freud aveva varcato da pochi mesi la soglia dei 62 anni. Subito dopo aver esposto questi due esempi, Freud introduce per la prima volta in modo articolato (e già rimandando a Jenseits des Lustprinzips, che sarebbe apparso di lì a poco) la coazione a ripetere, ultima e sovrana divinità della sua mitologia: «Nell'inconscio psichico si può riconoscere il dominio di una coa244zione a ripetere, la quale probabilmente dipende dalla natura più intima delle pulsioni stesse, è abbastanza forte da imporsi a dispetto del principio di piacere, conferisce a determinati aspetti della vita psichica un carattere demoniaco, si esprime ancora assai chiaramente negli impulsi del bambino nella prima età e domina una parte di ciò che avviene durante il trattamento analitico dei nevrotici». Si imponeva qui di forare la realtà endopsichica, trovare un accesso alla metapsicologia, tornare a trattare con la potenza demoniaca della natura. La stessa ripetizione che la natura incessantemente ci offre nei processi delle sue forme affiora ovunque nella vita psichica: non solo nel fortda ripetuto dal bambino che fa sparire e riapparire il rocchetto per dominare l'angoscia per l'assenza della madre; non solo nei sogni di chi soffre di nevrosi traumatica e torna sempre a incontrarvi il proprio trauma; non solo nel comportamento del paziente che, spinto dalla nevrosi da transfert, mette in atto i propri elementi rimossi invece di ricordarli; non solo nella storia dell'embrione che è «costretto a ricapitolare, nel suo sviluppo, le strutture di tutte le forme da cui l'animale deriva, anziché muovere verso la propria configurazione definitiva per la via più rapida e breve» (tutti casi trattati in Jenseits). Vi è un'altra ripetizione, ancora più minacciosa e insinuante, quella accennata negli esempi di Das Unheimliche proprio per introdurre la coazione a ripetere e non più ripresa in Jenseits, una ripetizione errabonda, indominabile: quella dei segni casuali che si affollano, che accennano a un nesso, a un «significato misterioso». Qui la ripetizione è ibrida, fa parte al tempo stesso della scena mutevole del mondo esterno e della scena psichica, dove viene a reclamare un suo posto. La ripetizione di un segno nel mondo esterno lo trasforma in presagio: accenno alla presenza di un significato di cui non conosciamo l'origine e non riusciamo a disfarci. Perturbante è ogni significato che non abbiamo stabilito o prodotto noi. Le coincidenze perturbano in quanto accennano al destino, a una rete di significati che ci precedono, ci accompagnano, ci giocano. La coazione a ripetere si rivolge a qualcuno in noi (il Doppio, erede del Sé upanisadico) che è avvolto da quella rete di significati e talvolta vi appare ripetendo le nostre sembianze. Vi sono «persone non nevrotiche che suscitano l'impressione di essere perseguitate dal destino o di vivere un'esperienza in certi tratti demoniaca»: ma ciò che turba in loro non è tanto la disponibilità della psiche a lasciarsi invischiare nella ripetizione, quanto l'elastica prontezza con cui la realtà viene loro incontro, fornendo puntualmente i suoi servigi perché la ripetizione coatta si compia. Il sospetto più intollerabile, per Freud, è che fra il mondo esterno e la psiche vi sia una complicità: eppure la incontrò, nell'estuario dove le acque dell'inconscio e del mondo si mescolano. Non potendo ammettere che quella congiura implicasse un sovrappiù di significato, perché avrebbe scardinato tutta la sua costruzione, ammise che essa indicava soltanto la convergenza della natura e della psiche verso uno stesso punto: l'origine in quanto luogo dell'indifferenziato, della ripetizione insignificante, dove il significato come ogni tensione si annulla. Questa era la minaccia non riconosciuta che quei brividi della vita quotidiana trasmettevano e Freud si preoccupò di assicurare, in Das Unheimliche, mentendo a se stesso, che da molti anni non ne incontrava più: «...I.autore del presente saggio deve accusare una sua particolare sordità in proposito, laddove occorrerebbe invece una ricettività particolarmente acuta. Da parecchio tempo non ha vissuto direttamente e non è venuto a conoscenza di nulla che potesse suscitare in lui l'impressione del perturbante». Una volta schiusa la porta del mondo fuori di noi, due opposte possibilità si presentavano:

o accettare una natura che parla in capricciosi oracoli, che si prolunga nella psiche e interloquisce in essa; o considerare la natura come natura morta, gelosa della vita che su di essa è concresciuta, avida di ricondurla alla quiete inanimata. Appunto questa via Freud era costretto a prendere. L'innominato Thanatos appare, nei passi più radicali di Jenseits, quale potenza suprema, che non tanto si scontra con Eros, quanto lo usa ai suoi fini («sembrerebbe proprio che il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte»). Lo strepito erotico copre l'azione ininterrotta delle pulsioni di morte, che «sembrano compiere il loro lavoro senza farsene accorgere». Una crudele armonia, più che un contrasto. Un convergere, con due stili diversi, verso lo stesso fine: la punizione di quella colpa che è la vita stessa, il suo ritorno forzato alla quiete inorganica, dalla quale una tensione oscura e innaturale la ha fatta uscire: «una forza che ci è ancora completamente ignota» la definisce Freud, e precisa: «La tensione che sorse allora in quella che era stata fino a quel momento una sostanza inanimata fece uno sforzo per autoannullarsi; nacque così la prima pulsione, la pulsione a ritornare allo stato inanimato». Nella aggrovigliata costruzione di Jenseits, Freud disegna la cosmogonia invalicabile del moderno. L'impazienza di Valéry verso la ripetizione e la fosca visione freudiana della coazione a ripetere zampillano da un'unica fonte: il terrore di fronte all'origine non umana del significato, che parla nel capriccio demoniaco delle coincidenze come nell'implacabile monotonia della natura. Jenseits aspetta di essere letto come il protocollo di quel solitario paziente, Sigmund Freud, che ha avuto l'immensa forza di ricapitolare nella più sobria e precisa descrizione la sindrome della storia occidentale: «carpire» alla natura un ordine, ma a patto di accettare che tale ordine, in quanto variante della coazione a ripetere, sia solo un lungo giro vizioso per arrivare all'annullamento di se stesso. Come Freud scrisse, dinanzi al paesaggio della civiltà: «Mentre non possiamo pretendere la pulizia dalla natura, l'ordine invece è un dono che le abbiamo carpito: l'osservazione delle grandi regolarità astronomiche ha fornito all'uomo non solo il modello, ma anche le prime ragioni concrete per introdurre l'ordine nella sua vita. L'ordine è una sorta di coazione a ripetere, che decide, mediante una norma stabilita una volta per tutte, quando, dove e come una cosa debba essere fatta, in modo da evitare esitazioni e indugi in tutti i casi che si assomigliano». Anche le coincidenze sono «casi che si assomigliano»: ma la loro funzione sarà quella di rammentare l'insignificanza del tutto. Per Freud, le coincidenze non possono che alludere alla morte. «A quel tempo morire era ancora facile, per la sostanza vivente», scrive Freud nella sua allucinazione dei primordi.

La civiltà, invece, è una morte difficile. Si tratta innanzitutto di una questione di stile: scegliere «strade sempre più tortuose e complicate», far sì che l'organismo riesca a raggiungere ciò che innanzitutto vuole: «morire soltanto alla propria maniera». «Il fatto che l'uomo si scuota di dosso ciò che non gli corrisponde è per me una prova che qualcosa del genere esiste» diceva Goethe a Eckermann, a proposito dell'entelechia. Quella grandiosa concezione si assottiglia per Freud nell'ultima rivendicazione dell'individuo e della civiltà: morire con un proprio stile, tracciare un irripetibile arabesco prima che si ricomponga la muta quiete che ignora i significati. Esiste un fenomeno che è il perfetto rovescio di quel ripetersi dei disparati segni del mondo fino a condensarsi in altrettanti presagi: è la ripetizione forzata di una parola, che dopo un breve intervallo di tempo le fa perdere ogni significato e l'abbandona dinanzi a noi come un opaco guscio sonoro. In queste due esperienze noi ritroviamo, nello spazio privato e segreto della nostra mente, la scissione delle origini: quando da una parte vi era un mondo troppo carico di significati, e quei significati avevano una vita propria, incontrollabile, incombente, schiacciante, sicché il loro eccessivo potere finiva per farli convergere su un solo significato: la morte; e dall'altra si formava un altro mondo, il recinto della cultura, dove si imponeva la forza dell'arbitrio, la capacità di dare i nomi, di stabilire i significati con l'artificio della convenzione. Se paventiamo la ripetizione nei segni che ci vengono dal mondo, è perché in essa scopriamo che le potenze del mondo sono sempre lì, forse sopite, certamente allontanate, ma ancora presenti e pronte a inghiottirci come fossimo noi stessi una parola del loro linguaggio. Se avvertiamo uno strano malessere nel constatare che una parola, automaticamente ripetuta, sembra perdere ogni nesso con il suo significato, è perché in quel momento avvertiamo la debolezza, la precarietà del gesto fondatore di ogni cultura. Pensare è un avviarsi, oscillando, verso il luogo di quel doppio turbamento, un tentativo di evasione simultanea dalla natura e dalla cultura. Per questo il pensiero è un'attività intermittente e improbabile. Il sacrificio: ripetere l'irreversibile. Coincidenza è l'apparire nella vita del singolo di una costellazione. Nelle grandi città il cielo notturno non si vede: da allora esso si riforma in noi in queste labili apparizioni.

