BRICIOLE SACRIFICALI



Dopo il Golgota, la vittima venne slegata dal palo del sacrificio. La premura creaturale della cristianità avrebbe preteso soltanto un'immolazione per figuras. Ma della vittima andava allontanato il miasma: non era più ammissibile una tale concrezione di natura, potenza, inermità, maledizione e virtù risanante. Doveva migrare lontano, abbandonare le città. Vagare per gli oceani, per le terre senza nome, tra le fiere e gli esseri compositi. Ogni tanto, nei borghi, riappariva quale Uomo Selvatico. In uno dei suoi sfondi, Peter Brueghel ce lo mostra con le sue zampe incerte e il vello verde, mentre avanza verso una donna ingannatrice che gli offre un anello. Dietro le sue spalle, un anonimo si appresta a ucciderlo con la balestra e l'imperatore tiene la spada levata. Nella scena successiva, mai rappresentata né da Brueghel né da altri, l'Uomo Selvatico viene colpito a morte dalla balestra, in mezzo al cerchio dei paesani. Una beffa raccontata da Boccaccio sottintende che, a Venezia, «in su la Piazza di San Marco si fa una caccia», dove la preda è «l'uom selvatico», che appare «tutto unto di mele ed empiuto di sopra di penna matta», con «una catena in gola ed una maschera in capo», mentre mosche e tafani lo avvolgono, attirati dal «mele». Così il sacrificio, licenziato dalla società, se non si distillava in metafore tornava a volgersi verso la sua origine: la caccia. A evocarlo, ora, sarà il sibilo di una punta mortale nell'Oceano. Incontrare il suo contagio era un evento abbandonato al gioco delle onde e alla furia di un battello. Occorreva generalmente passare la linea dell'Equatore e navigare nel mondo inverso dell'emisfero australe. Si distaccò un albatro dal biancore e dalla luce smeraldina dei ghiacci, messaggero di quel luogo abbagliante che stava accogliendo e chiudendo in sé il Vecchio Marinaio («The ice was here, the ice was there, The ice was all around»). Le potenze del sacrificio si sono concentrate nella massa dei ghiacci e mandano avanti l'albatro, perché sia ricevuto sulla nave secondo le leggi dell'ospitalità, ultimo vestigio sacrificale. Ma con il colpo di balestra del Vecchio Marinaio, che uccide l'albatro senza ragione apparente, si compie un sacrificio rovesciato: Ifigenia doveva essere sacrificata perché si alzasse il vento, l'uccisione dell'albatro porta con sé la stasi dell'aria. La nave si ferma e diventa spettrale, catturata dall'immutabilità della letteratura, «as idle as a painted ship Upon a painted ocean». Il mare stesso, dal profondo, imputridisce. Ciò che aveva dato maestà al gesto del Vecchio Marinaio era il suo totale arbitrio. Non solo non obbediva a un rito, ma neppure a una crudele usanza folklorica, destinata alle note a piè di pagina di un erudito locale. Anche la giustificazione degli altri marinai, che lo approvano perché l'albatro sarebbe foriero di nebbie, è trovata ex post. Il gesto del Vecchio Marinaio è l'improvvisa risposta assassina al battere delle vaste ali dell'albatro. Nel suo automatismo, cancella ogni passato e su di essa il passato ricadrà, prima come maledizione, poi come graduale assimilazione del Vecchio Marinaio all'albatro, che ora egli porta appeso al collo: e qui la reminiscenza giunge all'origine, all'immagine del sacrificio come autosacrificio, quindi dell'uccisore come vittima di se stesso. Il colpo di balestra del Vecchio Marinaio, inatteso, senza spiegazione, è la prima immagine assoluta del male che avrebbe accompagnato un secolo di satanismo per le dame. Coleridge scrisse l. Ancient Mariner per obbedire al consiglio di Thomas Burnet posto in epigrafe al poemetto: «...ne mens assuefacta hodiernae vitae se contrahat nimis, et tota subsidat in pusillas cogitationes». La civiltà era già culminata, nel secolo più fluido e più angusto, quando Coleridge era nato, e cominciava ora a sentire l'ingombro delle proprie minuzie, dei frantumi mentali che le chiacchieravano sempre intorno, mentre il Tutto era stato espulso, per sua mancanza di gusto e di misura. Come gli dèi vedici delle origini, i Soggetti Trascendentali si sentirono oppressi dalla mancanza di spazio. L'albatro di Coleridge li convinse che, là dove il Tutto tornava a essere visibile, un impulso inconsulto li spingeva a ucciderlo. Ma l'albatro era ancora troppo simile a un segno sulla carta. Preannunciava soltanto la riemersione del Tutto. The Whole: the Whale! Allora il biancore delle ali si espanse sull'immensa fronte rugosa di Moby-Dick. Oltrepassato l'equatore della storia, ciò che era stato silenzioso deve essere detto in tutti i particolari, con furia: anzi, solo questo va detto. Ora appare isolato e splendente. Come il loquace protocollo sadiano prende il posto della nube ierogamica, così la macellazione della balena sostituisce la mutezza del brahmano dinanzi alla vittima soffocata. La pornografia, più che con l'eros, ha a che fare con un'incombenza teologica: tutto il nascosto deve essere svelato, le lingue segrete devono tornare a essere illeggibili non più perché celate ma perché offerte agli occhi di tutti e ormai quasi assimilate al paesaggio. Le : 120 journées de Sodome stabiliscono un ordine seriale, che è la massima approssimazione, nel cielo combinatorio del concetto, alla periodicità dello Zodiaco. E la ricerca di Moby-Dick ripercorre il ciclo delle costellazioni, finché Ahab non si appresterà all'ultimo atto della sua caccia calpestando rabbiosamente il quadrante, residuo segno di una dipendenza dal cielo. Al centro di questi due empi cerchi è l'epifania dell'uccisione. In Sade le fanciulle piagate dagli eccessi libertini vengono gettate da Minski, l'orco moscovita, nel cortile delle belve, «dove vengono divorate in meno di tre minuti». E Juliette, che assiste, ci assicura: «Je n'ai de ma vie perdu de foutre plus lubriquement». Melville va più in là. Mentre Sade accenna solo brevemente alle carni ferite, per tornare poi subito alla chiacchiera scellerata, prolissa e ancor più échauffée dallo spettacolo, Melville innalza la letteratura alla macelleria, le fa varcare una soglia inaudita, impone sulla pagina ciò che sempre sapevamo accadere, ma fuori scena e al di fuori della parola. «L'eburneo «Pequod» venne trasformato in una beccheria, e ciascun uomo in un macellaio». La letteratura era fiorita dal sacrificio, ma non aveva mai raccontato l'atto della macellazione: piuttosto era stata la ghirlanda labirintica intorno a quel vuoto. Con Melville, la macellazione diventa addirittura il centro del libro. La fabbrica taylorista, che già Sade aveva evocato nell'ordine ferocemente scandito delle 120 journées, riappare ora nel lavoro di squartamento della balena, descritto con un'attenzione avida come quella di Marcel al Ballo dei Guermantes, ma qui sotto la luce australe, fra i lezzi e gli stordenti profumi dell'immane cadavere. Ora, fra l'indifferenza marina e celeste, nella vastità interminata degli spazi, la macellazione, che si occulta in città dietro cinte di cemento, torna a essere un delicato sceverarsi degli elementi cosmici: perfino l'Arché vi diventa palpabile, quando il selvaggio Tashtego rischia di morire «soffocato nel più bianco e più fine dei fragranti spermaceti, imbarato, portato e intombato nella segreta camera interna o santo dei santi della balena». Immagine della morte più soave, la caduta «nella testa mielata di Platone». Così, alla fine dell'opera di dissezione, quando dall'animale ucciso è stato estratto il materiale utilizzabile e il suo corpo decapitato viene di nuovo ceduto alle acque, ciò che finalmente ci riappare è qualcosa di inesauribile, incancellabile, un «fantasma bianco» che nessuna lama umana riesce a diminuire, e neppure i rostri degli uccelli e i denti dei pescicani che all'uomo si alternano nell'«eterno vulturismo del mondo». La bianca carcassa acefala si allontana sulle acque. Presto la rivedremo sotto il nome di Moby-Dick:

«I grossi paranchi hanno ormai fatto il loro dovere. Il corpo spellato della balena decapitata risplende come un sepolcro di marmo e, sebbene mutato di colore, non ha perduto nulla di percettibile in volume. E' sempre colossale. Lentamente si scosta sempre più, l'acqua intorno è squarciata e fatta schizzare dai pescicani insaziabili, e l'aria in alto tutta afflitta dai voli rapaci di uccelli stridenti, i cui rostri si accaniscono sulla balena come tanti irriverenti pugnali. Il gran fantasma bianco decollato galleggia sempre più lontano dalla nave, e ad ogni tesa che s'allontana, iugeri quadrati, sembra, di pescicani, e iugeri cubici di uccelli aumentano il loro frastuono feroce. Sotto l'azzurro sereno e tranquillo, sul bel volto del mare dolcissimo, ventilato da brezze gioiose, quel grande ammasso di morte va innanzi fluttuando finché si perde in prospettive infinite». Raccontava Giorgio de Santillana: «Quando Marcel Griaule, che ci ha rivelato civiltà ignote nel Sudan occidentale, chiedeva ai suoi esperti del luogo di parlargli un po' della terra abitata, di dirgli quel che sapevano dei paesi lontani, si meravigliava di vederli sempre indicare il cielo. E finalmente capì che per loro la «terra abitata» significava la zona dell'Eclittica». Quel mirabile «finalmente capì» si riferisce anche a Santillana stesso: come un agile gentiluomo della cultura occidentale aveva percorso per decenni i sentieri vittoriosi della scienza, fra Galileo e Leibniz li aveva visti culminare. E ora, guardando la fascia delle Bestie Zodiacali, obliqua sull'orizzonte, riconosceva che pondus, numerus, mensura avevano già illuminato e dominato un altro mondo, in tutt'altro senso, a partire da un Tempo Zero che egli tendeva a situare quando il Sole equinoziale sorgeva nei Gemelli, intorno al 5000 a.C'. Cominciò allora a percorrere i sentieri celesti di quell'altra scienza, raccogliendo amorosamente briciole di mitografi e di antichi cantori. Un giorno riaprì Cassirer sulle «forme simboliche»: l'opera più articolata di quel grande studioso che a lungo era stato per lui una guida. Si accorse che di quelle pagine non rimaneva pressoché nulla. Qualcosa di simile raccontava Frances Yates: aveva cominciato a studiare Giordano Bruno poco prima della guerra, soprattutto perché apparteneva al Rinascimento italiano, e dinanzi a quelle sillabe, come tanti giovani anglosassoni devoti alla cultura, si sentiva fremere. All'inizio si proponeva di tradurre : La cena de le ceneri «con un'introduzione che mettesse in rilievo l'audacia con cui questo filosofo illuminato del Rinascimento aveva accettato la teoria di Copernico». Ma qualcosa, in quel prode cavaliere del Moderno, non convinceva: «la teoria copernicana era davvero l'oggetto della discussione o c'era qualcos'altro?». A lungo guardò gli scritti mnemotecnici di Bruno senza poter dire di che cosa parlassero. Quando finalmente ebbe in mano la clavis, subito vide ascendere e celarsi sulle ruote della memoria le Bestie Zodiacali.

L'obliqua fascia dell'Eclittica tornava a raccontare le storie che i Dogon vi leggevano: «Volendo esplorare il loro orizzonte geografico, ?Griaule* cercava di discorrere della terra abitata, di quello che conoscevano del mondo che li attornia. Ma dopo un momento li vedeva tornare a puntare in alto, e a indicargli dei confini nel cielo. E capì che l'idea di «terra abitata» si riferisce per loro alla zona celeste compresa fra i tropici: una fascia di 47 gradi nel cielo, disposta ai due lati dell'equatore. Sono quelli i veri, i soli «abitanti»».