Il mito, se non viene ripetuto, si estenua, muore alla fine come gli dèi, di molte morti. Ma il mondo, che ha dimenticato persino di seppellirlo, e subito si è immerso nella nube statistica del Nuovo, si accorge, a un tratto, che i suoi gesti non riescono a essere, anche se lo pretenderebbero, arbitrari. Come spiegare, altrimenti, quella ripetizione involontaria, quel sordo brontolio di parole note, di visioni già viste, di mosse coatte che lo accompagna? Ora tutto è un mulino da preghiere. Il Tibet non si vede, nessuno prega, nessuna autorità può esigere l'omaggio rituale: eppure tutto continua a percorrere una serie di oscure stazioni, in circolo. Quando Talleyrand viveva, quelle stazioni assumevano nomi fragranti, pronti a essere dissipati nelle aule: l'Ancien Régime, la Rivoluzione, il Terrore, il Direttorio, l'Impero, la Restaurazione, il Regno Borghese. Mai più si sarebbero ritrovati quei profili netti, disegnati sulle ultime medaglie, subito fuori corso. La moneta cartacea le sostituì senza incertezze, più pratica, più potente. Anche la natura veniva avvolta in carta di giornale. Ma quello che non si faceva avvolgere, anzi avvolgeva ancora di più, era la ripetizione stessa. Marx avvertì una volta l'infida vertigine della ripetizione, quando un nuovo 18 brumaio, guidato da un nuovo Bonaparte, gli passò davanti agli occhi, sul giornale. Ma scacciò subito il fantasma, perché era convinto di essere lui il fantasma, quello che avrebbe distribuito le parti per la Ripetizione Finale. La ripetizione non ha avuto fine, e presto avrebbe ripetuto orribilmente anche lui. «La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi. E proprio quando sembra che essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare cioè quel che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d'ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con questo linguaggio preso in prestito la nuova scena della storia universale. Così Lutero si travestì da apostolo Paolo; la rivoluzione del 1789-1814 indossò successivamente i panni della Repubblica romana e dell'Impero romano; e la rivoluzione del 1848 non seppe far di meglio che la parodia, ora del 1789, ora della tradizione rivoluzionaria del 1793-95». Così Marx nel dicembre 1851 (ma saccheggiando immagini e formulazioni da una precedente lettera di Engels del 3 dicembre); e già fra il novembre 1850 e il marzo 1851, a Sorrento, Alexis de Tocqueville procedeva nei suoi Souvenirs sulla rivoluzione del 1848 («ci sono stati senz'altro rivoluzionari più malvagi di quelli del 1848, ma non credo certo più stupidi»), annotando a proposito del maggio: «Era la parodia del 24 febbraio, come il 24 febbraio era stato esso stesso la parodia di altre scene rivoluzionarie». Mentre aveva già scritto, ricordando l'invasione della Camera: «I nostri francesi, soprattutto a Parigi, mescolavano volentieri i ricordi della letteratura e del teatro alle loro manifestazioni più gravi; e ciò fa spesso credere che i sentimenti che essi mostrano siano falsi, mentre sono soltanto goffamente decorati. In questo caso, l'imitazione fu talmente visibile che la terribile originalità dei fatti ne rimaneva occultata. Era quello il tempo in cui l'immaginazione di tutti era impiastricciata dai colori grossolani usati da Lamartine nei suoi Girondins. Gli uomini della prima rivoluzione erano vivi nello spirito di tutti, i loro atti e le loro parole presenti alla memoria di tutti. Tutto ciò che vidi quel giorno portò l'impronta visibile di quei ricordi; e mi sembrava sempre che tutti si preoccupassero di mettere in scena la Rivoluzione francese ben più che di continuarla... Sebbene vedessi che la conclusione dello spettacolo sarebbe stata terribile, non riuscii mai a prendere davvero sul serio gli attori; e il tutto mi sembrò una brutta tragedia messa in scena da alcuni istrioni di provincia». Sia Marx sia Tocqueville avevano dunque constatato di vivere in un'età abbagliata dal Nuovo, mentre continuava a praticare il culto della ripetizione cruenta. La sequenza tendeva a essere questa: il Nuovo deve succedere (da quando il principio della «revisione eterna», come sobriamente lo avrebbe definito Burckhardt, ottiene l'unzione della sovranità); il Nuovo tende irresistibilmente a ripetere un qualche frammento delle Fasi Canoniche, le quali a loro volta avevano ripetuto altri fantasmi; l'eruzione tecnica modifica in ogni momento le proporzioni e i pesi, distorcendo i gesti in una continua anamorfosi, che invade il tempo; la ripetizione sprigiona la sua imprevista novità e il Nuovo si ripete fedelmente nella lega fra il grottesco, l'atroce e il portentoso, che trasmette la scossa medianica del Moderno. «Coazione alla verifica», lo si potrebbe chiamare: questo morbo ci ha contagiato, per sempre. Ma dov'è l'origine della malattia, in quale desiderio, in quale senso? Se l'Occidente ha subìto così violentemente il bisogno di affermare, di imporre la ripetizione è appunto perché mai prima come in Occidente si era fatta sentire la assoluta irripetibilità di ogni elemento, la vita precaria ma irriducibile di ogni particolare. Senza la coazione alla verifica, senza la ripetizione vuota, non avremmo potuto sopportare l'emersione irrelata dell'apparire, oscillante, senza discendenza, senza corrispondenze quell'emersione che mai prima era stata evocata da sola.