Procedendo all'indietro nella storia, ci accorgiamo che la colpa e il male si allontanano sempre più dalle cattive intenzioni del soggetto e assumono l'augusta realtà del numero. Il peccato originale diventa un fatto matematico e divino, un avvenimento in coelestibus, come tutti gli avvenimenti di cui sia il caso di parlare. Scandite nel tempo, si manifestano tre forme del male, della colpa, dell'irriducibile disordine che ci accompagna. Le enumero nella probabile sequenza in cui furono scoperte: : l'obliquità dell. Eclittica (nella chi > formata dal Demiurgo del Timeo, l'Eclittica è l'asse dell'Altro, rispetto all'Equatore, che è l'asse del Medesimo; dalla obliquità dell'Eclittica discende la drammatica delle stagioni, ora sottratte al perenne, simmetrico equilibrio degli equinozi, che avremmo se gli angoli fossero giusti, retti: quella drammatica sarà il supporto di ogni ascesa e caduta, di ogni avventura, di ogni viaggio; è l'originario dissesto del mondo); : la Precessione degli Equinozi (rivela il male in modo ancora più palese, in quanto è quel movimento retrogrado, abbandonato a se stesso, che approfitta della stanchezza divina, come Platone ha brutalmente spiegato nel Politico: «Ascolta. Questo tutto in certi momenti il dio lo guida nel suo cammino circolare; in altri momenti lo lascia andare, quando i periodi di tempo assegnati hanno raggiunto la loro misura, e allora il tutto si mette a ruotare da solo in senso inverso, poiché è un essere animato e ha avuto l'intelligenza da colui che lo ha composto in origine. Ora, questa disposizione al movimento retrogrado gli è innata» e questo perché «l'essere che chiamiamo cielo e mondo», per quanto si sforzi, non può essere esente dal mutamento e gli è stato così concesso quel «movimento retrogrado circolare che lo allontana il meno possibile dal suo proprio movimento»: da questa compresenza di due avversi movimenti cosmici discende la necessità delle ère, per il continuo, lento spostarsi dei riferimenti celesti, quindi la successione dei mondi che rovinano in fiamme o sommersi dalle acque); : l'incommensurabilità di o2o o)Simone Weil la definiva «il dramma degli incommensurabili»: ma precisava che lo scandalo di questa scoperta «lungi dall'essere una disfatta per i Pitagorici, come si crede con tanta ingenuità, è il loro più meraviglioso trionfo»: sua è l'immagine di una bilancia che ha su un piatto due cubi di lato 1 e sull'altro un cubo il cui lato è uguale alla diagonale degli altri due: l'equilibrio è impossibile e nessun peso aggiunto o tolto permetterà mai di raggiungerlo). Il sacrificio riconosce la non corrispondenza fra discontinuo e continuo; ma al tempo stesso riconosce il necessario legame fra il discontinuo e il continuo: questo legame è la vittima. La vittima colma la lacuna fra discontinuo e continuo. Ma, appunto perché la colma, deve essere distrutta. E il mondo torna allora a distinguersi nelle serie parallele del discontinuo e del continuo, la ruota divisa in 360 spicchi, dèi, giorni, gradi continua a volgersi sopra la ruota piena di Vrtra. La colpa, e alla fine il peccato cristiano, discendono come un ramo cadetto dall'inesattezza rituale. Rito è il kairòs che si estende su ogni segmento del tempo. Questa precisione esaltata, questa percezione tagliente dell'ordine, fuori del quale ogni ritardo, ogni incertezza del gesto è colpa, il male a cui ogni male si riconduce, nasce da una lunga esplorazione desolata dell'esperienza: in nessuna sua parte era apparso qualcosa di identico, perfettamente regolare. Solo alcune punte minuscole nel cielo si muovevano per vie inflessibili.

Quello era l'ordine. Tanto più sconvolgente fu scoprire che anche lì qualcosa non tornava o tornava, ma con lieve spostamento, per la Precessione. O altrimenti erano i calcoli calendariali che al termine lasciavano un residuo, un grumo di tempo sfuggente: un'eccedenza, anche qui, di cui si doveva in qualche modo disporre. La parte maledetta si annidava tra le sfere celesti. Vi sono due specie di sostituzione: l'una dice : a sta per b, e implica che a annulli b, lo uccida, talvolta per scoprirne il funzionamento; l'altra dice: : a sta per b, ma come una scheggia di granito sta per la montagna da cui si è distaccata. In queste due specie della sostituzione si biforca una Y che a lungo aveva vagato nel cosmo e ora si è ritratta nella mandorla della mente. Il simbolo, non quello dei linguisti ma quello dei Misteri, appartiene alla seconda specie della sostituzione, torna sempre a sovrapporsi a un'invisibile montagna. Che il simbolo sia un'increspatura discontinua perennemente rivolta al continuo si rivela nell'origine del suo nome: symbolon è il combaciare delle due metà spezzate di un pezzo di legno o di coccio: torna così a formarsi una superficie liscia e compatta, appena incisa da una lesione trasversale. Più che la sostituzione, a cui pur deve rendere omaggio, il simbolo insegna l'interpenetrazione, la sovrapposizione indissolubile delle cose: simbolo è un fantasma che entra in un altro fantasma, vi si mescola, vi si dissolve, evade. Il simbolo trascina dietro di sé, aurea catena, tutto ciò che ha traversato. Tutto cambia, se si accetta o non si accetta la «interpretazione sacrificale della vita», formula che Guénon nascose in una breve recensione sulle «tudes Traditionnelles» a un articolo di Coomaraswamy. Secondo quella interpretazione, infatti, «gli atti, avendo un carattere essenzialmente simbolico, devono essere trattati come supporti di contemplazione ( dhiyalamba), il che presuppone che ogni pratica implichi e includa una teoria corrispondente». Ogni pratica, ogni gesto, volontario e involontario: che cos'è infatti più sacrificale del respiro? Una invisibile morsa stringe ora ogni istante, lo costringe a un'oblazione perpetua. Ma, se nulla si offre, se il sacrificio viene accantonato fra le superstizioni, che cosa avverrà? «La rivoluzione, attraverso il sacrificio, conferma la superstizione» avverte Baudelaire. Non nominato, il sacrificio continua a esigere le sue vittime, torna a essere nomade e sposta ovunque i luoghi del suo culto. E perché? Forse la ragione che ha proibito il sacrificio non è abbastanza forte per estirparlo? o è vero forse, come vuole Baudelaire, che «la superstizione è il deposito di tutte le verità» e le verità finiscono per dichiararsi, tracce del crimine? Il triplice inganno del sacrificio. C'è un inganno verso gli dèi, che sta nella sostituzione della vittima; c'è un inganno verso la vittima, il coltello celato fra le spighe, perché sino all'ultimo si teme che si ribelli; c'è un inganno verso gli uomini da parte degli dèi, che esigono il sacrificio perché sia garantita la vita e intanto, in quell'atto, lasciano che sia confermata la morte. Il riso gettato agli sposi riconduce ai grani d'orzo sparsi sulla vittima, che riconducono alla lapidazione della vittima, il modo di uccidere più sicuro, perché permette di non toccare neppure la vittima. Passaggio dal sacrificio all'esperimento. Il sacrificio: tutto e fondato sul presupposto di un altro, di molti altri, invisibili, che rispondono all. azione giusta. Ciò che viene offerto, irreversibilmente, vale a dichiarare una disponibilità all'ascolto, un'attesa della risposta, che dovrebbe perpetuamente ripetersi. L'esperimento: fondato sul presupposto che l. azione giusta nasca per accumulazione. Si provano mille gesti, nell'incertezza e nel buio, uno solo di essi sarà l. azione giusta.

Tutti gli altri, con la dissipazione di energia che implicano, sono perduti, omaggi a un ignoto. Poi, l'applicazione al mondo dell. azione giusta, la possibilità di ripeterla perpetuamente porteranno a un accrescimento di potenza che corrisponde alla vita esaltata dal sacrificio. Rimproveravano a Guénon di scrivere come un contabile della metafisica, senza vibrazione, senza anima. Trovavano che non era ispirato. Ma Guénon non faceva altro che obbedire al «precetto iniziatico, e più particolarmente rosacruciano, secondo il quale conviene parlare a ciascuno nel suo linguaggio». Cancelliamo i nomi degli dèi, i miti fondatori, i precetti rituali: che cosa rimane del sacrificio? La discrepanza fra il discontinuo e il continuo, fra numeri razionali e numeri reali e il riconoscimento che continuo e discontinuo devono rimanere legati. La percezione su cui si fonda ogni mitologia: il ciclo. E il ciclo è scritto nel cielo, nel ritorno delle costellazioni.