Il sapore unico, il senso angoscioso ma trionfante e sospeso di ogni forma pura dell'Occidente è in questa precarietà, fino alle sue manifestazioni più intense, come imminenza della distruzione. Perciò il bisogno della pietra, del solido. Ma nessuna civiltà è stata così poco solida come l'Occidente, così esposta. L'Occidente abbandona la ripetizione mitologica per imporsi una ripetizione diffusa nella materia, perché dubita non solo che tutto si ripeta in un certo modo, ma che il mondo stesso come fatto riesca a riprodursi. Questo smisurato senso di sospensione richiede un contrappeso altrettanto immenso e nel punto dell'equilibrio ritroviamo una prima scelta ostinata, temeraria: emerge dal pianoforte, è il moment musical, un potere paralizzante, dissolutore eppure affermativo (e questa volta non occorre la magia, sempre troppo carica di significati), mentre quel suono torna sempre e soltanto a una sentenza, a una croma limpida e fatale: volere ciò che passa perché passa. «...Nulla, e sopra lo smalto» sussurrò Benn. Chevalier de B***: Se la storia si ripeta è questione fatua, ma gli effetti che ha il pensiero della ripetizione sono devastanti. Nel gesto del ripetere sussiste, come in uno scolorito straccio orientale, l'eredità mitica, la capacità di sentire un atto come esemplare, il senso di un destino collegato a una forma. Luigi Xvi continuava a ripercorrere con sgomento la storia di Carlo I, finché si trovò anche lui sul patibolo. Il duca d'Orléans pensava di rinnovare la Fronda di Retz, ma si trovò poco dopo sullo stesso patibolo. Le vicende possono sovrapporsi o anche beffardamente opporsi: ciò che conta è la presenza del fantasma di un'altra azione all'interno di qualsiasi azione. Come non esiste un libro che non sia la ripresa o la risposta o la conseguenza rispetto a un altro libro, così in ogni gesto si posa, sulla mano che traccia, un'altra, invisibile mano, che la guida, la preme o la trattiene. Rispetto a ogni evento dobbiamo chiederci: che cosa, qui, voleva ripetersi? a che cosa, qui, si dava risposta?

Talvolta è difficile persino ritrovare gli indizi di un nesso, tanto gli eventi sono sfigurati dall'erompere della casualità, che compone la storia stessa. Nel pensiero della ripetizione c'è tutto il nostro rapporto con il passato; dal tempo, come da un immenso vuoto di memoria, si distaccano le figure in avida attesa di riapparire. A volte sono misere e goffe e a volte proprio allora raggiungono la massima forza d'urto, assassina. La ripetizione è l'invisibile passo indietro che accompagna ogni gesto. Gli storici si distinguono soprattutto dalla capacità che hanno di congiungerlo al loro racconto dei gesti, delle gesta visibili. Ma, per giungere a questo, devono mescolarsi senza prudenza alle ombre, ed emergere dal passato come dall'Averno. Michelet, Burckhardt, Warburg, Tocqueville... Chateaubriand vedeva la vita a Parigi negli anni della Rivoluzione come la «collezione delle rovine e delle lapidi di tutti i secoli, ammassate in disordine nei chiostri dei Petits-Augustins: solo che i relitti di cui parlo sono vivi e mutano incessantemente». La ripetizione non è solo dell'ordine, ma del caos, del momento in cui gli ordini si mescolano, il greco e il gotico, il sangue e lo smalto. La Rivoluzione era anche il primo spettacolo totale, il Gesamtkunstwerk che emergeva dai salotti e dalle fogne e calcava la scena di una città. Talma debuttava subito dopo aver visto impiccare Favras. Ci assicura Chateaubriand che «i viali del giardino delle Tuileries erano inondati di donne pimpanti», i passi della folla risuonavano nei conventi da poco deserti «come nelle sale abbandonate dell'Alhambra». Come ogni grande mitologo, Freud pone a fondamento del tutto ciò di cui meno può dire: il ritorno all'inorganico. Nelle loro migrazioni per migliaia di chilometri, uccelli e pesci cercherebbero la loro patria originaria, che è l'inerzia della materia, prima che sorga la vita. E' questa la conseguenza obbligata di un principio che, sotto vari nomi, lo aveva sempre guidato; al tempo dell. Entwurf einer Psychologie lo chiamava «principio dell'inerzia neuronica», in Jenseits lo chiamerà «principio di costanza», definendolo come «tendenza che si pone al servizio di una funzione cui spetta il compito di liberare interamente dall'eccitazione l'apparato psichico, o di mantenere costante o quanto più basso possibile l'ammontare di eccitamenti in esso presente». Se perciò anche il principio del piacere implica un ritorno a uno stato precedente e qui il mito di Eros nel Simposio venne in aiuto a Freud, che si domandava, sperduto, quale mai evento la copula