Il terrore dell'uccisione è innanzitutto terrore che ciclo non vi sia, che l'animale non ritorni, che l'astro non riappaia. Il lieve disordine nel cielo (l'obliquità dell'Eclittica, la Precessione degli Equinozi) corrisponde all'immenso disordine sulla terra (la morte). La tecnica non prende il posto della magia, ma del sacrificio. Come il sacrificio, è innanzitutto un modo per controllare il pericolo, che non è solo il conflitto violento all'interno della società, ma il potere distruttivo, e autodistruttivo, all'interno della vita stessa. La peste sta a significare il conflitto fra gli uomini così come il conflitto fra gli uomini sta a significare la peste. Il sacrificio impone una perfetta consapevolezza della distruzione: se manca questa veggente attenzione, non vi è sacrificio. La tecnica si contenta di giustificarsi con ragioni di utilità pratica. Le procedure della burocrazia servono in Kafka a illuminare non già un qualche stato degenerante della legge, ma il suo sorgere aurorale, il suo primo distaccarsi dalle acque paludose, quando l'astratto e l'arbitrario rilucevano in tutta la loro estraneità di fronte alla natura, che proprio in quei tempi divenne il Villaggio e accettò di servire nella locanda i Signori affaticati che scendevano occasionalmente dal Castello. Il «campo di forze fra la Torah e il Tao», che per Benjamin definiva il luogo di Kafka, era anche il luogo di Benjamin stesso. Ma non si trattava certo di un luogo psicologico o speculativo: era la residenza saturnina, la zona celeste dove il rta e l'«oceano nascosto» convivono, dove la Legge è immersa nella fluidità delle Acque. Sul fondo giace il xvarnah, la radianza della Gloria, ciò che Benjamin riconobbe, esiliato per il mondo, nell. aura. In una lettera a Robert Klopstock, Kafka propone due varianti della storia di Abramo: «Potrei immaginarmi un altro Abramo, che certamente non riuscirebbe a diventare un patriarca, e neppure uno straccivendolo: questo Abramo sarebbe subito disposto ad adempiere la richiesta del sacrificio, pronto come un cameriere, ma non riuscirebbe a portare a termine il sacrificio perché non ce la fa a uscire di casa, lui è indispensabile, il governo della casa ha bisogno di lui, rimane sempre qualcosa da mettere a posto, la casa non è a posto, ma se la casa non è a posto, senza questo appoggio non può uscire, questo lo fa capire anche la Bibbia, perché dice: «Mise a posto la sua casa» e Abramo aveva già prima tutto in abbondanza; se non avesse avuto la casa, dove mai avrebbe tirato su il figlio, su quale trave avrebbe riposto il coltello?......

... «E poi un altro Abramo. Uno che vuole assolutamente compiere il sacrificio nel modo giusto e ha intuito in modo giusto il senso di tutta la cosa, ma non riesce a credere che tocchi proprio a lui, a questo vecchio ripugnante e a suo figlio, quel giovane sporco. A lui non manca la vera fede, quella fede la ha, sacrificherebbe con la giusta disposizione d'animo, se appena riuscisse a credere che si tratta proprio di lui. Egli teme di uscire a cavallo in quanto Abramo con il suo figlio, ma di trasformarsi per via in don Chisciotte. Il mondo allora sarebbe inorridito, se avesse visto Abramo, ma questo Abramo teme che il mondo creperebbe dal ridere a vederlo. Ma non è il ridicolo in sé, che egli teme o meglio, teme anche quello, soprattutto quel ridere di tutti insieme, ma soprattutto teme che quel ridicolo lo renderà ancora più vecchio e ripugnante, e suo figlio ancora più sporco, ancora più indegno di essere chiamato. Un Abramo che viene senza essere chiamato! E' un po' come se il migliore allievo dovesse ricevere solennemente un premio alla chiusura dell'anno e in mezzo al silenzio trepido di attesa si facesse avanti l'allievo peggiore dal suo sporco ultimo banco, perché per errore ha sentito fare il suo nome, e allora tutta la classe scoppia a ridere. E forse non ha neppure sentito male, il suo nome è stato davvero pronunciato, è il maestro che intende fare in modo che la premiazione del migliore sia anche una punizione del peggiore. «Cose terribili basta». In una lettera a Scholem, pochi mesi prima di morire, Benjamin accennò alla sua ultima scoperta su Kafka: «...io penso che la chiave per Kafka cadrebbe nelle mani di colui che riuscisse : a