ripetesse, tradotto nella filogenesi ciò implica appunto un ritorno all'inorganico, che è il precedente della vita. Non più che su questo si basa la costruzione di Freud: ma i presupposti di quel gesto inappariscente sono appunto ciò che rimane da dire e Freud non vuole dire. E' difficile far passare quel «principio di costanza» per una tranquilla osservazione sperimentale. Piuttosto, esso è, per Freud, l'invisibile Hermes, che gli permette di costruire ciò che innanzitutto gli è indispensabile: una cesura, una barriera difensiva, altrimenti il soggetto (altrimenti Sigmund Freud) cadrebbe nella palude nefanda, abitata dall'Ouroboros. E Freud sceglie la cesura più inaccertabile, quella segnata dal sorgere della vita, perché ha bisogno di identificare tutta la vita che precede la nostra vita (perciò tutta la natura) con la morte. Non è dunque dell'inorganico che parla, astuto artificio che permette al suo discorso di riferirsi alla cornice di qualche casuale pubblicazione scientifica. Ciò che gli preme è stabilire l'equazione fra la natura intera (organica e inorganica) e la morte. Perché infatti la coazione a ripetere dovrebbe essere l'espressione di una pulsione di morte? Non aveva Freud stesso mirabilmente spiegato, a proposito del fortda del bambino che gioca, la sua funzione nel controllare, nel dominare, perciò nell'esaltare la potenza della vita? Dobbiamo aggirarci a lungo tra le frasi corrusche di Jenseits prima di trovare il peradam irraggiante, la frase da cui tutto discende: «L'organismo elementare non avrebbe mai voluto cambiare il suo stato iniziale; se le circostanze esterne fossero rimaste le stesse non avrebbe fatto niente di più che ripetere lo stesso corso di vita». Ma quell'originario «corso di vita», in quanto si oppone alla «tensione» che stabilisce il sorgere della vera vita (la nostra), diventa per Freud equivalente alla morte stessa. La tolleranza della natura primordiale verso la vita si spinge soltanto sino a permettere che essa appaia (la vita è octroyée), ma per poterla poi subito ripetere e con ciò riassorbire nel proprio rintocco di morte. Modello della ripetizione non è solo il ruotare degli astri, ma la fisiologia: il respiro, il sonno, la fame. Su tutto è impresso, per Freud, il contrassegno della morte come il numero sulla contromarca che gli viene porta al guardaroba. Non è solo il caso, ma la natura nella sua interezza che dobbiamo tenere a distanza. Ultimo passaggio: la natura è la morte innanzitutto perché uccide. La natura è sempre un eccesso che ci minaccia. Nel delirio scientista a cui Freud avrebbe sempre voluto ricondurre la psiche, traducendo il suo «linguaggio figurato» in quello della fisiologia o della chimica, che poi non è che un ulteriore «linguaggio figurato», come osservò Freud stesso con crudele autoironia, un segno ricorre con insistenza: l'eccessività nell'incombere della natura sulla percezione, che si salva soltanto perché «prende piccoli campioni del mondo esterno», perché si limita ad «assaggiarlo in piccola quantità». Anzi, per salvarsi dal dilagare della natura, l'apparato psichico addirittura uccide una parte di se stesso per creare in sé un insensibile «scudo protettivo», ultima difesa contro l'infuriare assassino della natura esterna. Questo «scudo protettivo» è «lo strato più esterno» dell'apparato stesso, che accetta di morire, diventando «in certa misura inorganico», per salvare «gli strati più profondi dallo stesso destino». Questo squarcio visionario nulla ha a che fare con un qualche processo fisiologico, ma tutto con l'arcaica teoria del sacrificio, che qui viene ritrascritta nella «lingua figurata» di una fisiologia immaginaria, dove se si vuole intendere che cosa sta succedendo basta sostituire alle parole «scudo protettivo» le parole indicibili: vittima sacrificale. Questo, osserva Freud, per quanto riguarda gli stimoli che ci vengono da fuori: ma la corteccia cerebrale è una tavola di sughero tra il vento e le onde: dal vento del mondo ci difendiamo percependone