estrarre dalla teologia ebraica i suoi aspetti comici. C'è mai stato un tale uomo? o forse ce la faresti tu a esserlo?». Con la sua usuale crudezza, Rancé ricordava nelle sue lettere che dobbiamo tutti considerarci pecore al macello, tanquam oves occisionis. Victor Hugo: «Il vangelo fa di Dio un pastore. La Trappa ne fa un macellaio». Ma i pastori, che proteggono il loro gregge, via via lo macellano. La pratica laica dell'eufemismo, di cui Hugo è qui una voce, permette di percepire soltanto l'immagine idillica del pastore. Nessuna critica del sacrificio, se si pone (come Hugo) al di fuori del sacrificio, scalfisce la coazione a uccidere, che permane, taciuta, nel suo potere intatto. Solo alcuni popoli altaici, pastori e allevatori che praticavano il sacrificio, hanno saputo elaborare in cerimonia la più radicale critica del sacrificio. «I Tatari della regione di Minussink usavano sacrificare al dio del tuono un cavallo vivo. Dopo aver sostato in preghiera sul luogo sacrificale tolgono le briglie al cavallo e lo lasciano correre via. Da questo momento in poi il cavallo è libero e intoccabile. I Buriati mettono anche una ciotola di latte sul dorso di questi animali consacrati al tuono. Il sacerdote che officia il sacrificio spruzza latte sul dorso dell'animale e al tempo stesso verso le quattro direzioni celesti. Quindi avvolge il cavallo in fumigazioni facendo bruciare delle erbe e la corteccia di un albero resinoso, poi lega dei nastri alla sua criniera, infine il cavallo viene spinto in libertà. Sul luogo dove la ciotola di latte cade dal dorso del cavallo si prega per avere salute e successo. Un animale consacrato in questo modo da quel momento in poi non viene più usato a servizio dell'uomo. Quando l'animale muore, la sua criniera e la sua coda vengono recise e poi legate a un altro cavallo, che dovrà sostituire il precedente». Allo scioglimento del nodo della vita, che si compie con l'uccisione dell'adorna vittima sacrificale, un solo altro scioglimento si può opporre con forza equivalente: quello delle briglie del cavallo prigioniero, che svincola la vita nella vita. Ma questa, che è l'unica opposizione adeguata al sacrificio, nasce all'interno del sacrificio stesso, calca i suoi stessi luoghi, indossa i suoi nastri, ripercorre i suoi gesti fino all'ultimo: allora le mani che stavano per congiungersi nello strangolamento si congiungono nel gesto dello sciogliere le briglie. Il cavallo scompare nella taiga, o continua a seguire il branco, ma come fosse invisibile, poiché nessuno può toccarlo e tanto meno usarlo. Nessuno potrà venderlo, nessuno potrà comprarlo. Quel cavallo bianco è il Doppio di tutti i cavalli, che la grazia permette di scorgere accanto agli altri: ma il Doppio non può essere usato, il Doppio può soltanto essere sprigionato. Sul luogo dove le briglie sono state sciolte tutto rimane come se fosse presente il corpo esanime della vittima: ancora sono nell'aria le fumigazioni dell'abete rosso, poiché siamo là dove vale il principio a non c'è fumo senza dio», la ciotola di latte è caduta per terra e, a seconda di come si è posata, si legge il favore o lo sfavore divino. Anche i nastri nella criniera mimetizzano il cavallo liberato nella vittima sacrificale. Ma c'è un ultimo passo, vertiginoso, con cui la cerimonia del cavallo consacrato risponde alla metafisica del sacrificio: la criniera e la coda vengono recise al cavallo liberato quando muore e attaccate a quello che lo sostituisce.

Si tocca qui il cuore del sacrificio: la sostituzione e si rovescia questa macchina mortale in un pegno di vita perenne: sostituendosi l'uno all'altro, nel corso delle generazioni, i cavalli bianchi sono come uno solo, che non muore mai. E' questo il punto di rovesciamento estremo del sacrificio: raggiunto in un tempo remoto, in una zona dell'Asia centrale punteggiata di reliquie sciamaniche, là dove si consacrano cavalli bianchi al tuono. Il passo successivo non è stato mai compiuto. Nessun uomo ha mai sentito la mano di altri uomini sciogliergli le invisibili briglie che gli circondano il collo. Nessuno è stato mai totalmente sottratto all. uso degli altri uomini. E quell'«essere usato al servizio dell'uomo» è intriso del veleno dello scambio, che lentamente, o talvolta bruscamente, uccide.