il meno possibile, innalzandogli contro quella parte di noi stessi che abbiamo ucciso nel sacrificio, ma le onde vengono dall'oscurità del corpo, e di fronte a quelle non c'è difesa se non ricorrendo alla «proiezione», che catapulta nel mondo esterno gli arieti che premono all'interno. Con rapide mosse, e senza farsi notare, Freud era qui giunto a una deduzione della paranoia quale esperienza normale e ininterrotta della psiche. Lo scopritore di leggi nella storia avrà sempre qualcosa del frenetico inventore di brevetti inutili, il suo gesto è quello di stringere l'interlocutore in un angolo per spiegargli come ha realizzato, a casa sua, il moto perpetuo. Perché non dare un'occhiata all'apparecchio? E' qui... Da quando Polibio scrisse le sue considerazioni elementari sulla ciclicità delle forme di governo prima monarchia, poi aristocrazia, poi democrazia, poi di nuovo monarchia, in infinitum, la storia ha continuato a dargli ragione, come a tante altre, e ben più complesse, teorie cicliche, ma con beffarda magnanimità, perché alla fine quella legge se proprio così la si deve chiamare veniva a ribadire pomposamente l'insensatezza della storia, che si rivelava ancora maggiore una volta svelato il suo meccanismo nascosto. Perché la storia abbia un senso inscalfibile occorre un telos, che annulli la storia stessa. Altrimenti, ogni ciclicità secolarizzata delle forme riconduce la storia alla paventata morfologia, che riafferma su di essa la sovranità della natura. E allora incombe Spengler: ««l'umanità» non ha alcuno scopo, alcuna idea, alcun piano, così come non lo ha la specie delle farfalle o delle orchidee». Freud non poteva per sobrietà intellettuale e per fedeltà karmica ammettere un telos, ma neppure abdicare in favore della natura. Così si inchinò alle mute origini ammettendo la loro ultima egemonia: mai però avrebbe loro concesso il carattere di vita innominata. Erano la scansione della morte, da cui la vita si distaccava con un gesto di provvisorio arbitrio. La civiltà è una linea curva di conchiglie sulla sabbia, ma chiude in se stessa la cifra della sua forma. Il mare che la cancella non la possiederà mai. «Quanto a te, innalza il tuo bastone, stendi la tua mano sul mare e fendilo, perché i figli di Israele entrino in mezzo al mare a piede asciutto» dice Jahvè a Mosè, inseguito dagli Egiziani. «Si vide la nube coprire il campo con la sua ombra, la terra asciutta che emergeva dall'acqua che prima vi era, una via senza ostacolo attraverso il Mar Rosso e una pianura verdeggiante attraverso le onde impetuose dove passarono, come un solo popolo, coloro che erano protetti dalla tua mano» canta la Sapienza di Salomone. Passare il Mar Rosso con il piede asciutto, evento salvatore, scintillio degli eletti, è anche un ripetersi della Creazione: il Mar Rosso si prosciuga così come in origine la terra, il suolo su cui si muovono i piedi protetti dal Signore, era stata separata dalle acque inferiori: «Elohim l'asciutta la chiamò Terra e chiamò Mari l'ammasso delle acque». Ora la «pianura verdeggiante» che si sostituisce alle «onde impetuose» è un momentaneo eccesso dell'amore divino. Se implicasse un progressivo prosciugamento della natura, si tramuterebbe in rovinosa condanna. Ma quell'immagine, in quanto promessa di una totale civilizzazione della natura, persisterà a guidare una lunga discendenza: i sacerdoti asciutti dell'ebraismo, coloro che vogliono posare i piedi sulla pianura lavorata piuttosto che abbandonarsi alla fluidità equorea, coloro che vedono nel mare soltanto il sepolcro del Nemico. Quando la presenza di Jahvè si sarà oscurata, il dono divino diventerà il sogno di un'immensa bonifica, non più prodigio disceso dal cielo, ma faticosa conquista del soggetto. «Wo Es war, soll Ich werden», il motto araldico di Freud, presuppone il prosciugamento dello Zuiderzee e ancora una volta in rapporto a una «salvezza», seppure secolarizzata, angosciosa e dubitativa: «Che per questa via si possa giungere in possesso della sapienza suprema, da cui ci si aspetta la salvezza, è lecito dubitare. Tuttavia bisogna ammettere che gli sforzi terapeutici della psicoanalisi seguono una linea in parte analoga. La loro intenzione è in definitiva di rafforzare l'Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell'Es. Dove era l'Es, deve subentrare l'Io. E' un'opera di civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuiderzee». Un altro sacerdote asciutto parla in Lévi-Strauss. Giunto al Finale della sua Tetralogia, l'autore sente il bisogno di definirsi «qualcuno che nessuna inquietudine religiosa ha mai sfiorato». Quale fermezza dell'intelletto, in chi per anni e anni, con l'amorevole acribia di un nuovo Linneo, aveva tracciato la tavola tassonomica dei miti dove le tribù del «pensiero selvaggio» avevano evocato i loro dèi! Eppure, finché si rimane nella purezza vegetale e minerale del mito, una passione senza riserve e senza incertezze trascina Lévi-Strauss a ricomporre quelle stupefacenti architetture, che l'inconsapevolezza protegge dalle calde commistioni della vita. Se infatti nel mito affiorasse con troppa insistenza qualche errabonda manifestazione della «vita affettiva», Lévi-Strauss non se ne occuperebbe, ma lascerebbe quel compito alle cure di sacerdoti di altro tipo, più torbidi: «Ogni manifestazione della vita affettiva che non riflettesse, sul piano della coscienza, un qualche incidente notevole che blocchi o acceleri il lavoro dell'intelletto non apparterrebbe più alle scienze umane; sarebbe di competenza della biologia, e ad altri spetterebbe trattarne». C'è però qualcosa, in quelle pagine conclusive di Mythologiques, che ancora lo turba e sempre ricompare nell'esperienza dei suoi pensatori selvaggi, oltre che nelle astiose osservazioni di certi colleghi accademici: il rito. Spinti da una dolorosa coazione, infatti, i soggetti che elaborano il mito hanno sempre avuto la tendenza a celebrare riti. Lévi-Strauss li osserva con partecipe imbarazzo, e riscontra nelle loro azioni cerimoniali «quella mescolanza così caratteristica, fatta al tempo stesso di ostinazione e impotenza, che spiega come mai il rituale abbia sempre un lato maniacale e disperato». Ci sentiamo qui in una tonalità vicina a quella delle osservazioni di Freud sulle azioni ossessive, sul «cerimoniale» nevrotico come discendente (e progenitore) delle «pratiche religiose»: «Qualsivoglia attività può divenire azione ossessiva nel senso ampio del termine, quando si complica per l'aggiunta di piccoli gesti e viene ritmata mediante pause e ripetizioni». Sono qui racchiuse in una frase le due peculiarità che per Lévi-Strauss si sono rivelate alla fine irriducibili nel rito: lo «spezzettamento» (in Freud: l'elaborazione di «piccoli gesti») e la «ripetizione». Ma qual è la funzione di questi due elementi? Dinanzi alla gloria del Discontinuo, dinanzi al maestoso corteo delle opposizioni binarie che costituiscono la civiltà quali algebrici mattoni, il rito continua a testimoniare l'infelicità, la nostalgia sorda che del Discontinuo non si appaga. Con artificio scenico ben degno di un finale d'atto wagneriano, Lévi-Strauss svela qui un pensiero che lo aveva accompagnato come un molesto compagno: il rito non soltanto non duplica il mito in azione (sarebbe un'orribile contaminatio), ma sceglie addirittura di percorrere, rispetto al mito, la direzione inversa. Il rito vuole riconquistare la «fluidità del vissuto» (così ora si chiama il Mar Rosso, dopo secoli di sobrietà intellettuale). Il rito vuole immergerci di nuovo in quell'elemento mobile che «tende costantemente a sfuggire attraverso le maglie della rete che il pensiero mitico ha gettato su di esso per trattenerne soltanto gli aspetti più nettamente contrastati». Impresa disperata, che obbliga Lévi-Strauss a ricorrere ai termini della «vita affettiva» (anche qui una abrasione secolare ha prodotto alla fine questa formula), quale ora si dispiega minacciosamente, e proprio nella maniera che Freud aveva già descritto: «Spezzettando operazioni che precisa all'infinito e ripete senza mai stancarsi, il rituale si dedica a un minuzioso rammendo, tappa gli interstizi, e nutre così l'illusione che sia possibile risalire il mito in senso inverso, che si possa rifare il continuo a partire dal discontinuo. La sua preoccupazione maniacale di reperire, per mezzo dello spezzettamento, e di moltiplicare, per mezzo della ripetizione, le più piccole unità costitutive del vissuto traduce un bisogno lancinante di garanzie contro ogni cesura o eventuale interruzione che potrebbe comprometterne lo260-261 svolgersi... In definitiva, l'opposizione fra il rito e il mito è quella del vivere e del pensare, e il rituale rappresenta un imbastardimento del pensiero che viene concesso alle servitù della vita... Questo tentativo sperduto, sempre votato alla sconfitta, per ristabilire la continuità di un vissuto smantellato per effetto dello schematismo che il pensiero mitico gli ha sostituito costituisce l'essenza del rituale». E' una visione di desolata tristezza, che si contrappone alla trasparente harmonia plantarum che Lévi-Strauss ama contemplare: quella fra il codice genetico, il «pensiero selvaggio» e clangore di piatti l'intelletto scientifico che decifra sia il codice genetico sia il «pensiero selvaggio», uniti tutti dal nesso indissolubile e lampeggiante delle opposizioni binarie. Con queste, e soltanto con queste pietre si costruisce la Casa del Discontinuo, l'unico vero Tempio di Salomone, che si innalzerà sulla terra prosciugata. Le rivelazioni sul mondo e su se stesso che Lévi-Strauss ha posto alla fine della sua Tetralogia aiutano a capire come mai egli si sia sempre occupato così poco del più sporco dei riti: il sacrificio. Ma questo ospite sgradito della sua antropologia non poteva non apparire, anche se di sfuggita, nell'orchestrazione finale dei temi. E sarà proprio nel punto dove Lévi-Strauss vuole mettere in chiaro, contro Turner, che il rito non crea propriamente nulla. Anzi, rispetto alle «categorie, leggi, assiomi», agenti adamantini del Discontinuo, si può dire addirittura che il rito «si applica piuttosto, se non a sconfessarli, a obliterare temporaneamente le distinzioni e opposizioni che essi promulgano, facendo apparire fra di esse ogni sorta di ambiguità, compromessi, passaggi». Nella città ortogonale dell'intelletto, il sacrificio è il quartiere del porto: vicoli angusti, transazioni illecite, odore di mare. E qui Lévi-Strauss rimanda a una rapida analisi della Pensée sauvage, dove aveva voluto scindere senza rimedio totemismo e sacrificio, perché gli infaticabili classificatori australiani fossero finalmente liberati dal sospetto di quella macchia. L'esordio è già drastico: «Che la storia delle religioni abbia potuto vedere nel totemismo l'origine del sacrificio rimane dopo tanti anni, fonte di stupore». Ma la ragione dello scandalo appare subito evidente: il sistema totemico si fonda su serie di classificazioni parallele, sviluppate con sottigliezza e rigore, secondo le buone regole del discontinuo; il sacrificio, invece, si fonda sulla contiguità, sul percorrere e ripercorrere un sentiero dal profano al sacro, e dal sacro al profano: il principio di sostituzione, che lo domina, si congiunge, nell'ombra, con l'imperativo della connessione, e quest'ultimo implica una sequenza di legami che traversano in ogni senso la natura e la società. Perciò «il sacrificio si situa nel regno della continuità». Ed è questo il regno che Lévi-Strauss non legittimerà mai, il luogo delle «ambiguità», dei «compromessi», dei «passaggi» contaminanti. Nella forma del sacrificio Lévi-Strauss intravede la massima colpa contro la cultura: «il sacrificio ricorre al paragone come mezzo per cancellare la differenza». Sono qui evocati, testimoni muti, senza che sia pronunciato il loro nome, gli antagonisti ultimi del pensiero di Lévi-Strauss: i veggenti vedici. Nessuna forma di pensiero è per lui ripugnante come il loro infaticabile cavalcare i tre mondi dicendo «questo è quello», senza rispettare alcun recinto tassonomico, senza accettare quelle cesure che sole dovrebbero garantire il significato e qui vengono coperte ogni volta almeno di orchidee selvagge. Mentre, dietro a tutto, si profila la categoria aborrita: l'interdipendenza, ma non più di relazioni, bensì di sostanze, una rete mistica che avvolge ogni rete logica. Questo è davvero il Nemico: e qui il pathos finisce per tradire lo studioso. Il confronto fra totemismo e sacrificio si inasprisce a poco a poco, sino a trasformarsi in una sorta di accorata condanna: «Il totemismo (o ciò che così si chiama) si limita a concepire una omologia di struttura fra le due serie, le specie naturali e i segmenti sociali", ipotesi perfettamente legittima poiché i segmenti sociali sono istituiti, e perciò rientra nei poteri di ogni società rendere l'ipotesi plausibile conformando ad essa le sue regole e le sue rappresentazioni. Al contrario, il sistema del sacrificio fa intervenire un termine non esistente: la divinità; ed esso adotta una concezione oggettivamente falsa della serie naturale, poiché abbiamo visto che la rappresenta come continua». Sorprendiamo qui il grande antropologo mentre accusa una cerimonia religiosa di parlare di qualcosa di «non esistente», che sarebbe poi «la divinità». Perché tanta intemperanza? Forse siamo vicini alla soglia in cui il «pensiero selvaggio» diventa, per Lévi-Strauss, troppo «selvaggio» e non merita più di essere chiamato «pensiero». L'analisi è paralizzata dallo horror continui. E di colpo il linguaggio non è più quello dell'appassionata descrizione, ma del rifiuto s direbbe quasi per ragioni morali. Questo pensiero non deve essere pensato. Alla fine, non rimane che avvicinarsi all'insulto, con una scrollata di spalle da citoyen che paga le tasse:

«Per esprimere lo scarto fra il totemismo e il sacrificio non basta dunque dire che il primo è un sistema di riferimenti, il secondo un sistema di operazioni; che l'uno elabora un sistema di interpretazione mentre l'altro propone (o crede di proporre) una tecnica per ottenere certi risultati: uno è vero, l'altro falso. Più esattamente, i sistemi classificatori si situano al livello della lingua: sono codici più o meno ben fatti, ma sempre miranti a esprimere significati, mentre il sistema del sacrificio rappresenta un discorso particolare, e sprovvisto di buon senso sebbene sia frequentemente proferito». La conclusione della scienza antropologica sarebbe dunque che il sacrificio è un discorso «sprovvisto di buon senso».